Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
“PATETICO E DESOLANTE, NO GRAZIE” : IL MAESTRO RIFIUTA L’ONOREFICENZA CHE L’ASSEMBLEA CAPITOLINA, AL SECONDO TENTATIVO, ERA RIUSCITA A CONFERIRGLI… IL PDL E’ RIUSCITO ANCHE QUESTA VOLTA A SPUTTANARE L’ITALIA NEL MONDO
Sembrava aver raggiunto finalmente un lieto fine la vicenda Roma-Riccardo Muti.
Invece a sorpresa, il direttore d’orchestra non sarà cittadino onorario della Capitale.
«No grazie» ha detto, anzi ha scritto, in un fax inviato al sindaco Gianni Alemanno da Salisburgo dove il Maestro si trova in questi giorni.
E al quotidiano romano “Il Messaggero” racconta che «gli echi che mi sono arrivati da Roma sulla questione li ho trovati patetici e desolanti».
«Mi ha fatto sorridere un’associazione di idee – afferma Muti – la vicenda della cittadinanza fa il paio con l’incredibile storia della laurea honoris causa conferitami diversi anni fa, ero ancora il direttore musicale della Scala, dall’università La Sapienza di Roma».
Il maestro ricorda che in occasione del conferimento da parte del mondo accademico, dopo un concerto, nell’ateneo ci fu una diatriba tra gli studenti e il rettore e l’università non portò a termine la cerimonia di conferimento della laurea.
«Dopo anni c’è stato un tentativo di allestirla durante le recite del marzo scorso all’Opera, in occasione del Nabucco: ho preferito, dopo tanto tempo, lasciar cadere la cosa».
Muti spiega che la storia della cittadinanza onoraria di Roma «si è arenata in pastoie di un livello che ho definito basso solo per il mio ostinato spirito di collaborazione».
Lui che ha «ricevuto tante cittadinanze onorarie, in Italia e all’estero. Credo una quindicina. L’ultima, di poco fa, dalla città di Trieste. Organizzazione e cerimonie di consegna sono tutte avvenute nel segno del rispetto, della felicità e dell’amicizia».
L’ex sociale sindaco di Roma Alemanno, invece che andarsi a nascondere dall vergogna ha commentato: «Credo che quello che conta sia il voto unanime del Consiglio comunale che mostra il vero consenso attorno al maestro”.
Alemanno esclude uno smarcamento del maestro dall’Opera: «Direi proprio di no, l’episodio è stato enfatizzato, ma Muti ha solo detto che non vuole una cittadinanza onoraria contestata ed ha ribadito la sua collaborazione con l’Opera di Roma».
Il caso Muti era scoppiato lo scorso lunedì 6 giugno, quando l’Aula Giulio Cesare non aveva potuto votare perchè saltato il numero legale per il gruppo dei Rampelliani pidielllini che avevano lasciato l’Aula per le solite liti interne alla maggioranza.
Poche ore fa Muti ha fatto capire loro cosa significhi rispetto, serietà e classe.
Quando non ci pensa direttamente il premier a sputtanare l’Italia a livello internazionale, c’è sempre qualche pataccaro locale del partito degli accattoni che riesce a farne le veci.
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Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
L’AUTO-ELOGIO DELL’UNTO DEL SIGNORE…”IO SONO IL PIU’ BRAVO, IL PIU’ BELLO, IL PIU’ CHARMANT”: HA DIRITTO A UNA CHIAMATA AL 118 PER UN RICOVERO COATTO O AD UN MONUMENTO ALLA MEMORIA
Il contratto con gli italiani, le gare di corsa vinte con la scorta, fra le manie di grandezza il più amato, il più popolare, il più tutto.
Non solo, ma occorre riconoscere che nel corso del tempo divertiva anche, quel vitalismo imperioso, quel narcisismo in caduta libera, quella faccia incredibilmente tosta.
Io, io, io, e giù numeri, sondaggi, trovate, storielle, paragoni, scherzosi o meno che fossero, io l’Unto, io Cesare, io Giustiniano, io Napoleone, io De Gasperi, io de Gaulle, io Gesù, io e Dio che si lamenta perchè in Paradiso «l’ho fatto vicepresidente», ah-ah.
Per cogliere al meglio la dinamica adulatoria che di norma accompagna e incoraggia questo genere di spettacoli, occorre osservare l’espressione concentrata e poi anche il sorriso inesorabilmente fantozziano con cui il ministroAlfano, ieri pomeriggio, nella sala stampa di Palazzo Chigi, ancora una volta ha accolto l’auto-magnificazione del Cavaliere e del suo governo.
In un video di 2 minuti e 40 il presidente Berlusconi sostiene che gli italiani «dovrebbero farci un monumento»; che lui sta «nella vetta della considerazione» internazionale; che è «il più esperto» fra gli altri leader del mondo per il suo «passato pieno di successi» che lo «distingue grandemente», lo mette «un gradino sopra» e «mi fa tycoon»; che lui pure all’università era bravissimo, mica solo Angelino ormai in ridente estasi al suo fianco, tanto che ha preso 30 e lode «anche in procedura civile» e quanto a intelligenza, e qui si è pure concesso un preziosismo latino, «intuslegere», non «è secondo a nessuno».
