Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
ATTESO APPUNTAMENTO PER LA DESTRA GENOVESE CON IL DIRETTORE DELLA RIVISTA MOVIMENTISTA E IL VICEPRESIDENTE DELLA COMMISSIONE ANTIMAFIA…. I DUE ESPONENTI FINIANI PARLERANNO NELLA PRESTIGIOSA LOCATION DI PALAZZO DUCALE, IN PIAZZA MATTEOTTI… FUTURO E LIBERTA’ PER UNA GENOVA FUORI DAGLI STECCATI
Due voci fuori dal coro, sicuramente due esponenti di area finiana fuori da schemi precostituiti e dal carattere anticonformista che li ha portati ad assumere posizioni anche “provocatorie”. Filippo Rossi è stato uno degli intellettuali di riferimento di FareFuturoweb per lungo tempo, fino alla realizzazione del nuovo progetto “il Futurista” che ha assunto sia la forma redazionale sul web che la cadenza settimanale in edicola.
Animatore di Caffeina e organizzatore di numerosi confronti con intellettuali di aree diverse, Filippo è uno spirito libero, slegato da schemi culturali pregressi, convinto che la destra del futuro vada fondata su nuovi presupposti, costruiti attraverso un percorso nuovo e comune, patriottico, laico e repubblicano.
Le stesse basi, ma in chiave politica, sono l’elemento che caratterizzano Fabio Granata, considerato uno dei più stretti collaboratori di Gianfranco Fini nella nuova avventura di Futuro e Libertà .
Fabio è un punto di riferimento per la Destra che difende la legalità , il rispetto delle Istituzioni e della magistratura.
Nelle sua veste di stimato vicepresidente della Commissione Antimafia è stato protagonista di numerose iniziative a sostegno degli operatori della giustizia e della sicurezza nella lotta che portano avanti contro la criminalità mafiosa in territori difficili come in Sicilia.
Si è impegnato nell’opera di moralizzazione della casta politica, proponendo un rigoroso codice etico per chi entra nelle Istituzioni.
Spesso ha rappresentato l’anima critica anche in Futuro e Libertà convinto che nella coerenza delle scelte politiche risieda il futuro di una destra deberlusconizzata che ambisca un domani a governare il Paese.
Un partito nuovo che sappia volare oltre i vecchi schematismi e le tradizionali alleanze., per ritornare a parlare di valori, di idee e di programmi.
La presentazione de “il Futurista” è fissata per le ore 18 di giovedì 23, a Genova , nella splendida cornice di Palazzo Ducale (P.za Matteotti 5, primo piano) e nella prestigiosa sala (g.c.) della Società di Letture e Conversazioni Scientifiche.
Ora che lo sapete, cercate di esserci…
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
EX SOCIALI ED EX SINDACALISTE, PROPRIETARI DI CASE A LORO INSAPUTA E PATACCARI: SI SVEGLIANO SOLO ORA CHE QUATTRO CIALTRONI VOGLIONO TOGLIERE I MINISTERI A ROMA…. MA DOV’ERANO QUANDO LA LEGA FACEVA PASSARE LEGGI VERGOGNA SUGLI IMMIGRATI O QUANDO BOSSI SOSTENEVA CHE COL TRICOLORE SI PULIVA IL CULO?
Il Pd presenterà domani, durante l’esame del decreto sviluppo alla Camera su cui il governo ha posto la fiducia, un ordine del giorno contro la richiesta della Lega di spostare la sede di alcuni ministeri al Nord su cui la Camera dovrà pronunciarsi.
Lo ha annunciato il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini, nel corso della conferenza del partito sulla sicurezza a Roma.
Franceschini ha definito “patetica” l’immagine di un governo che pensa di spostare i ministeri. La proposta della Lega del trasferimento delle sedi ministeriali, secondo il dirigente democratico, è “una patetica operazione di immagine che noi porteremo al voto”.
“Pontida 2011 e i discorsi che si sono sentiti mi sono sembrati quelli di Abatantuono nel film Attila e gli Unni”, ha sottolineato Franceschini.
