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FESTA DELLA REPUBBLICA, GAFFE DI BERLUSCONI: TOCCA JUAN CARLOS PENSANDO FOSSE LA MINETTI

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

ABITUATO A PALPARE LE OLGETTINE, IL PREMIER DIMENTICA CHE IL PROTOCOLLO VIETA DI TOCCARE I RE E NAPOLITANO LO RIPRENDE… FORSE VOLEVA SPIEGARE ANCHE AL RE DI SPAGNA CHE IN ITALIA ESISTE UNA DITTATURA DEI MAGISTRATI?

L’inno di Mameli e poi le Frecce Tricolori hanno dato il via alla Festa con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che si è raccolto in un minuto di silenzio davanti al saccello che contiene la salma del Milite Ignoto.
Moltissime le persone arrivate da tutta Italia per assistere alla Parata su via dei Fori Imperiali, alcuni sono arrivati fin dall’alba per assicurarsi la prima fila dietro le transenne e godersi il passaggio delle truppe armate.
Qualche fischio ha accolto invece il premier Silvio Berlusconi anche lui all’altare della Patria con tutte le più alte cariche dello Stato.
Dopo l’omaggio al Milite ignoto, il presidente Napolitano è andato su via dei Fori Imperiali sempre a bordo della Flaminia scoperta indossando un cappellino bianco.
Una volta salito sul palco, ricevuto il saluto delle forze armate, Napolitano ha salutato le numerose delegazioni presenti.
Al centro del palco siedono, a fianco di Napolitano, Schifani alla sua destra e Fini alla sua sinistra. A fianco di Schifani, c’è poi il premier Berlusconi.
Alle 11 è partita la parata: i granatieri di Sardegna con le storiche uniformi del 1786 hanno aperto la sfilata seguiti dalle 5 bandiere storiche.
Il presidente della Repubblica per il 2 giugno ha inviato un messaggio al Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Biagio Abrate: «Oggi ricorre il sessantacinquesimo anniversario della nascita della Repubblica Italiana. Stamane, sul sacello del Milite Ignoto, ho rivolto il mio commosso pensiero a tutti i militari caduti per la difesa della Patria, al servizio e per la salvaguardia delle sue libere istituzioni. Ai militari italiani di ogni grado, specialità  e categoria vanno il plauso incondizionato dei cittadini, la riconoscenza delle popolazioni presso le quali ogni giorno essi prestano la propria opera di protezione e di assistenza. Ad essi va egualmente il rispetto dei Paesi alleati che di tale opera hanno imparato ad apprezzare sul campo il valore e l’efficacia. Viva le Forze Armate italiane, Viva l’Italia».
Il passaggio dei bersaglieri è stato forse tra i più applauditi della sfilata lungo i Fori che quest’anno ha una particolare attenzione per le uniformi e i mezzi d’epoca.
Un passaggio questo scandito da sorrisi e battiti di mano soprattutto tra i rappresentanti delle delegazioni straniere.
Tra i più incuriositi il vicepresidente Usa Biden che ha manifestato un grande entusiasmo applaudendo a più riprese. Biden, seduto tra il segretario generale della Lega Araba Amr Moussa e il presidente afghano Hamid Karzai, si è immerso nello spettacolo della parata consultando frequentemente il programma.
Più di 80 delegazioni e 42 capi di Stato stranieri festeggiano i 150 anni dell’unità  d’Italia a
La tradizionale parata militare del 2 giugno ha un eccezionale parterre di ospiti internazionali, a cominciare dal vicepresidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e dal presidente russo, Dmitry Medvedev, con i quali Silvio Berlusconi avrà  un incontro trilaterale a Villa Doria Pamphili. Previsti colloqui anche con il segretario generale dell’Onu, Ban ki-Moon, il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e il presidente afghano, Hamid Karzai.
Dopo la parata, il programma dei festeggiamenti proseguirà  nel pomeriggio con un concerto al Quirinale cui farà  seguito un pranzo ufficiale offerto dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in onore dei capi delle delegazioni e delle loro consorti.
Tra gli europei, parteciperanno alle celebrazioni il presidente tedesco, Christian Wulff, quello austriaco, Heinz Fischer, ma anche il capo di Stato serbo, Boris Tadic e la presidente kosovara, la neo-eletta Atifete Jahjaga, oltre al re di Spagna, Juan Carlos.
Tra gli ospiti spiccano anche il leader dell’Anp, Abu Mazen, e il presidente israeliano, Shimon Peres. Già  arrivata a Roma anche la presidente argentina, Cristina Fernandez de Kirchner. Oltre all’Onu con Ban Ki-moon, molte altre organizzazioni internazionali sono rappresentate al massimo livello come la Fao con Jacques Diouf, la Lega Araba con Amr Moussa e l’Unione Africana con Jean Ping. Il re di Spagna Juan Carlos in tribuna (Reuters)
Il re di Spagna Juan Carlos in tribuna (Reuters)
Piccolo strappo al protocollo per il premier Berlusconi che ha toccato il re di Spagna Juan Carlos.
Lungo via dei Fori Imperiali stava per sfilare la banda dell’Arma dei carabinieri, quando il premier ha lasciato il suo posto accanto al presidente del Senato Renato Schifani, si è alzato e si è avvicinato alla testa coronata iberica toccandogli il braccio per dirgli qualcosa. Il re ha sfoderato un sorriso di circostanza e il Cavaliere è tornato al suo posto.
Poco dopo, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, si è sporto verso Berlusconi dicendogli qualcosa e muovendo il braccio come a mimare il movimento di toccare.
A quel punto il premier si è alzato nuovamente avvicinandosi ancora una volta al re Juan Carlos, dicendogli qualcosa, ma senza toccarlo.
Come è noto re e regine (come anche l’imperatore del Giappone) non si possono toccare, nè si può stringere loro la mano a meno che non siano essi stessi a fare la prima mossa.
La sfilata è stata aperta da 5 Tricolori che rappresentano l’evoluzione del vessillo attraverso un cammino di 214 anni «nonchè dal Tricolore di Oliosi, simbolo per eccellenza dell’Unità  d’Italia e del sentimento patriottico».
La parata si è articolata in tre settori.
Il primo, di carattere storico-rievocativo, ha raccontato le origini dello Stato unitario, le Guerre d’Indipendenza, la Grande Guerra, la II Guerra Mondiale e la Liberazione, attraverso le tradizioni, le gesta e le uniformi d’epoca di Esercito, Marina, Aeronautica, Carabinieri e di tutti gli altri Corpi armati e non dello Stato.
Il secondo settore era dedicato alle missioni internazionali cui le Forze armate italiane partecipano in tante regioni del mondo, dall’Africa all’Europa, dal Medio Oriente all’Asia, all’America. Presenti anche reparti in rappresentanza di Nazioni che hanno operato e operano a fianco dei nostri militari all’estero, quali la Francia, la Germania, il Regno Unito, la Slovenia, gli Stati Uniti, l’Ungheria, nonchè 35 ‘Gruppi bandiera’ di Paesi amici ed alleati.
Il terzo settore ha visto protagoniste «eccellenze e specificità  italiane», con reparti d’elite, altamente specializzati e mezzi d’avanguardia dell’industria nazionale, «per evidenziare un binomio di professionalità  e tecnologia – affermano allo Stato maggiore della Difesa – cui contribuisce l’intero Sistema Paese».
La manifestazione si è conclusa con la sfilata dei reparti a cavallo ed il consueto passaggio della Pattuglia Acrobatica Nazionale, le Frecce Tricolori, che hanno salutato dal cielo il pubblico e la città  di Roma con la sua scia tricolore.
Conclusa la parata militare, la festa per il 2 Giugno si sposta in piazza Venezia.
Migliaia i cittadini che affollano la storica piazza romana con bandiere tricolori.
Tanti bambini e le famiglie, mentre all’Altare della Patria suona la Fanfara dei Bersaglieri, e successivamente è previsto un concerto della banda militare interforze.