Ma stavolta l’effetto è stato straniante, e anche un po’ triste.
Non solo per la faccia appesa, il colorito terreo, la voce meno convinta del solito.
E dinanzi all’autoelogio spinto, era come se un velo si fosse all’improvviso tolto dagli occhi, finalmente capaci di i n tus legere, appunto, leggere dentro.
E mentre il Cavaliere proseguiva il suo numero, era inevitabile ripensare con malinconico distacco agli allegri e impetuosi e perfino efficaci accessi di megalomania berlusconiana del passato, alle sapide sbruffonate di quella dinamica psicopolitica ormai al tramonto: dalle coppe calcistiche vinte e scagliate sui nemici alle ville che sono talmente tante «che alcune nemmeno le conosco»; dalle innumerevoli conquiste femminili alle ridottissime ore di sonno dell’iper-lavoratore, che dove passava «fermava il traffico» e sempre sognava in grande, al punto da costruirsi anzitempo un mausoleo nel parco, e un bunker, e un teatro greco, e una pizzeria, un lago con isola per meditare, e una gelateria con la cassa che dà gli scontrini, e un vulcano che a comando fa un boato, e partono anche i fuochi, a Villa Certosa, che dopo la prima eruzione, Ferragosto 2007, gli ignari vicini chiamarono i vigili del fuoco.
Il Contratto con gli italiani, le Grandi Opere, il lenzuolone delle realizzazioni, il Modello Universale dell’e-government, il miracolo dell’immondizia e quello dell’Aquila e «Meno male che Sil vio c’è».
Sembra incredibile che tutto questo stia finendo.
Che Berlusconi non racconterà più che ha sfidato e battuto i ragazzi della scorta sui cento metri; e non porgerà più la mano dicendo: «Toccatela, ha fatto il grano»; nè più si alzerà i pantaloni o la manica della camicia per mostrare i graffi e i lividi procuratisi nei bagni di folla perchè la folla lo voleva toccare, «mi gridavano Santo subito!».
Eh, brutto spettacolo è l’agonia di un regno.
AI la fine della sua conferenza Berlusconi ha raccontato l’apologo trito e ritrito di zia Marina che davanti allo specchio, in dialetto milanese, si faceva le moine venerando la propria bellezza perchè «se non me lo dice nessuno, me lo dico da sola».
Ed è un curioso destino che la vita degli italiani sia funestata dalle zie dei presidenti.
Quella di Andreotti si chiamava Mariannina e diceva sempre: «Tutto si aggiusta».
Che come si può vedere non sempre è vero, anzi quando un potere si rompe, sempre al di là dei proverbi, di solito nessuno paga, ma i cocci sono di tutti.
Ceccarelli Filippo
(da “La Repubblica“)
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Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
IL TESORO PREPARA MISURE PER 40 MILIARDI, IL PREMIER PARLA DI RIDUZIONE DELLE TASSE TRA DUE ANNI, OVVERO QUANDO NON CI SARA’ PIU’
“Io non devio di un centimetro dagli impegni presi con la Ue e con il Quirinale”.Quello siglato tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti sembra solo un compromesso dalle fondamenta piuttosto fragili.
Basato su una formula linguistica che ha un solo obiettivo: evitare la sconfitta ad entrambi.
Ma si tratta di un risultato di breve periodo.
Un modo che permette al premier di annunciare la riforma fiscale e cantare vittoria con i suoi fedelissimi con un battagliero «l’ho piegato».
E al ministro dell’Economia di ribadire: «Io non devio di un centimetro. Sarei stato piegato se avessi accettato di tagliare le tasse senza il pareggio di bilancio».
Eppure, nelle prossime settimane I’affaire rischia di riproporsi in tutta la sua forza.
Perchè uno dei pilastri della tregua riguarda il debito pubblico.
«Silvio–ha fatto notare il titolare del Tesoro ad alcuni ministri – ha detto ciò che solo qualche giorno fa non voleva dire: l’abbattimento del debito si farà . E nulla si farà in deficit».
Il saldo, insomma, sarà “zero”.
Questo, dicono al Tesoro, è il «presupposto» ineliminabile.
Un promessa questa che nella tregua armata trai duerappresenta un elemento portante. Anche perchè nel delicato colloquio che “Silvio e Giulio” hanno avuto ieri prima del consiglio dei ministri è stata concordata una «premessa» rispetto alla legge delega per il taglio delle tasse: il governo varerà preliminarmente un maxidecreto che fissa tutte le misure di rientro dal debito da qui fino al 2014.
Con un importo complessivo vicino ai 40 miliardi di euro.
Di cui circa tre miliardi da rintracciare subito («manutenzione dei conti», viene definita).
Altri cinque nel 2012. E tutti gli altri dovranno essere recuperati nel biennio 2013-2014.
«Misure specifiche–è stata la richiesta del ministro al capo del governo – di come correggeremo il bilancio da presentare alla Commissione europea, luogo di compensazione, e ai mercati, luogo di collocamento».