“Su questa vicenda – ha aggiunto – li porteremo al voto domani in occasione del decreto sullo sviluppo. Visto che i ministri leghisti hanno tanta voglia di tornare al Nord lo possono fare e lo faranno, dopo il risultato delle amministrative e dei referendum, ma senza i loro ministeri, che resteranno nella capitale”.
Valutazioni simili a quelle del Pd arrivano anche da Cei e Confindustria. “La chiesa deve da un lato frenare queste mire secessionistiche, dall’altro deve rimotivare dall’interno, con forte valenza biblica, la passione dell’intraprendere dei cristiani”, dice Giancarlo Maria Bregantini, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali, il lavoro, la giustizia e la pace.
Secondo il vescovo, intervistato da Radio vaticana, la proposta di spostare i ministeri al nord sarebbe inoltre “un gesto di grandissimo disprezzo del sud”.
“La Lega paradossalmente – conclude Bregantini – ripete gli errori che rimprovera a Roma”.
Quanto agli industriali, secondo la presidente dell’associazione di categoria Emma Marcegaglia, “questi non sono temi veri del Paese”.
“I temi veri – osserva – sono il bilancio a posto, la riforma fiscale, le liberalizzazioni, investire in ricerca e innovazione. Il resto mi sembra un po’ propaganda”.
L’argomento continua comunque a rimanere centrale nel dibattito politico, alimentando nuove tensioni all’interno della maggioranza.
Il duro confronto tra Lega da una parte e la componente romana e meridionalista del Pdl (Gianni Alemanno e Renata Polverini su tutti) dall’altra, preoccupa in particolare il capoguppo alla Camera Fabrizio Cicchitto.
“E’ in atto un confronto . afferma – ma è sbagliato drammatizzare sia da parte di chi è al Nord e sia per chi è a Roma che dovrebbe occuparsi di governare la Regione e il Lazio. Va detto che non riteniamo possibile rompere l’unità dello Stato, ma è possibile ragionare sul decentramento di alcune sedi sulla base di alcune esperienze passate”.
Dpo tre anni in cui il governo ha vissuto sotto ricatto costante della Lega, dopo aver assistito a vergognosi cedimenti a politiche razziste da parte del nostro governo, censurate a livello internazionale da tutti i massimi organismi preposti, ora nel Pdl si svegliano gli ex sociali e le ex sindacaliste,gli ex proprietari di case pagate a loro insaputa e i pataccari vari: tutti uniti per difende due ministeri da Disneyland.
Quello del Paese dei balocchi che si è inventato Calderoli per giustificare la sua esistenza (nonchè gli stipendi di 70 suoi dipendenti, pagati dal contribuente italiano) e quello del federalismo patacca che sarà causa solo di un aumento delle tasse locali. Fosse per noi vorremmo che fosse già in vigore ora e non tra 10 anni: per non perderci la scena dei padagni che inseguono con il forcone i leghisti che gli hanno imposto il federalismo.
Ma dategli quei due ministeri a Monza, così passano il loro tempo a giocare con le cartine, i soldatini, le merendine della mamma, il fac-simile del libretto degli assegni e il bavaglino per chi sbava.
In fondo le specie in via di estinzione vanno tutelate.
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
LO SHOW DEMOCRISTIANO DEL GRANDE TEMPOREGGIATORE…OTTO ANNI DI GOVERNO IN CUI LA LEGA HA VOTATO LE PEGGIORI PORCHERIE: IN CAMBIO DI CHE COSA? DI 300 POSTI A MONZA DA DISTRIBUIRE AD AMICI E PARENTI?
Non sono più Bossi, la Lega, Pontida d`una volta se in fondo a un`ora di lista della spesa, da Equitalia alle quote latte, senti il bisogno di consultare il Marantelli, inteso come Daniele, deputato del Pd, ma soprattutto dizionario vivente del Bossi-pensiero dal padano all`italiano. «Ma insomma, Marantelli, che sta dicendo il tuo amico Senatùr?». «Niente» è l`inesorabile verdetto.