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ANGELINO JOLIE, SEGRETARIO A SUA INSAPUTA

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

GRAZIE A CERVELLI COME IL SUO IL GOVERNO NON HA AZZECCATO UN DECRETO CHE STESSE GIURIDICAMENTE IN PIEDI: DA QUELLO SUL NUCLEARE ALLA LISTA POLVERINI, DAL LODO AL LEGITTIMO IMPEDIMENTO, DAL LODO ALFANO COSTITUZIONALE ALLE INTERCETTAZIONI… IL SUO ALIBI E’ CHE NON SA MAI QUELLO CHE FA

Qui, a furia di buone notizie, rischiamo di abituarci troppo bene e poi, quando la pacchia sarà  finita, precipitare in crisi di astinenza.
Non bastando le disfatte dei berluscones a Milano e Napoli e, ieri, la decisione della Cassazione contro lo scippo del referendum antinucleare, arriva la notizia di Angelino Al Fano segretario del Pdl e, se tutto va bene, anche del ritorno di Scajola al governo (ovviamente a sua insaputa).
Certo, come leader del partito, Giuliano Ferrara sarebbe stato proprio l’ideale: in un paio di settimane, grazie al suo bacio della morte, del Pdl non sarebbe rimasta traccia alcuna.
Ma non si può avere tutto dalla vita.
Anche Angelino Jolie, visti i precedenti, offre valide garanzie di catastrofe, e in tempi brevi.
Infatti la sua nomina ha gettato in un comprensibile sgomento i pochi dirigenti Pdl ancora dotati di qualche grammo di materia cerebrale.
Poi le loro proteste si sono notevolmente affievolite dinanzi alla minaccia del Cainano di nominare l’altra sua pupilla: la Gelmini.
Ora si spera che quel gran genio di Angelino si metta subito all’opera: nonostante l’impegno distruttivo del trio Verdini-La Russa-Bondi, resta ancora molto da fare.
Il partito, per quanto mal in arnese (10 punti persi in tre anni), resta pur sempre il primo d’Italia.
Ci vorrà  il migliore Alfano, al massimo della forma, per portarlo rapidamente all’estinzione.
Il tiroideo avvocaticchio agrigentino promette bene.
Le sue doti forensi restano misteriose perchè, per fortuna dei potenziali clienti, non ha mai esercitato in tribunale.
Ma le sue virtù di giureconsulto, quelle sì, sono note e collaudate: è grazie a cervelli come il suo se il governo non azzecca un decreto (memorabile quello che doveva annullare il referendum sul nucleare e quello che doveva sanare le irregolarità  della lista Pdl-Polverini: due colpi in acqua).
Jolie esordì tre estati fa da par suo: una bella legge incostituzionale per salvare il padrone dai processi, che lui per misteriosi motivi chiamava “lodo”. Ovviamente la Consulta lo rase al suolo dans l’espace d’un matin.
Ci riprovò col processo breve, cioè morto, ma faceva talmente schifo che persino Napolitano storse il naso e financo il Pdl lo accantonò.
Allora partorì il “legittimo impedimento”, incostituzionale pure quello, à§a va sans dire: per metà  lo fulminò la Corte, all’altra metà  penseranno gli italiani al referendum del 12-13 giugno.
Lui spremette le meningi e, procurandosi un’ernia al cervello, scodellò il “lodo Alfano costituzionale”: poi, con un disegnino, gli spiegarono che per le leggi costituzionali ci vogliono i due terzi e quattro passaggi parlamentari, dunque col suo superlodo poteva incartarci il pesce.
Allora escogitò la legge-bavaglio sulle intercettazioni, il suo capolavoro: il giudice può intercettare solo se ha già  scoperto il colpevole del reato. Obiezione: se l’ha già  scoperto, che cazzo lo intercetta a fare?
Nuova ernia al cervello. Intanto le carceri scoppiano: lui annuncia un “piano carceri” dietro l’altro, naturalmente senzache accada nulla.
La Giustizia, giorno dopo giorno, evapora.
E lui la osserva defungere con l’aria assente del passante, come se la Costituzione non gli assegnasse il compito di garantirne “l’organizzazione e il funzionamento”.
Ma quello è l’articolo 110 e lui non ha ancora capito il 3.
Del resto ha seri problemi pure con l’aritmetica.
Un giorno annunciò alla Camera che, “secondo miei calcoli empirici non scientifici, è intercettata una grandissima parte del Paese… fino a 3 milioni”. In realtà , secondo calcoli scientifici non empirici, gli italiani intercettati ogni anno sono 6 mila (non “la grandissima parte del Paese ”, ma lo 0,0001% della popolazione).
Due mesi fa dichiarò che il disastro colposo si prescrive in 22 anni (invece di 12 e mezzo). I suoi dati empirici non scientifici vanno dimezzati, per avere quelli veri.
E dire che lui dovrebbe intendersene, di disastri.
Mai dolosi, però. Sempre colposi. O preterintenzionali.
Il suo alibi è che non sa mai quello che fa.