Ma – è l’avvertimento – queste cifre sono valide solo «in via prudenziale» e «se non si spende di più».
«Questo–ha ribadito all’inquilino di Palazzo Chigi – si aspettano i mercati e l’Europa».
Questo è il percorso per il quale l’Italia ha firmato le sue garanzie per tentare di avvistare la soglia del 60% nel rapporto debito/pil.
Anche l’ultimo faccia a faccia, dunque, non ha affatto diradato le nuvole che si sono addensate sul governo e sul rapporto tra i due contendenti.
«Almeno – si è sfogato il Cavaliere – cerchiamo di armonizzare il linguaggio». Certo, il premier ieri ha abbandonato i toni ultimativi. Nello stesso tempo continua a non fidarsi del suo interlocutore.
E’ convinto che il percorso parlamentare di questi provvedimenti sia costellato di trappole.
Sa che la riforma fiscale – seppure depositata entro l’estate – avrà un iter parlamentare lunghissimo. Almeno di un anno. Le leggi delega sono così.
E difficilmente andrà in vigore prima del 2013.
Ma è soprattutto l’importo della “sforbiciata” a rappresentare un gigantesco punto interrogativo: basti pensare che un punto di Irpef vale circa 7,5 miliardi.
«Si fa come dico io», aveva minacciato il capo del governo ieri mattina vedendo Gianni Letta. Con Tremonti poi il vocabolario utilizzato è stato leggermente diverso: «La responsabilità del governo è mia, non tua». Il rapporto è logoro. La sfiducia reciproca evidente.
Il presidente del consiglio non è più sicuro di aver trascinato dalla sua parte Umberto Bossi.
Il vertice nottumo di martedì notte, ad esempio, è stato il frutto di un caso.
Tremonti e il Senatur stavano per andare a cena in un ristorante di Ciampino (nei pressi dell’aeroporto militare) e il programma è saltato per la telefonata imprevista del premier: «Se state insieme – ha sollecitato con un certo allarme – venite a mangiare da me».
Tant’è che il chiarimento a tu per tu tra il ministro dell’Economia e il capo lumbard è slittato a mercoledì sera nel ristorante del Senato.
«Capisco le tue ragioni – ha ammesso Bossi – so bene che cosa possano fare i mercati e che non ci sono i soldi. Soprattutto so bene che non si può prendere per il culo la gente. E non del la Lega abbiamo pagato più per le immagini in tv dei barconi in arrivo dall’Africa che non per la situazione economica».
«Berlusconi invece–si lamentava Tremonti – mi dice vai avanti tu che a me vien da ridere». Insomma il sentiero per il centrodestra e per il governo si conferma strettissimo.
Al di là del pressing di Palazzo Chigi, una riforma fiscale adesso resta comunque un’ipotesi da verificare.
Lo stesso Tremonti, che conta sul sostegno del presidente della Repubblica, ha fatto notare al premier che nel nostro bilancio, la componente strutturale è assolutamente preponderante. E quindi più difficile da incidere.
Non a caso al Tesoro stanno puntando i riflettori su quattro “tavoli di lavoro” che studiano come “estrarre” le risorse necessarie.
Ma di questi, sono duei settori “sensibili”.
Quell osulle “Agevolazioni fiscali”, presieduto da un uomo della Banca d’Italia come Vieri Ceriani e quello sullo “Stato sociale il fisco” guidato da Mauro Marè.
Dal primo si evince che il montante delle agevolazioni fiscali supera i 150 miliardi l’anno.
E alcuni studi fanno capire che basterebbe un risparmio del 10% per “conquistare” 15 miliardi di euro.
L’altro è ancora più interessante per l’Economia. Ma colpirebbe il sistema del “mondo assistenziale”.
Come spesso ripete il capo di Via XX Settembre «oggi rischiamo di dare poco a chi ha bisogno e un bell’assegno alle signore bionde che girano con il suv».
Una soluzione del genere implica comunque sacrifici pesanti.
La terza ipotesi riguarda lo “scambio” Irpef-Iva, ridurre le aliquote sulle persone aumentando l’imposta sui consumi.
«Lo scrivevo già nel ’91», ha ricordato Tremonti proprio nel colloquio con il premier di ieri.
Ma tutti gli studi devono essere in grado di reggere l’impatto di una crisi economica che potenzialmente potrebbe presto assumere connotati dirompenti.
A Via XX Settembre il “caso Grecia” è un fantasma che aleggia costantemente.
«La Grecia– dice da tempo il ministro– obbliga tutti al rigore».
E nonostante l’angoscia che sta stringendo d’assedio Palazzo Grazioli, Tremonti ripete ossessivamente a tutti la stessa regola di comportamento: «Vedere cammello, dare soldi». Abbassare il debito, tagliare le tasse.
Tito Claudio
(da “La Repubblica“)
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Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
IL MINISTRO ACCUSA IL PREMIER DI USARE I SERVIZI SEGRETI PER CONTROLLARE LE SUE MOSSE…TRA LORO RAPPORTI MAI STATI COSI’ TESI
Lo scontro è avvenuto in un faccia a faccia, lunedì all’ora di pranzo ad Arcore.