E ` tutto rimandato all`autunno». Lo sospettavamo, e con noi i diecimila padani che sudano delusione sul sacro pratone del giuramento.
Una bella domenica sprecata ad aspettare la svolta che non c`è, il Bossi che non c`è più.
Molti vengono a Pontida da vent`anni e ricordano le molte scampagnate gloriose, lo scintillante Bossi degli esordi, il Braveheart varesotto lanciato contro la partitocrazia, il tuonante drudo dei Novanta, il cavaliere dell`ordine della canottiera che andava a dettare legge nelle villone del Berluskaz.
Ora è lì che parla come può, ma per capire i messaggi che manda a Berlusconi ci vuole l`interprete, il cremlinologo, l`aruspice celtico.
Era stato Bossi a dichiarare la morte del politichese, dei riti romani della prima repubblica, con la forza ruvida della parola diretta.
Ora perfino i suoi gestacci, il pollice verso o il medio alzato, la pernacchia, necessitano esegesi più controverse delle famigerate «convergenze parallele» di Moro. In ogni caso, più grottesche. «Sì, il pollice era giù, ma non contro Berlusconi».
Il popolo verde si sforza di applaudire la lista della spesa, di farsi piacere i ministeri in Brianza.
Per carità , Equitalia la odiano tutti. La scuola di magistratura a Bergamo, capirai. La riduzione delle auto blu, già sentita.
Ma c`era bisogno per così poco di montare tutto `sto circo, le attese messianiche, le catene di pullman, i carmina burana e burina, perfino di convocare sul palco i «templari della Val Seriana», lasciando magari incustodito il Santo Graal, con tanti zingari in giro?
Bossi minaccia che se Berlusconi non gli approva l`agenda, compreso il taglio delle tasse e la fine della missione in Libia, in autunno salta per aria e la Lega va da sola. Ma se dovessimo prenderlo sul serio, allora salterà tutto già la prossima settimana, visto che in Parlamento la maggioranza sulla Libia e sullo spostamento dei ministeri non c`è, quanto ai sogni fiscali Tremonti ha già risposto con un progetto di finan ziaria da 40 miliardi.
La verità è che Bossi offre una proroga a Berlusconi per darne un` altra a se stesso.
La base incalza, è stanca di promesse, imbufalita contro Berlusconi, sul quale si raccolgono insulti a piene mani.
Comincia anche a essere stufa di Bossi il temporeggiatore.
Quello che in otto anni di governo ha fatto votare qualsiasi porcheria, le peggiori leggi ad personam, e in cambio di che cosa?
Un federalismo a parole, più tasse di prima, più burocrazia, le solite tre ore quotidiane di strazio per i pendolari, i comuni del Nord che non possono spenderei soldi e quelli come Catania e Palermo salvati dalla bancarotta a suon di aiuti di Stato
Per non parlare dell`odiata Roma ladrona, che con la Lega al governo ha ottenuto più di quanto ricevesse dai governi Andreotti.
Per non parlare del disastro di Malpensa, messa ora in ginocchio dall`abbandono di Lufthansa.
Bossi infatti non ne parla, guai a nominare Malpensa, dove Berlusconi promette da tre anni di tenere un consiglio dei ministri e dove nel frattempo sono diventati a rischio migliaia di posti di lavoro.
Altro che i due o trecento dei dipartimenti ministeriali a Villa Reale, da distribuire ad amici, parenti, figli ripetenti e fidanzate.
E poi, che senso ha passare dall`abolizione delle province allo sdoppiamento dei ministeri?
Queste sono le ragioni concrete del malcontento della base leghista, all`origine del terremoto elettorale.
Senza gli elettori (o ex?) della Lega non ci sarebbe stato il quorum ai referendum e nemmeno la vittoria di Pisapia aMilano.
Non ci sarebbe stata la finta suspense che ci ha portato tutti a Pontida 2011.
All`una passata il fiero popolo padano si è un po`rotto le balle della lista della spesa e invoca «secessione, secessione».