Marco Travaglio

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L’ANGELINO SALVATORE DEL PDL DIROCCATO: E SILVIO INVENTA IL LODO ALFANO

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

IL PREMIER IN CRISI NOMINA ALFANO SEGRETARIO DEL PDL, UNA CARICA CHE NON ESISTE NEMMENO NELLO STATUTO (CHE INFATTI ORA BISOGNA MODIFICARE)… LE CORRENTI INTERNE IN GUERRA, NESSUNO VUOLE FARE IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

Sul far della Seconda Repubblica, per sopravvivere il berlusconismo è costretto a ricorrere alla figura più classica dell’ancient règime: quella del segretario politico.
Una svolta talmente imprevista per il Pdl, che adesso bisogna cambiare pure lo statuto del partito e poi far ratificare tutto dal Consiglio nazionale. Una liturgia da teatrino della politica.
Palazzo Grazioli, alle sei di ieri pomeriggio.
La disfatta di B. alle amministrative non porta ad alcun Venticinque Luglio, come era ormai chiaro da giorni. Palazzo Venezia è lì, proprio di fronte, ma il Gran Consiglio dell’Ufficio di Presidenza del Pdl cinquanta persone tra ministri, sottosegretari, governatori, capigruppo, capicorrente, notabili in ordine sparso, le “scomparse” Santanchè e Brambilla, finanche i “piccoli” centristi Giovanardi e Rotondi – assomiglia a un consesso degno della migliore tradizione dorotea.
Una rivoluzione che fa a dire all’ex andreottiano Cirino Pomicino, oggi nell’Udc: “Ci hanno messo vent’anni per fare un segretario, anzi hanno perso vent’anni”.
Così il quarantenne Angelino Alfano, prediletto del premier, diventa l’uomo del giorno. B. e i signori della guerra del Pdl balcanizzato affidano a lui il nuovo incarico.
Dopo le modifiche statutarie, entro la fine di giugno il Consiglio nazionale lo consacrerà  burocraticamente: un lodo Alfano per Alfano stesso.
Per la serie: nascita del partito pesante teorizzato un tempo dall’ex dc Claudio Scajola contro la versione light di Marcello Dell’Utri. Che non a caso, in questa svolta, si trovano su sponde opposte. Alfano, oltre a essere l’Unto dell’Unto del Signore, è infatti espressione di un blocco moderato, mette insieme la fondazione Liberamente (Frattini e Gel-mini), gli ex An di Alemanno e Matteoli e Scajola, appunto. Contro, nonostante l’unanimismo di facciata: i triumviri Verdini (proposto a suo tempo come coordinatore unico da Dell’Utri) e La Russa, i falchi alla Santanchè, i capigruppo parlamentari Cicchitto e Gasparri.
Ad aprire la riunione è stato B., ovviamente.
Ha ripetuto la litania dei motivi della sconfitta: blocco mediatico dei comunisti, crisi economica, candidati sbagliati. In conferenza stampa aggiunge: “Abbiamo tenuto i conti in ordine e pagato dazio perchè stiamo al governo. Sono orgoglioso di non aver messo le mani in tasca agli italiani. Ma sono fiducioso: ancora oggi il Pdl è sopra il Pd di quattro punti. La sinistra è patetica: ha vinto con candidati non suoi”. Sul blocco mediatico: “Annozero micidiale interverremo in Parlamento. Colpa di Santoro e della sua visione distorta sulle città  in cui si votava: sfido chiunque abbia visto quella trasmissione a scegliere la nostra parte”. Quindi la benedizione ad Alfano: “È giovane e ben voluto. Saprà  ridare slancio al partito. È falso che il Pdl stia implodendo. Siamo uniti, superata la formula delle quote 70 a ex fi e 30 agli ex an”.
La conferenza stampa finisce a sorpresa. Si presenta Gianfranco Mascia del Popolo Viola che vuole parlare del referendum: “Vi spazzerà  via”. B. non risponde e Mascia viene portato via di peso.
Per salvare il Capo, i gerarchi si democristianizzano.
E se tensione deve esserci, quella è contro Giulio Tremonti, nemico della riforma fiscale.
Ma il capolavoro di B. è mantenere in vita anche il triumvirato. Nessuno a casa, nemmeno il povero dimissionario Sandro Bondi: lui, Verdini e La Russa resteranno a coordinare, forse propaganda e organizzazione.
È il metodo del Cavaliere, come conferma un fedelissimo: “Berlusconi non rimuove mai nessuno, semmai aggiunge”.
Poi, sia chiaro, in tv a metterci la faccia, soprattutto contro Bersani, ci andrà  Alfano, ritenuto dal premier “il migliore” nelle performance da talk-show. Come vuole sempre la tradizione dc, il segretario politico si dimetterà  dagli incarichi di governo.
E questo significa far salire a due le caselle da riempire nell’esecutivo di Palazzo Chigi: Giustizia e Politiche comunitarie.
Sul successore di Alfano al ministero di via Arenula si è già  scatenato un surreale psicodramma nel Pdl.
Tra le prime file nessuno aspira “a questa rogna”, per dirla con le parole di un berlusconiano, e molti temono una telefonata di B. che imponga “il sacrificio”. Il più ostinato a dire no è stato sinora Fabrizio Cicchitto, che ai suoi ha confidato: “Mi massacrerebbero”.
Altro candidato, Maurizio Lupi. Il ciellino che si vuole emancipare da Formigoni ha fiutato la trappola e aspetta che finisca positivamente il pressing su Cicchitto. Il suo vero obiettivo, infatti, è diventare capogruppo.
Cicchitto, Lupi e persino Elio Vito, l’ex radicale oggi ministro per i Rapporti con il Parlamento. Completa la rosa dei papabili, Anna Maria Bernini.