In quel momento nella residenza del premier c’era anche Umberto Bossi, ma non era nella stanza in cui solo Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti per pochi minuti si sono guardati negli occhi.
È stato il ministro dell’Economia ad avere uno scatto di nervi come mai è avvenuto in 17 anni di rapporto fra i due.
È stato uno scatto violento, che ha scosso Berlusconi e che ancora 24 ore dopo faceva sentire i suoi effetti.
Martedì il Cavaliere lo ha raccontato ad almeno tre interlocutori incontrati in giornata. Da loro abbiamo raccolto la versione che collima in ogni particolare su quel che sarebbe accaduto in quella stanza.
«Tu mi hai fatto spiare!», ha sibilato il ministro dell’Economia davanti a un Berlusconi esterrefatto. «Hai messo i servizi segreti alle mie calcagna!», ha proseguito Tremonti mentre l’interlocutore restava sbacalito, biascicando un «ma cosa stai dicendo?».
Minuti di gelo, terribile, cui sono seguite parole assai grosse, anche minacciose.
Una sorpresa, perchè se sono mille e poi mille i testimoni degli sfoghi del premier su Tremonti e del ministro dell’Economia su Berlusconi, i due non si sono mai affrontati a muso duro una volta messi di fronte.
Anzi, è sempre stato un “Giulio sei un campione!”, seguito “ma Silvio, figurati!”. Riferiscono collaboratori e amici che Tremonti da qualche settimana fosse assai più nervoso del solito, ed è effettivamente è sbottato in sfuriate a cui non erano abituati interlocutori di lungo corso.
Il nervosismo era giustificato dalla delicatezza del momento politico ed economico e anche dagli evidenti contrasti con il premier, accompagnati per la prima volta da una certa freddezza fra i vecchi amici della Lega Nord.
Lunedì, nell’istante topico dello scontro è entrato in stanza anche Bossi, che era arrivato ad Arcore insieme a Tremonti.
Ha sentito qualcosa e provato subito a stemperare le tensioni.
Poi per fortuna sono giunti in villa gli altri ospiti attesi e sia pure in un clima surreale è iniziata la riunione.
Riunione assai affollata, e poi c’era la festa dei carabinieri ad attendere gran parte degli invitati a Roma, in piazza di Siena.
Così si è reso necessario un secondo round, nella notte fra martedì e mercoledì. Il clima è stato quello immaginabile, eppure chi ha sentito ieri il Cavaliere non lo ha più trovato sotto choc, anzi.
Probabilmente come accade negli scatti d’ira, quel che si sono detti Berlusconi e Tremonti lunedì non ha più avuto seguito. Quando si sono nuovamente incontrati- non più a quattr’occhi- hanno fatto come nulla fosse avvenuto.
Ma il contrasto non è venuto meno.
Questa volta sui contenuti della manovra economica. Tremonti non si è mai spostato di un millimetro: bisogna varare subito i tagli da 40 miliardi in tre anni approvando la manovra prima dell’Ecofin dell’ultima settimana di giugno.
La riforma del fisco? Solo per legge delega, meglio se a settembre.
Berlusconi ha chiesto di non esagerare con la correzione sul 2011, e di spostare la manovra triennale 2012-2014 quasi tutta sul terzo anno.
Si è ipotizzato di spalmare i 40 miliardi così: 5-5 e 30 finali.
Il Cavaliere ha aggiunto: «anche 60 sul terzo anno, se vuoi».
Ma Tremonti non ha mollato, pronto a mettere come spesso è accaduto sul piatto le sue dimissioni.
Non lo ha fatto perchè questa volta è intervenuto Bossi. Non a sostegno del vecchio amico ministro, ma della tesi del premier: «non possiamo permetterci di più ora».
La sensazione è stata che se in quel momento il ministro dell’Economia avesse messo sul piatto le sue dimissioni, sarebbero state accettate senza proteste da parte della Lega.
Deve averlo capito bene anche Tremonti, che non ha replicato quando gli è stato detto: «se non te la senti di presentare tu le cose, possono arrivare per via parlamentare».
Lo scontro resta, e la tensione fra presidente del Consiglio e ministro dell’Economia (che pubblicamente ancora viene negata come sempre è accaduto), questa volta è assai seria.
Qualche preoccupazione ieri è venuta quando senza avere preannunciato l’iniziativa, Tremonti è salito al Quirinale per fare il punto con Giorgio Napolitano.
Ufficialmente ha spiegato al Capo dello Stato l’impianto della manovra (il suo) e il clima internazionale che l’accompagna.
Ma nessuno può escludere che sia stato riferito anche qualcosa del terribile scontro di lunedì.
Franco Bechis
(da “Libero“)
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Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
IL SETTIMANALE INGLESE DEDICA BEN 14 PAGINE AL PREMIER, DEFINENDOLO UN DISASTRO: “SOLO HAITI E ZIMBAWE HANNO FATTO PEGGIO A LIVELLO DI CRESCITA ECONOMICA NEGLI ULTIMI 10 ANNI”
”L’uomo che ha fregato un intero Paese”.