Altri s`aggrappano al prossimo uomo della provvidenza leghista: «Ma-ro-ni, Ma-roni».
Vedi mai che almeno lui, araldo dell`autonomia leghista, dica due parole in più contro il padrone di Arcore.
E Maroni arriva a chiudere la giornata.
Segno importante nella liturgia padana. Arringa la folla da bravo avvocato, strappa gli unici applausi entusiasti del pratone.
«Maroni premier!» urlano in tanti alla fine, prima di arrotolare le bandiere e i mugugni.
Una guardia padana coi baffoni a manubrio consola il compagno: «Comunque, il Berlusca al 2013 non ci arriva».
L`altro guarda l`uomo che scende dal palco aiutato dai fedeli. «Gnanca lù».
Nemmeno Braveheart.
Curzio Maltese
(da “La Repubblica“)
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
L’ITALIA PERDE LA BASE DEL CENTRO DI COMANDO E CONTROLLO DELLA CATENA DI SORVEGLIANZA RADAR NATO DI POGGIO RENATICO, VICINO A FERRARA… AMBIENTI MILITARI: “SIAMO STATI MESSI IN MEZZO. LA RUSSA, QUANDO FINALMENTE E’ ARRIVATO, NON ERA NEANCHE INFORMATO: UN DURO COLPO ALL’ITALIA DERIVANTE DALLA APPROSSIMAZIONE E AL DISINTERESSE DEL MINISTRO”
«È solo l’ultimo, tragico colpo inflitto dal ministro La Russa alla Difesa italiana, il frutto del suo disinteresse, della sua approssimazione: ma purtroppo è un danno per tutto il Paese, una sconfitta che forse molti non coglieranno, ma che colpisce la sicurezza dell’Italia».
Chi parla così è un ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica: commenta l’incredibile rinuncia di La Russa a mantenere a Poggio Renatico, vicino Ferrara, uno dei due “Caoc” che la Nato prevede nella sua nuova struttura.
I Caoc (Combined Air Operation Center) sono i centri di comando e controllo in cui affluiscono le informazioni da tutti i radar della catena di sorveglianza Nato e nazionale, e da cui partono tutte le informazioni per le basi delle aeronautiche dell’Alleanza e per i controllori di volo civili.
La Nato in Europa ha due Caoc: uno, appunto, a Poggio Renatico, e l’altro per l’Europa centro-settentrionale a Uedem, in Germania.
Cosa è successo?
La Nato da mesi ha avviato un processo di ristrutturazione che doveva tagliare e razionalizzare i suoi comandi in Europa e ridurre il personale.
Per capirci, passare dal 12.000 a circa 8.000 uomini e ridurre di un terzo i comandi.
La settimana scorsa il ministro della Difesa Ignazio La Russa è arrivato con 6 ore di ritardo alla riunione dei ministri della Difesa Nato in cui l’americano Robert Gates salutava per l’ultima volta i suoi colleghi, lanciava il suo allarme sulla Libia, parlava del prossimo ritiro dall’Afghanistan e soprattutto dava gli ultimi ritocchi al piano di tagli.
«Siamo stati messi in mezzo», dice il generale Dino Tricarico, anche lui ex capo dell’Aeronautica ed ex consigliere militare di Berlusconi: «L’Italia doveva perdere solo il comando di Nisida, e invece abbiamo regalato anche Poggio Renatico, che però è strategico nella protezione dello spazio aereo italiano giorno per giorno, anche in tempo di pace».
Altri ufficiali la spiegano così: la ristrutturazione doveva portare da 2 a 1 i comandi aerei.
Tra Smirne (Turchia) e Ramstein (Germania) si è scelto di penalizzare i turchi, per cui Ankara andava compensata: avrà un comando terrestre.
A questo punto verrà chiuso il comando terrestre della Spagna, che con la mancata partecipazione alle operazioni in Libia non avrebbe avuto titolo per battere i pugni sul tavolo.