Fabrizio d’Esposito
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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QUEI GIOVANI CHE NON POTRANNO MAI PERMETTERSI DI COMPRARE UNA CASA

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

LAVORI PRECARI, REDDITI BASSI, GENITORI IN DIFFICOLTA’ ECONOMICA…PER MOLTI GIOVANI COMPRARE UNA CASA RESTA UN SOGNO…SETTE MILIONI DI PERSONE TRA I 18 E 34 ANNI VIVONO ANCORA IN FAMIGLIA, MAGARI CON UNA LAUREA IN MANO E UNO STIPENDIO DI 1.000 EURO….GLI INGLESI LI CHIAMANO “GENERATION RENT”, LA GENERAZIONE IN AFFITTO

La casa di proprietà ? Sogno impossibile, privilegio di pochi, desiderio di molti, nella realtà  una sfida perduta.
Almeno per chi ha 30 anni, un lavoro precario, amici precari, genitori in affanno e nonni con le pensioni desertificate a furia di aiutare figli e nipoti.
Gli inglesi la chiamano generation rent, generazione affitto, e non è più soltanto una metafora per indicare i ragazzi della Rete, oggi giovani adulti che del nomadismo e della flessibilità  hanno dovuto fare il loro stile di vita.
No, la generazione “rent” (20-45 anni) è quella che davvero le case non le comprerà  più, non le possederà  più, che non avrà  più il capitale neppure minimo per stabilizzare le proprie radici, come scrivevano ieri mattina molti quotidiani inglesi, a cominciare dal Guardian.
È il mondo di chi già  ora vive in affitto, coabita, fa crescere le comunità  di cohousing, universitari, coppie, ma anche neo-famiglie e, a sorpresa, sempre più professionisti all’inizio della carriera.
Ma tra questi c’è anche chi la casa l’ha perduta.
Perchè incapace di rispettare mutui e impegni stipulati prima della crisi, quando magari il lavoro c’era e anche un po’ di risparmi accantonati con fatica giorno dopo giorno. Tutto bruciato.
La “generazione rent” dicono gli economisti sta portando ad un cambiamento radicale del concetto di proprietà , un problema europeo ma anche molto italiano.
Infatti. l’Italia è il paese dei piccoli proprietari (74% delle famiglie possiede le “quattro mura”) ce l’hanno fatta anche i baby boomers a comprarsi una casa, adesso però il sogno è finito, per i figli la strada sarà  ardua, come dimostra un recentissimo studio firmato dalla Cgil e dal Sunia, il Sindacato Nazionale degli Inquilini, dal titolo emblematico «La casa nel percorso di autonomia delle nuove generazioni».
Partendo da alcuni numeri fondamentali: nel nostro paese ci sono 7 milioni di giovani tra i 18 e i 34 anni che vivono ancora in famiglia.
Il 60% di questi percepisce un reddito mensile inferiore ai mille euro.
E i cosiddetti «milleuristi», secondo una proiezione dell’Università  Cattolica di Milano, saranno nei prossimi anni almeno 15 milioni di famiglie.
«E se teniamo conto che l’affitto medio di un trilocale nella zona semicentrale di una grande città , non è inferiore ai 1100 euro al mese, e che in 10 anni il costo delle case è aumentato del cento per cento — spiega Laura Mariani, responsabile delle Politiche Abitative della Cgil — si capisce come per un’enorme fetta della popolazione non solo l’acquisto, ma anche l’affitto, siano diventati una sfida impossibile».
Con l’aggravante che per gli italiani la casa è famiglia, cultura, radici, legame antropologico con le origini.
Per questo la “generazione rent” nel nostro paese rischia di pagare un prezzo più alto che altrove.
«Sia per un affitto che per stipulare un mutuo si chiedono garanzie ormai impossibili per oltre il 60% della popolazione, in particolare i giovani, che hanno redditi incerti e lavori precari. Il mondo è cambiato — afferma Laura Mariani — ma sia i proprietari degli appartamenti che gli istituti di credito si comportano come se fossimo ancora nell’Italia del posto fisso… Per uscire da questa morsa, che costringe i giovani a restare in casa ben oltre l’età  adulta o fa precipitare le famiglie sotto la soglia di povertà  perchè strozzate dai canoni di locazione, si deve rilanciare l’edilizia sociale, quella delle cooperative, dei prezzi equi. Ma anche per le case popolari si è passati dai 35mila alloggi del 1985 ai 2000 di oggi, mentre le domande degli aventi diritto sono oltre 600mila».