E’ questo il titolo di copertina dell’Economist in edicola stamane, sopra una foto a tutta pagina del premier.
All’interno uno speciale di 14 pagine dedicato all’Italia di Berlusconi.
Già in passato il settimanale britannico ha criticato il Cavaliere.
Nel 2001 sopra la sua immagine la scritta: “Perchè Silvio Berlusconi è inadatto a guidare l’Italia”.
Nel 2006 un invito: “Basta. E’ il momento per l’Italia di licenziare Berlusconi”.
“Mamma mia” nel 2008 dopo la vittoria elettorale.
E il giudizio sul premier non è lusinghiero nemmeno questa volta. “Nonostante i suoi successi personali, Berlusconi si è rivelato un disastro come leader nazionale per tre motivi”, si legge nell’editoriale.
Il primo è la “saga” del bunga bunga, il secondo sono i suoi “trucchi finanziari”, che lo hanno portato a processo per frode, truffa contabile e corruzione.
“Il terzo è di gran lunga il peggiore: il totale disinteresse per la condizione economica del Paese. Forse perchè distratto dai suoi problemi legali, in nove anni non è stato in grado come primo ministro di trovare un rimedio o quanto meno di ammettere lo stato di grave debolezza economica dell’Italia. Come risultato, si lascerà alle spalle un Paese in grave difficoltà ”.
“Grazie alla politica di rigore fiscale imposta dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti — continua l’editoriale – l’Italia ha evitato finora di diventare la nuova vittima della speculazione dei mercati”.
Ma questo non ha risolto il problema della mancanza di crescita economica.
Che contribuisce all’alto debito pubblico, “ancora al livello del 120% del Pil, il terzo più grande tra i Paesi ricchi”.
Nell’editoriale vengono poi elencati altri problemi: un quarto dei giovani sono senza lavoro, il tasso di impiego femminile è al 46% (il più basso nell’Europa occidentale), una produttività diminuita nell’ultimo decennio del 5%.
L’Italia, continua l’editoriale, è “ottantesima secondo l’indice “Doing Business” della Banca Mondiale, dietro a Bielorussia e Mongolia, e quarantottesima nella classifica sulla competitività del World Economic Forum, dietro Indonesia e Barbados”.
Tra i problemi del nostro Paese, scrive John Prideaux in uno degli articoli dello speciale, c’è la bassa crescita economica.
“Tra il 2000 e il 2010 la crescita media dell’Italia, misurata in Pil a prezzi costanti è stata pari ad appena lo 0,25% su base annua. Di tutti i Paesi del mondo, solo Haiti e Zimbabwe hanno fatto peggio. Sono molti i fattori che hanno contribuito a creare questo fosco quadro. L’Italia è diventata un Paese a disagio nel nuovo mondo, timoroso della globalizzazione e dell’immigrazione. Ha adottato un insieme di politiche che discriminano fortemente i giovani a favore degli anziani. Se aggiungiamo una forte avversione alla meritocrazia, ecco perchè molti giovani talenti decidono di emigrare all’estero”.
“L’Italia non è riuscita a innovare le sue istituzione — prosegue — ed è indebolita dai continui conflitti d’interesse in campo giudiziario, politico, dei media e finanziario. Questi sono problemi che riguardano la nazione nel suo insieme, non una provincia o un’altra. E questi problemi non sono stati risolti dalla permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi”.
Quando sparirà dalla scena politica, prosegue Prideaux, “Berlusconi avrà lasciato in eredità al Paese, un ulteriore indebolimento delle istituzioni, che già non erano solide all’inizio, e una maggiore tolleranza per i conflitti di interesse”.
E ancora: “Quindici anni di assalti verbali ai tribunali d’Italia hanno portato molti a credere che il sistema giudiziario sia costituito da una cricca di giudici sinistrorsi che cercano di indebolire il governo. Berlusconi e i suoi sostenitori hanno rafforzato questi attacchi sostenendo falsamente che Berlusconi non è mai stato condannato e che non ha mai avuto guai con la giustizia prima di entrare in politica”.
Mentre il premier pensava a ‘difendersi’ dai processi “sono state messe da parte le complesse riforme necessarie a far crescere l’Italia”.
Malgrado tutti i suoi problemi, comunque c’è ancora molto da ammirare in Italia, scrive il settimanale, e qui la citazione è per il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per Mario Draghi e la Banca d’Italia.
“Tuttavia, negli ultimi decenni — conclude Prideaux — il Paese è vissuto di rendita del miracolo economico della fine degli anni ’70. Potrebbe andare avanti in questo modo, impoverendosi e invecchiando sempre più, ma comunque restando a galla abbastanza agevolmente. Per il momento sembra che questa sia la cosa più probabile che possa accadere. Ma il Paese ha un bisogno disperato di un nuovo risveglio, come quello che portò all’unificazione 150 anni fa”.