E invece, alla vigilia dalla riunione di Bruxelles, la ministra Carme Chacòn ha scritto una lettera di fuoco al segretario generale Rasmussen.
«A questo punto hanno messo in mezzo La Russa, che arrivato in ritardo, trafelato e disinformato, ha danneggiato l’Italia», dice un generale informato della trattativa.
«La Russa purtroppo ha un capo di Stato maggiore che è un alpino, senza esperienza internazionale, non conosce l’aeronautica e non parla inglese», aggiunge un altro generale in servizio.
La Nato aveva già preparato un contentino per la Spagna: hanno inventato un “deployable Caoc”, un centro di comando e controllo rischierabile, che quindi in tempi normali non funziona, ma viene “montato” in un altro paese in caso di crisi.
Un comando virtuale.
A La Russa è andata bene così, nel segno della Difesa virtuale.
Vincenzo Nigro
(da “La Repubblica“)
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
MA TRA LE RICHIESTE DI SECESSIONE DELLA PIAZZA E GLI INTERESSI DI GOVERNO DEI LEADER E’ DIFFICILE TROVARE UNA SINTESI
A Pontida, ieri, si sono affrontate e specchiate le due Leghe che coabitano sotto lo stesso tetto. Dentro lo stesso partito. Spesso, dentro le stesse persone.
Se ne è avuta una rappresentazione esplicita, quasi teatrale, osservando la scena della manifestazione.
Da una parte, la Lega di lotta e di protesta. I militanti ammassati sul prato. A gridare, senza sosta: “Secessione! Secessione!”.
Dall’altra, sul palco, la “Lega di governo”.
I leader. Chiamati, a uno a uno, per nome e cognome. E “per carica”.
Ministri, viceministri, presidenti di Regione e dei gruppi parlamentari. Da ultimo, il Primo. Il Capo. Umberto Bossi.
L’icona che tiene unite le due Leghe.
Movimento e istituzione insieme, per usare le categorie weberiane rilette da Francesco Alberoni. Il “movimento rivoluzionario” indipendentista e il “partito normale”, istituzionalizzato. Sempre più difficili da riassumere. Soprattutto oggi.
Ne ha risentito anche la comunicazione del Capo. Normalmente semplice, fino all’eccesso. Ma chiara e netta. Stavolta meno del solito.
Ha espresso i contenuti cauti, della Lega di governo con il linguaggio esplicito della Lega di lotta. Alla congiunzione fra le due Leghe, l’idea del Sindacato del Nord. Che tutela gli interessi “padani”.
Da ciò l’attenzione, ampia e appassionata, dedicata da Bossi agli allevatori e alla loro lotta. Ma anche ai contadini. Testimoni della “terra”, il mito che ispira la Lega e la sua fede padana.
Da ciò anche la minaccia, più che l’invito, al governo e a “Giulio” (Tremonti). Affinchè abbassino le tasse che colpiscono soprattutto i “ceti produttivi” del popolo padano. Artigiani, lavoratori autonomi e piccoli imprenditori.
Anche la polemica di Bossi, rilanciata da Maroni, contro l’intervento armato in Libia, viene tradotta in questa chiave.
Più delle ragioni umanitarie preoccupano le ragioni della sicurezza. Del Nord. Minacciato dall’invasione dei poveri cristi in fuga dai bombardamenti.
La Lega di lotta e di governo, tuttavia, faticano a stare insieme, a Pontida. Qualche volta stridono.
Ai militanti di Pontida che gridavano “Secessione! Secessione!”, Bossi ha risposto promettendo – più modestamente – di decentrare alcuni ministeri nel Nord. Più precisamente: a Monza.
I dicasteri guidati da lui stesso e Calderoli, intanto. Invitando Maroni e lo stesso Tremonti ad aggregarsi.
D’altronde, ha aggiunto, il ministero dell’Economia deve stare dove si produce. Non a Roma. Spostare i ministeri a Monza serve, infatti, a marcare il distacco dallo Stato Centrale. E a valorizzare, per contro, la Capitale del Nord. Che gravita intorno a Milano.