E se è vero che i ragazzi italiani sono un po’ più familisti dei loro coetanei nordeuropei, è vero anche che l’83% dei giovani che vivono in famiglia vorrebbe andarsene al più presto.
Perchè? Desiderio di indipendenza economica, voglia di sposarsi o convivere, spinta al misurarsi da soli con la vita.
«Ma la rigidità  del mercato immobiliare — aggiunge il demografo Alessandro Rosina, che al tema del “blocco” dei giovani ha dedicato più di uno studio — fa sì che nel nostro paese anche la “generazione rent”, che potrebbe trovare lavoro muovendosi, spostandosi, accettando incarichi e contratti lontano da casa, non può cogliere queste occasioni perchè i salari sono troppo bassi rispetto agli affitti».
Si calcola infatti che per poter affrontare un canone da 1000 euro al mese, se ne dovrebbero guadagnare 2500 per non finire sul limite dell’indigenza.
«Per noi — dice ancora Rosina — entrare nell’era in cui la casa non è per sempre è davvero uno strappo culturale, a cui i trentenni non sono preparati. Sono figli di una tradizione familiare dove fino a 15 anni fa il percorso preordinato prevedeva lavoro sicuro, matrimonio e casa di proprietà , magari con diversi decenni di mutuo. Caduta però la rete di protezione di nonni e genitori, e senza un welfare pubblico di supporto, i giovani adulti si sentono in uno stato di fragilità  che li porta a posticipare tutto: convivenze, figli, l’età  adulta insomma».
Addio al mattone dunque?
A giudicare dalla nuova corsa selvaggia all’edificazione che in pochi anni ha stravolto molte periferie urbane, sembra di no.
Ma non saranno certo quei 15 milioni di persone con mille euro al mese di stipendio, a potersi permettere i nuovi condomini chiavi in mano degli hinterland metropolitani. Eppure, aggiunge il sociologo Vanni Codeluppi, dentro questa “generazione rent” ci sono frammenti e fermenti di cambiamento.
«È vero, l’impoverimento della classe media ha generato per i ragazzi un modo di vita assai meno sicuro di quello dei loro genitori. Ma le soluzioni — ipotizza Codeluppi — sono in sintonia con l’idea di flessibilità  e nomadismo che è propria di un mondo giovanile che con l’incertezza sa di dover convivere. Spartire un affitto, coabitare, vuol dire mescolare esperienze, non essere chiusi, in fondo è la stessa globalizzazione della Rete».
In effetti in tutto il Nord Europa come negli Stati Uniti, il cohousing è una realtà  consolidata, un modo di fare famiglia tra le categorie più diverse, gli anziani, le mamme sole, nuclei familiari che si aiutano tra di loro.
E diverse “comunità  abitative” sono nate a Milano, in Piemonte, in Emilia Romagna, sia come condivisione affitti, che come veri e propri gruppi d’acquisto di case-villaggio.
Mentre sono attivissimi i siti che propongono agli studenti e ai giovani lavoratori appartamenti in cui abitare in più persone, piccole tribù che si incontrano sul web. Basta scorrere “Easystanza” o “Coinquilini. it”, dove sul modello del francese “Colocation” (130 mila richieste al giorno), o il britannico “Easyroommate” (due milioni e 700mila giovani iscritti), migliaia di studenti hanno trovato casa, scegliendo però i coinquilini attraverso dettagliate schede, dove si precisa, anche, l’orientamento sessuale.
«La famiglia d’origine — conclude Codeluppi — è un porto sicuro, ma poi bisogna andare via, spiccare il volo. È troppo importante per la formazione di un giovane, ed è davvero punitiva questa resistenza del mercato che blocca il desiderio di autonomia. È però vero che in Italia c’è bisogno di un salto culturale, spesso sono i genitori stessi a non spingere i ragazzi fuori. Ma la famiglia-nido è un modello in crisi, e non soltanto per fattori economici, a giudicare dal numero delle separazioni e dei divorzi: in realtà , come affermano alcune teorie, le società  occidentali avanzate si stanno tribalizzando, nel senso di una vita a gruppi, dove ciò che conta sono i legami tra soggetti, tra individui, non per forza uniti dai legami di sangue».

