UN’ISOLA NEL MITO, 50 ANNI FA IL CAGLIARI VINCEVA LO SCUDETTO
NON SOLO SCOPIGNO “IL FILOSOFO”, E GIGI RIVA “ROMBO DI TUONO”
Lo scudetto del Cagliari (12 aprile 1970) è, secondo me, la più grande impresa calcistica del ‘900. Quando accadde avevo dodici anni e anch’io, come molti ragazzi di provincia, sognavo di rompere il filo dell’orizzonte che mi imbozzolava in un Veneto ancora bianco e bigotto. La Sardegna non era soltanto un’isola lontana, stava proprio dall’altra parte della luna. Non dico che non se ne sapesse nulla, ma i fatti di cronaca raccontavano solo di qualche omicidio e parecchi rapimenti.
Lo stesso Gigi Riva, nella incipiente primavera del 1963, quando si trattò di trasferirsi al Cagliari l’aveva bollata come “Africa”, ricevendo per tutta risposta un calcio nel sedere da Lupi, suo allenatore nel Legnano che lo aveva venduto ai sardi.
Ha raccontato Gigi: “All’Amsicora, lo stadio dove si giocava allora, non c’era un filo d’erba e io mi chiesi, un po’ sgomento, dove fossi capitato”. Invece non solo Riva divenne il simbolo di quel Cagliari vincente e scapestrato, ma fu il primo tra i calciatori ad indignarsi “quando dalle gradinate di mezza Italia ci gridavano pecorari”.
Scrivere di Riva è facile, ma si rischia di indicare la parte per il tutto, mentre intorno a lui c’era una squadra vera e in panchina un allenatore anomalo, ironico, anticonformista e dissacratore come Manlio Scopigno. Alto, ieratico, fumatore accanito come Zeman non era nè un tattico, nè uno stratega.
Chi lo paragona ai trainer olandesi non sa di calcio (gli improvvisatori sono in crescita esponenziale) o non ha mai visto quel Cagliari (molto probabile). Scopigno, invece, era un formidabile motivatore dai lunghi silenzi, un Herrera che parlava con lo sguardo lunare, un complice autorevole e perciò rispettato.
Una notte, durante un ritiro pre-partita, fece un giro delle stanze scoprendo che mezza squadra si era data appuntamento in quella di Riva: c’era chi giocava a carte e chi aveva bevuto lasciando più di una bottiglia sul pavimento. Tutti fumavano. Scopigno bussò, si fece largo nella fitta nebbia provocata dalle sigarette e, anzichè sbottare in urla e rimproveri, disse laconico: “Disturbo se partecipo?”. I calciatori prima abbozzarono, poi in fretta fecero sparire tutto e se ne tornarono a dormire. Il giorno dopo vinsero la partita.
Lo chiamavano filosofo perchè aveva l’aria da intellettuale e, forse, lo era pure, ma anche per certe sue esternazioni disarmanti in una società ancora borghese e per molti versi reazionaria.
Nell’anno dello scudetto, Scopigno fu espulso alla dodicesima giornata in occasione di Palermo-Cagliari 1-0, gol di Troia, prima delle due sconfitte di quella stagione memorabile (l’altra fu contro l’Inter, a marzo, gol di Boninsegna). L’arbitro Toselli annullò un gol di Riva per fuorigioco di Martiradonna che si stava dissetando sulla linea di fondo, il più passivo dei fuorigioco passivi. Scopignò aspettò che il guardalinee gli passasse accanto per dargli dello “stronzo”, ribadendo il concetto negli spogliatoi.
Secondo una versione più hard, invece, non si fermò alla parola stronzo. Più compiutamente disse: “Stronzo, smettila di sventolare quella bandierina e mettitela nel culo”. Versione più aderente alla squalifica: sedici giornate, più di metà campionato (allora si giocavano trenta partite), un’enormità . Scopigno apparentemente non se la prese: “In panchina d’inverno fa freddo, meglio stare in tribuna”. Al suo posto andò Ugo Conti, il fedele vice, ai tempi in cui i vice non pensavano di fare le scarpe al capo.
La squadra base non era solo un undici (Albertosi, Martiradonna, Zignoli; Cera, Niccolai, Tomasini; Domenghini, Nenè, Gori, Greatti, Riva), ma un tredici (Brugnera che in attacco suppliva all’assenza di chiunque, e Cesare Poli in mediana). In totale, però, furono sedici (Mancin, Nastasio e Reginato) i calciatori utilizzati.
Cera, un libero di prima grandezza, fu inventato in quel ruolo solo nelle ultime otto partite, ossia dopo Roma-Cagliari, per l’infortunio di Tomasini. Al suo posto, con il compito di incontrista, venne inserito Poli. La fortuna di Cera fu proprio l’infortunio di Tomasini e, in chiave nazionale, i due autogol di Salvadore contro la Spagna a Madrid. Il c.t. Ferruccio Valcareggi, ai Mondiali di Messico 70, optò per la coppia centrale del Cagliari (Cera, Niccolai) che partì titolare nella gara d’esordio con la Svezia. Durante la partita Niccolai si infortunò (“tutto pensavo nella vita tranne di vedere Niccolai in mondovisione” commentò sarcastico Scopigno) e gli subentrò Rosato.
Quel Cagliari era il prototipo di molte cose: una solidità finanziaria da grande club (anche se non si diceva il vero proprietario era la Sir di Nino Rovelli, lombardo al pari di Angelo Moratti, proprietario della Saras che deteneva il 30 per cento).
Un manager di specchiate capacità come Andrea Arrica, formalmente vicepresidente, ma di fatto general manager in grado di dialogare con la proprietà (fu lui a nominare presidente Efisio Corrias, democristiano ed ex presidente della Regione) e di stringere rapporti con le grandi società del continente. Infine un senso di appartenenza e un’identità territoriale che non ha precedenti. I giocatori si sentivano sardi a tal punto, dopo il ritiro dell’attività , di continuare a vivere a Cagliari. Tutti, tranne due: Albertosi, legato alla Toscana e Domenghini che, però, in Sardegna è tornato ad abitare da qualche anno.
Il Cagliari 1970, dunque, è anche una storia di emigrazione all’incontrario. Unico e indimenticabile.
(da “Huffington Post”)
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