”L’Italia ha tutte le cose che le servono per ripartire. Quello di cui ha bisogno è un cambio politico e di governo”, ha commentato Prideaux presentando lo speciale dell’Economist.
“Non farò l’errore di predire la fine di Berlusconi, ma parlando con le persone si inizia a sentire un’aria nuova, la fine di un’era”.
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Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
LA PRIVATIZZAZIONE E’ PARTITA DA 17 ANNI: DA ROMA, ALLA CAMPANIA, ALLA TOSCANA PIOVONO CONTESTAZIONE MENTRE EMERGONO SOSPETTI SULLE NORME DI SICUREZZA
La privatizzazione dell’acqua pubblica italiana, avvenuta negli ultimi 17 anni, non è stata fin qui un successo. Innanzitutto perchè ha peggiorato le cose per gli utenti.
Sono 114 le società che gestiscono il ciclo delle acque in Italia: 7 private, 22 a capitale misto con partner selezionato tramite gara, 9 controllate da società quotate in Borsa e 58 interamente pubbliche.
Ci sono problemi, sul fronte privato, a Roma e provincia, a Rieti, a Frosinone, in alcuni acquedotti toscani (sei aperture al mercato realizzate del centrosinistra), in Umbria, in Campania, in Sicilia.
Il rapporto fra utenti è gestori è sempre più conflittuale: bollette pazze, distacchi per morosità non riconosciute, letture contestate, calcoli imprecisi.
E problemi per la salute, come dimostra l’arsenico trovato in
concentrazioni elevate nei rubinetti dei Castelli romani e nel litorale della capitale.
L’Acea holding, quotata in Borsa, in mano al Comune di Roma al 51 per cento e con Francesco Gaetano Caltagirone primo privato con il 15, debiti per due miliardi e 350 milioni di euro, è la società che ha mostrato il maggiore interesse sul controllo dell’acqua.
Gestisce il servizio idrico in dodici aree italiane attraverso società controllate. Dalla capitale al Beneventano, dal Senese al Basso Valdarno all’Umbria al Trasimeno: 8 milioni e 400 mila utenti.
A Frosinone i cittadini hanno dichiarato guerra alla sua Ato5, società per azioni sull’orlo del crack visto il dissesto da oltre 40 milioni di euro. Investimenti promessi ai Comuni da servire mai realizzati e aumenti tariffari retroattivi (mai incassati per la ribellione degli utenti) nel tentativo di riempire la voragine del debito.
Una pessima gestione quella di Acea Ato5, passata nel frattempo dai manager graditi alla sinistra a quelli del centrodestra (con Gianni Alemanno azionista di maggioranza).
Oggi i vertici, che hanno preannunciato la consegna dei libri contabili al Tribunale fallimentare, sono sotto inchiesta alla Procura di Frosinone. Publiacqua, sede a Firenze, copre 49 comuni allargati su quattro province toscane e viaggia con deficit milionari da tre esercizi.
Il Comitato di vigilanza sulle risorse idriche del ministero dell’Ambiente ha comminato alla società una sanzione di 6 milioni e 200mila euro: non poteva chiedere ai clienti, insieme all’aumento delle tariffe, un “deposito cauzionale”. Acea Ato2 spa (Roma e Provincia) ha aumentato le tariffe, ma i suoi conti non sono in equilibrio.
E’ nell’acqua che distribuisce che sono state trovate tracce di arsenico.
Ad Aprilia (provincia di Latina) settemila famiglie si rifiutano di pagare gli aumenti alla società Acqualatina, partecipata dalla multinazionale francese Veolia: preferiscono continuare a versare “il giusto”, ovvero le tariffe decise dal Consiglio comunale, sul conto corrente del Comune.
La spa ha risposto scatenando Equitalia, il riscossore più potente del paese, e mandando i vigilantes ad abbassare la potenza dell’erogazione a chi praticava l’autoriduzione.
Il Consiglio comunale di Aprilia, con una sentenza del Consiglio di Stato in mano e sfidando la volontà della Provincia, ha già chiesto la restituzione dell’acquedotto anticipando così le istanze referendarie.
Il “giusto” pagato dai settimila ribelli ha portato nelle casse del Comune un milione di euro, base da cui ripartire per ripubblicizzare l’acquedotto. Domenica e lunedì, il Comitato acqua pubblica di Aprilia metterà a disposizione un’auto per accompagnare ai seggi le persone anziane.
Ad Arezzo, prima privatizzazione d’Italia (società Nuove Acque controllata da Acea e dai francesi di Gdf Suez), si pagano le terze tariffe più care d’Italia: in dieci anni sono raddoppiate.
Ad Agrigento dal 2007 governa la Girgenti Acque spa: dopo due anni i sindaci hanno chiesto la rescissione del contratto di gestione.
Erano arrivate bollette decuplicate, in alcune zone i comuni avevano dovuto far arrivare l’acqua con autobotti d’emergenza.
Non è certo che il ritorno al pubblico nei servizi idrici, auspicato dai referendari, possa restitutire acqua di qualità e a prezzo equo ai cittadini lasciando le casse degli enti locali in ordine.