Maria Novella De Luca
(da “La Repubblica“)

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L’ASCESA DI TOSI, IL LEGHISTA ERETICO CHE DISTURBA I FEDELI DI BOSSI

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

HANNO GENERATO GELOSIE LE SUE FREQUENTI APPARIZIONI IN TV…HA VINTO IL CONGRESSO PROVINCIALE AZZERANDO IL CANDIDATO LOCALE DI BOSSI…GOBBO E BRICOLO COSTRETTI A RINVIARE I CONGRESSI A TREVISO E PADOVA PER TENERE BLOCCATA UNA SEGRETERIA REGIONALE A RISCHIO….E TOSI SI PUO’ PERMETTERE DI DISERTARE PONTIDA E VENEZIA

Domenica, il candidato del sindaco di Verona alla guida provinciale del Carroccio ha sbaragliato i rivali vicini al Senatùr.
Ma dal territorio, la forza del primo cittadino scaligero si sta espandendo, complici la notorietà  televisiva e gli atteggiamenti filo-istituzionali degli ultimi mesi.
E nel partito c’è chi giura che lui miri a scavalcare i luogotenenti di Bossi per puntare alla successione
E’ solo questione di tempo, ma con Flavio Tosi tutta la Lega Nord presto o tardi dovrà  fare i conti.
Lui, intanto, ha cominciato a farseli per bene domenica a casa sua.
Mentre Bossi perdeva sindaci, province e voti in Lombardia e Piemonte, lui vinceva a mani basse in un congresso provinciale bulgaro.
Non solo perchè s’è tenuto a porte chiuse — una cosa che non s’era mai vista prima nel movimento padano alle prese con gli spifferi del dissenso — ma anche per la vittoria schiacciante (più del doppio dei voti) del suo candidato.
Paolo Paternoster, presidente della municipalizzata di Verona ha surclassato il vice capogruppo alla Camera Alessandro Montagnoli, candidato ufficiale dei bossiani, che non sono nemmeno riusciti a far eleggere un loro delegato nel direttivo.
Uno schiaffo per Gian Paolo Gobbo, il segretario veneto fedelissimo soldato di Bossi che pensava di riuscire a porre un argine allo strapotere di Tosi.
Un messaggio forte e chiaro da affidare all’ambasciatore Federico Bricolo, capogruppo al Senato del Carroccio, perchè lo trasmetta nell’ormai famoso “cerchio magico” del Senatùr.
Tosi non freme e non scalpita, è un’attendista che, smesse definitivamente le irruenze giovanili e verbali, ha imparato a coltivare la pazienza.
E infatti il sindaco che non ha paura di distinguersi con dichiarazioni e comportamenti borderline rispetto all’ortodossia padana, non si danna più di tanto se proprio Gobbo e Bricolo continuano a rimandare l’indizione dei congressi di Treviso e Padova, necessari per concludere l’iter che porterà  all’assise regionale per la nuova leadership della Liga Veneta.
Movimento federato alla Lega, ma sempre subalterno al fiuto oggi un po’ appannato di Bossi. Una conta che i vertici al momento non vogliono affrontare, temendo i numeri di Tosi e i suoi. Meglio procrastinare finchè non si trova un altro nome in grado di contrastare l’astro nascente veronese, magari confidando che sia proprio l’indefinita attesa a logorarlo.
Oppure che anche lui inciampi in uno scivolone in diretta nazionale, mentre siede a scelta al Tg3 o da Gad Lerner “colpevoli” di averlo sdoganato come volto di un’altra Lega dialogante.
A Tosi, sotto le mentite spoglie di semplice sindaco di una città  bella e importante ma certamente non centrale nei destini di una nazione, alcuni non perdonano il profilo politico che si è andato costruendo fuori dai percorsi ufficiali di partito.
Essersi accreditato come una sorta di voce ufficiale ma alternativa della Lega, consultata da media e politica con la stessa frequenza che si riserva solo al leader.
Ma anche la relazione stabilita in tempi non sospetti col presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che il 19 giugno sarà  per l’ennesima volta ospite del sindaco, anche a costo di sfidare apertamente via Bellerio sul tricolore e l’inno di Mameli.
Non è sfuggito che al Capo dello Stato si sia poi dovuto allineare anche Bossi negli ultimi mesi, quasi che a dettare la linea politica sia diventato ora il municipio di Verona dell’ambizioso sindaco non-sindaco, osservano i maligni.
Lui, che al solito non andrà  a Pontida a giugno, nè a Venezia a settembre, sta chiuso in quello che sarà  il suo ufficio ancora per i prossimi dodici mesi.
Il prossimo anno nella città  scaligera si vota, ma nei piani di Tosi ci sono ben altre successioni da preparare che non quella a se stesso o al solo Gobbo.

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INDIGNADOS: I GIOVANI D’EUROPA SI SVEGLIANO SUL WEB E SI MOBILITANO PER CHIEDERE LAVORO E DIGNITA’

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

RIFORMA ELETTORALE PROPORZIONALE, LOTTA ALLA CORRUZIONE, SEPARAZIONE DEI POTERI, FORME DI VIGILANZA DEI CITTADINI SULLA POLITICA, CONTROLLO DEL SISTEMA BANCARIO, MISURE PER GARANTIRE IL DIRITTO ALLA CASA, AGEVOLAZIONI PER LE AZIENDE CHE ASSUMONO…UNA PIATTAFORMA CHE NON E’ DI DESTRA O DI SINISTRA, SOLO DI BUON SENSO