Di certo, il sistema misto, pubblico-privato, in Italia ha fallito.
I sindaci si dichiarano impotenti, lasciando il governo dell’acqua ad
amministratori spesso lontani dal territorio, e si accontentano di ricevere dividendi e piazzare uomini graditi nel sottogoverno delle società municipalizzate.
I cittadini privatizzati sono furiosi: nel 2010 gli aumenti medi, ha testato la Federconsumatori, sono stati del 6,85 per cento con punte del 30 per cento a Carrara, Massa e Rieti.
In dieci anni gli aumenti sono arrivati al 6,3 per cento, il triplo dell’inflazione.
Corrado Zunino
(da “La Repubblica“)
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Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
PRESENTATO IL “RAPPORTO SUI DIRITTI GLOBALI”: SI AGGRAVANO POVERTA’ E VULNERABILITA’… I DATI SU LAVORO, CASA, SERVIZI SOCIALI, DIVERSITA’ DI SALARI
No, non siamo la Grecia e neanche il Portogallo. Ma dalla crisi non siamo certo passati indenni.
E non si tratta solo del Pil che arranca ancora faticosamente o della produzione industriale ben lontana dai livelli raggiunti qualche anno fa.
Si tratta di una nuova concezione dello Stato, che lascia indietro i più deboli, le persone senza lavoro, che stentano a pagare l’affitto, sempre più penalizzate dai tagli del welfare.
La crisi, insomma, ha segnato la fine dello “stato sociale europeo”. E’ la tesi conclusiva del “Rapporto sui diritti globali 2011”, promosso, oltre che dal sindacato Cgil, da diverse associazioni italiane, tra le quali Arci, ActionAid, Antigone, Legambiente.
Gli Stati europei, si legge nel rapporto, “stanno cercando di liberarsi dagli oneri derivanti dalla protezione degli strati sociali più deboli e dal mantenimento di una serie di servizi pubblici a suo tempo considerati essenziali per promuovere lo sviluppo economico-sociale e oggi ritenuti un fardello”.
Gli autori del volume citano Luciano Gallino: “Negli ultimi cinquant’anni il modello sociale europeo ha migliorato la qualità della vita di decine di milioni di persone e ha permesso loro di credere che il destino dei figli sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Ora il modello sociale europeo è sotto attacco nientemeno che da parte dell’Europa stessa”.
La scure sul welfare: spesa tagliata del 78,7%. Un “passaggio epocale”, dunque. Che rischia di passare inosservato.
E invece i segni per rendersene conto (e per cercare di fermare questa trasformazione che appare ineluttabile) ci sono tutti.
I tagli abnormi sulla spesa sociale in Italia, per esempio.
Il “Rapporto sui diritti globali” li elenca tutti, sottolineando come “dal 2008 al 2011 i dieci principali ambiti di investimento sociale hanno avuto tagli complessivi pari al 78,7%, passando da 2.527 milioni stanziati nel 2008 ai 538 milioni della legge di stabilità 2011”.
Il Fondo per le politiche sociali, per esempio, è passato dai 584 milioni del 2009 ai 435 del 2010 e arriverà nel 2013 ad appena 44 milioni.
Il Fondo per la famiglia è passato dai 346,5 milioni del 2008 ai 52,5 milioni attuali (il taglio è del 71,3%).
Il Fondo per l’inclusione sociale degli immigrati, finanziato nel 2007 con 100 milioni dal governo Prodi, è semplicemente sparito.
Sparito anche il “piano straordinario di intervento per lo sviluppo del sistema territoriale dei servizi socio-educativi per la prima infanzia”, che aveva avuto 446 milioni nel triennio 2007-2209.
Stessa fine per il “Fondo per la non autosufficienza”.
Poveri e “vulnerabili” in aumento.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti, ma emergono anche dalle fredde cifre, a cominciare da quelle dell’Istat, che rileva la “povertà relativa” e quella “assoluta”.
La povertà relativa oscilla tra il 10,2% e l’11,4% e negli ultimi anni è stabile.
Ma da un lato peggiorano le condizioni dei poveri, la loro “deprivazione”, e dall’altro comunque si registra un aumento nel Mezzogiorno.
Aumentano inoltre i “vulnerabili”, cioè i candidati a diventare i prossimi poveri.
Tra loro ci sono i bambini: il 22% dei minorenni vive in condizioni di povertà relativa in Italia e 650.000 (il 5,2%) in condizioni di povertà assoluta.
Questo spesso perchè i loro genitori sono cassintegrati: ha figli il 58,3% di chi usufruisce della Cig.
Chi perde il lavoro nel 72% è già in una situazione difficile. Ma ci sono anche i “working poor”, definizione statistica riferita a chi lavora, ma guadagna troppo poco. L’incidenza della povertà nelle famiglie con persona di riferimento occupata è dell’8,9% con oscillazioni tra il 4% del Nord e il 19,8% del Sud.
Gli operai stanno peggio (il 14,9% è working poor). E ci sono persino i lavoratori “poveri assoluti”, saliti al 3,6% dal 3,4% del 2008.
La casa sempre più un miraggio.
L’Italia, si dice sempre, è il Paese dei proprietari di casa.
Lo è infatti l’81,5% della popolazione.
Ma quel 17,1% in affitto si trova spesso in grave difficoltà : l’incidenza dell’affitto sul reddito ha avuto una crescita costante e tra il 1991 e il 2009 l’incremento dei canoni di mercato in città è stato pari al 105%.
Chi sta in affitto appartiene alle fasce meno abbienti, e quindi in media il canone “brucia” il 31,2% del reddito.
Non stupisce che quindi siano aumentati gli sfratti (+18,6% nel 2008 rispetto al 2007): il 78,8% sono per morosità .
Spesso, poi, si trova in difficoltà anche chi ha comprato la casa ma deve sostenere il rimborso di un mutuo oneroso: i 10.281 mutui sospesi all’inizio del 2010 a fine anno erano diventati 30.868.
All’impoverimento dei poveri dovuto alla crisi e favorito dal “restringimento” del welfare si contrappone un miglioramento delle condizioni dei più abbienti: l’Italia è al sesto posto nella classifica Ocse della diseguaglianza sociale, ricorda il rapporto.
Che elenca alcune “diseguaglianze tipo”: se il salario netto medio mensile è di 1.260 euro al mese, una lavoratrice guadagna il 12% in meno; un lavoratore di una piccola impresa (e in Italia sono la stragrande maggioranza) il 18,2% in meno; un lavoratore del Mezzogiorno il 20% in meno; un immigrato il 24,7% in meno; un lavoratore a tempo determinato il 26,2% in meno; un giovane lavoratore (15-34 anni) il 27% in meno e infine un lavoratore con contratto di collaborazione il 33,3% in meno.
argomento: economia, governo, povertà, radici e valori, sanità, scuola | Commenta »
Giugno 10th, 2011 Riccardo Fucile
SONO MOLTI I MINISTRI CHE SI ASTENGONO: BOSSI, GALAN, BRUNETTA E GIOVANARDI LO HANNO UFFICIALIZZATO…FINI E NAPOLITANO ANDRANNO A VOTARE
Chi invita a votare, chi non ci va mai «per principio», chi lascia libertà di scelta. A due giorni dall’ apertura delle urne dei referendum sull’acqua, il nucleare e il legittimo impedimento, si moltiplicano le dichiarazioni eccellenti in difesa di una o dell’altra posizione, o del diritto di non andare a esprimersi.
«Da quel che mi risulta Bossi non andrà a votare», fa sapere il capogruppo alla Camera della Lega, Marco Reguzzoni, nonostante nei giorni scorsi il leader del Carroccio avesse definito «attraenti» i quesiti sull’ acqua.
Nella Lega, come nel Pdl, la parola d’ordine è libertà di scelta.
Come il Senatùr, si asterranno vari esponenti del governo: da Gianfranco Rotondi a Renato Brunetta, da Giancarlo Galan a Carlo Giovanardi.
E una dichiarazione di non voto arriva anche dall’amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni: «Non voto mai a nessun referendum per principio, perchè quello abrogativo lo trovo una follia».
Contro chi, tra gli eletti, invita a non votare, si scaglia Beppe Grillo: «E’ inammissibile che chi ricopre una carica pubblica inviti la gente a non andare a votare, andrebbe denunciato».
Tra chi invece di sicuro andrà ai seggi, c’è il presidente della Camera Fini, che sottolinea di aver apprezzato il capo dello Stato Napolitano «in particolare quando ha detto che andrà a votare ai prossimi referendum».
Gli inviti al voto arrivano dagli ambienti più disparati: dall’arcivescovo di Chieti, Bruno Forte («l’acqua è di tutti e deve essere per tutti») al sindacato di destra Ugl, che invita a dare due sì sull’acqua e sul resto libertà di scelta, fino alla strana coppia Bonelli dei Verdi e Rampelli del Pdl, ieri in conferenza stampa congiunta per chiedere un «sì» al quesito sull’atomo.
Ma mentre le tifoserie sfruttano gli ultimi giorni utili per convincere gli elettori, ecco che si affaccia un problema non di poco conto sul voto degli italiani all’ estero.
Sulla validità dei voti già espressi sul vecchio quesito «ogni decisione è riservata agli uffici competenti per legge».
Una notizia che suscita subito agitazione: il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, presenterà alla Cassazione un’istanza perchè i connazionali fuori dai confini non vengano conteggiati nel calcolo del quorum finale, «non vorremmo che finissero cornuti e mazziati: non hanno potuto esprimersi e rischiano anche di essere decisivi per l’affossamento del referendum».
Dal Pd ricordano che il Viminale deve «trasmettere i dati sulla partecipazione e sullo scrutinio», mentre il radicale Staderini avanza dubbi «sulla regolarità del voto degli italiani all’estero per tutti e quattro i referendum».
argomento: Bossi, Brunetta, Costume, elezioni, governo, la casta, PdL, Politica, radici e valori | Commenta »