Madrid. Due settimane. Quasi niente, ma anche un’eternità .
Soprattutto se si pensa che lo straordinario spettacolo di un movimento nato dal nulla, capace di occupare in contemporanea decine di piazze schivando pesanti ostacoli legali, e di raccogliere in un baleno mezzo milione di simpatizzanti sui social network, è un fenomeno del tutto inedito nella storia d’Europa.
Tanto da aver subito provocato — in quello che qualcuno vede già  come l’inizio di un inarrestabile “effetto domino” — il primo significativo contagio nel Paese che è il vero “grande malato” del continente: le migliaia di “indignati” greci che da giorni protestano sulla piazza Sintagma di Atene contro le durissime misure di austerità  del governo Papandreou, hanno risposto a tempo di record all’appello che arrivava dalla Puerta del Sol.
“Svegliatevi”, hanno detto loro gli amici spagnoli, ormai convinti che a Madrid “stiamo riscrivendo la storia”.
Non ci hanno pensato due volte: una pagina su Facebook, una martellante campagna su Twitter, e anche la Grecia si è messa in moto, senza etichette partitiche, con la consegna irrinunciabile al pacifismo, e poche idee chiare capaci di convogliare nelle piazze la rabbia popolare.
E’ l’effetto miracoloso delle wiki-revoluciones, come le ha battezzate il sociologo Manuel Castells. Rivolte digitali frutto di un lavoro collettivo, dove alla fine è impossibile attribuire il merito o la colpa di quello che sta accadendo a un singolo individuo,o a un gruppo ristretto di persone.
Senza leader, a differenza della politica tradizionale,ma con una capacità  di far circolare idee e proposte a un ritmo forsennato grazie a Internet.
E poi basta un clic del mouse per far scattare il passaggio dal virtuale al reale.
Dal computer alla piazza.
Il problema, semmai, viene dopo. E in Spagna stanno cominciando a pensarci seriamente. Perchè sta tutto qui il senso della sfida, tanto grande da provocare una sensazione di vertigine a chi ci si è trovato in mezzo.
Come consolidare e rendere produttiva un’energia che nessuno immaginava potesse esplodere con la forza che si è vista in questi quindici giorni?
In altre parole: cosa vogliono fare da grandi i protagonisti del movimento “15M”?
Ne discutono senza sosta, giorno e notte, in decine di assemblee, non più solo nelle grandi piazze dei centri storici (proprio ieri a Madrid hanno convocato 250 riunioni in tutti i quartieri della capitale e nei comuni vicini).
Dal nucleo iniziale che ha dato vita alla protesta del 15 maggio — Democracia Real Ya — diventato ormai solo una piccola parte di un meccanismo molto più vasto e complesso, era partita una proposta di programma in otto punti, nella convinzione che da quella bozza si potesse arrivare a un consenso generale.
Si andava dall’eliminazione dei privilegi della classe politica, con la pubblicazione obbligatoria dei patrimoni e l’ineleggibilità  per gli imputati di corruzione, a una serie di misure contro la disoccupazione, tra cui il pensionamento a 65 anni, agevolazioni per le aziende con minore percentuale di contratti part time e proibizione dei licenziamenti collettivi nelle imprese in attivo.
Da una serie di misure per favorire il diritto alla casa, alla soppressione di posti inutili nella pubblica amministrazione.
Dai provvedimenti fiscali (aumento delle imposte sulle grandi fortune, tassa sulle transazioni internazionali) a un controllo più rigido sul sistema bancario, con la nazionalizzazione degli istituti in difficoltà  e la proibizione dei piani di salvataggio pubblici.
E poi ancora: riforma della legge elettorale in senso proporzionale e referendum vincolanti su questioni di grande interesse.
Programma vastissimo, forse troppo, tanto che alla fine hanno deciso di limitarlo, almeno in partenza, a quattro punti essenziali: riforma elettorale, lotta contro la corruzione, separazione effettiva dei poteri, creazione di meccanismi di controllo della cittadinanza sulle decisioni della politica.
Il guaio è che, con le regole snervanti della democrazia strettamente assembleare che gli indignados si sono imposti, qualcuno comincia a dubitare che si possa arrivare a decisioni concrete.
Ancora è presto per capire se ci troviamo di fronte a una versione riveduta e aggiornata del Maggio francese 1968 o, al contrario, a un grande e inconcludente happening.
“Meno circo e più rivoluzione”, ammonisce un grande striscione affisso alla Puerta del Sol.
Ma lì, nel cuore della protesta, tra tende da campeggio e grandi stand, banchetti per la raccolta di firme e biblioteca, ufficio informazioni e capannelli dove chiunque prende in mano un megafono ed espone le proprie ragioni — al vecchio stile dello Speaker’s Corner londinese — si vede ormai un po’ di tutto.
Compreso l’angolo “dell’amore e della spiritualità ”, con sessioni di yoga e tai chi, massaggi orientali e momenti di riflessione.
Con le telecamere dei grandi network puntate addosso — dalla Cnn alla Bbc ad Al Jazeera — i giovani della Spanish Revolution sentono il peso di una responsabilità  forse troppo grande. Dimostrare che “costruire una democrazia migliore” è possibile.
I migliori sociologi osservano, in parte smarriti, e cercano di capire.
C’è chi, come Javier Elzo, specialista nel comportamento e nei valori della gioventù all’Università  di Deusto, si chiede: “Cos’è rimasto dell’indignazione degli studenti francesi che lo scorso anno si ribellarono contro la riforma del sistema pensionistico?”.
O, per citare un caso più recente, cosa resterà  della mobilitazione dei book bloc britannici, in rivolta contro l’aumento delle tasse universitarie?
In Portogallo, un movimento nato appena due mesi fa, “Geraà§ao a rasca” (generazione nei guai) sembra aver già  esaurito la sua carica innovativa.
Ma lo scontento per un modello economico che crea emarginati, precari e nuovi poveri, si è ormai esteso su scala continentale.
E non è più limitato ai Paesi “fanalino di coda”.
Persino la solida Germania scuote alle fondamenta la classe politica.
Per il momento penalizzando alle urne i cristiano-democratici della cancelliera Angela Merkel, e premiando i Verdi come non era mai accaduto in passato.
Il futuro dirà  se il vento di Madrid, con le sue raffiche per ora irregolari ma ancora poderose, sarà  capace di raggiungere l’intera Europa.

Alessandro Oppes
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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LE IMPRESE VENETE NON SI FIDANO PIU’ DEL GOVERNO

Giugno 2nd, 2011 Riccardo Fucile

INTERVISTA A MARIO POLEGATO, MISTER GEOX, QUELLO DELLA SCARPA CHE RESPIRA

Lui è Mister Geox, quello della scarpa che respira, ma ora dalla scarpa tira fuori anche qualche sassolino.
“Spero che il governo sappia intervenire in tempo con le riforme che gli industriali stanno chiedendo a gran voce, prima che diventi troppo tardi. Altrimenti si rischierà  di aggiungere confusione a un caos che ormai dilaga, e allora non so cosa può succedere”.
Non è mai stato così categorico Mario Moretti Polegato, 59 anni, patron della Geox di Montebelluna, quotata a Piazza Affari , 850 milioni di ricavi nel 2010.
Cosa ne pensa del sentimento di solitudine crescente negli imprenditori, manifestato con la marcia degli industriali di Treviso e con la Confindustria di Vicenza che esclude i politici dal palco?
Ho appena finito di sentire la relazione della Banca d’Italia, dove Draghi solleva una forte preoccupazione per le mancate riforme e auspica che il governo acceleri gli interventi a favore dell’impresa. È anche la nostra posizione, senza il rilancio dell’economia questo Paese si paralizzerà .
Cosa chiedete voi industriali al governo?
Questo governo si è occupato più di mantenere la stabilità  dei bilanci che di sostenere una politica industriale. Oggi quindi dovrebbe mantenere la stessa stabilità  di bilanci da una parte e dall’altra favorire tutte le iniziative di crescita e di sviluppo economico. Siccome in questo momento sembra invece che il governo tergiversi o comunque non sia rapido, questo provoca un forte malcontento di tutta la forza produttiva, perchè gli imprenditori si confrontano ogni giorno con il mercato mondiale, e hanno bisogno di un appoggio diverso dalla politica.
Appoggio che attualmente manca?
Spero che le riforme arrivino prima che il conflitto tra mondo imprenditoriale e politica si inasprisca ulteriormente. Le iniziative di Treviso e Vicenza sono pacifiche manifestazioni per dare segnali al governo che deve accelerare tutte le riforme indispensabili.
Quali riforme vi aspettate?
Quelle che servono per fare impresa: dalle detrazioni fiscali per chi assume giovani agli incentivi per chi fa formazione interna, a chi investe sui processi innovativi e sui macchinari altamente tecnologici fino agli incentivi per favorire le esportazioni. Uno degli elementi cruciali evidenziati anche all’assemblea di Treviso dalla Marcegaglia sono gli uffici di rappresentanza italiana all’estero, dalle ambasciate all’Ice, che attualmente sono istituti che servono poco nulla.
Insomma gli imprenditori vogliono aiuti economici?
Non chiediamo denaro. Vorremmo uno Stato con molta meno burocrazia, snello ed efficiente come le nostre imprese. Invece oggi si crea un enorme dispendio di energie, che aggrava la crisi economica e provoca la sfiducia nello Stato, fino ad arrivare a questa lacerazione profonda che stiamo vivendo. Ora però siamo arrivati ad un punto cruciale, i toni cominciano ad inasprirsi e si sta creando un malcontento generale diffuso tra gli industriali. Del resto lo stesso governo ormai riconosce in maniera aperta di non avere fatto la sua parte nei confronti della crescita e dello sviluppo del Paese.
E Confindustria dove lei ha un ruolo importante nel direttivo che ruolo ha deciso di avere?
Confindustria sta facendo e farà  di tutto per far accelerare il governo su questi temi.
Che idea si è fatto dei ballottaggi di questi giorni e di un eventuale “riposizionamento” della maggioranza?
Il fatto che forze diverse dalla maggioranza abbiano conquistato delle città  importanti è uno stimolo per la politica attuale, un segnale che devono correre ai ripari e soprattutto fare quelle riforme di cui il Paese ha bisogno. Un tempo i veneti lamentavano di non essere rappresentati a Roma, ora ci sono diversi ministri veneti ma gli imprenditori si sentono sempre più soli. Oggi il problema dell’imprenditore non è più di avere uno e due ministri a Roma, ma il sentirsi completamente solo nel proprio lavoro.
Gli imprenditori veneti sono un grande bacino elettorale del centrodestra, votano Lega e Pdl. C’è un progressivo uno scollamento con l’attuale governo?
È sicuramente così. Per rimarginare questo sentimento di sfiducia occorrono fatti concreti, occorre che il governo intervenga immediatamente sui provvedimenti a favore di chi possiede un’impresa: detassare gli investimenti per le nuove assunzioni, favorire l’estensione delle aree produttive.

Della Frattina Erminia
(da “Il Fatto Quotidiano“)

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