D’altronde, dopo le elezioni amministrative, la Padania ha perduto la capitale. E la Lega è stata spinta ulteriormente in provincia.
Anche gli avvertimenti a Berlusconi – fischiato dai militanti ogni volta che ne veniva pronunciato il nome – rispondono al sentimento della “Lega di opposizione”. Berlusconi – ha detto e ripetuto Bossi – non sarà necessariamente il candidato premier. D’altronde, i militanti, esibendo striscioni da stadio, inneggiavano a “Maroni premier”.
Il messaggio è chiaro. Berlusconi, verrà sostenuto dalla Lega solo se rispetterà gli interessi e le rivendicazioni del Sindacato del Nord.
Pensieri, parole – e parolacce – a cui, tuttavia, difficilmente seguiranno i fatti.
Perchè queste rivendicazioni del Sindacato del Nord, per quanto “moderate”, appaiono poco praticabili.
Proporre di decentrare alcuni ministeri a Nord è ben diverso che minacciare la secessione.
Ma si tratta, comunque, di un progetto difficile da realizzare. Significherebbe svuotare l’idea – e la realtà – di “Roma Capitale”. Divenuta tale con un decreto votato dalla stessa Lega.
Lo stesso discorso vale per la riforma fiscale e le altre iniziative volte ad alleggerire – o almeno controllare – il debito pubblico.
Difficile immaginare che possano avvenire a spese, prevalentemente, dei ceti sociali e delle aree del Mezzogiorno. Roma Capitale e la Regione Lazio sono governate dal Pdl.
Il Centrosud garantisce il bacino elettorale maggiore del Pdl.
La Lega dovrebbe, a questo fine, rompere con Berlusconi e il suo partito, come nella seconda metà degli anni Novanta. Dovrebbe ascoltare il popolo di Pontida che grida: “Secessione! Secessione!”. Impensabile.
Perchè incombe ancora la sindrome del ’99. Quando la Lega secessionista, da sola, si ridusse a poco più del 3%. Abbandonata dai “forzaleghisti”, come li definì Edmondo Berselli.
Gli elettori che votano ora Lega ora Forza Italia (e ora Pdl) su basi tattiche.
Per questo Bossi lancia parole di lotta, ma poi usa argomenti di governo. Sorretti da ragioni ragionevoli.
Guardate che non basta schiacciare un bottone per cambiare, ripete il Capo. Guardate che non possiamo fare cadere il governo e non possiamo neppure andare al voto. Oggi. Non conviene. Il “ciclo storico (ha detto proprio così) è cambiato. Ci è sfavorevole. Vincerebbe la Sinistra”.
Ma poi, aggiungiamo noi, non sarebbe facile neppure a Bossi convincere il suo partito ad abbandonare il governo – e il sottogoverno. Per ragioni interne.
Costringere alle dimissioni i suoi ministri e i suoi viceministri.
E tutti i suoi uomini inseriti nelle istituzioni, nei centri di potere economico, finanziario, pubblico e radiotelevisivo.
Sarebbe difficile perfino a lui, il Capo. Anche proclamare la secessione. Da Roma. Non solo perchè la stragrande maggioranza degli elettori del Nord, compresi i suoi, non la accetterebbe.
Ma perchè la rottura della maggioranza a livello nazionale avrebbe rilevanti conseguenze locali. Visto che la Lega, nel Nord, governa in due Regioni, molte province e centinaia di comuni. Insieme al Pdl.
Difficile, infine, pensare che una Lega di governo, cresciuta tanto e tanto in fretta nel Nord, non sia attraversata da divisioni interne.
Come avviene in tutti i partiti “normali”. Che la proposta dei ministeri a Monza non abbia suscitato disagio nel Nordest e soprattutto in Veneto.
Che le ovazioni a “Maroni premier” non abbiano messo di cattivo umore Calderoli. E magari anche qualcun altro.
Per questo le parole di Bossi e il rito di Pontida non hanno offerto indicazioni chiare sul futuro.
La Lega di opposizione vorrebbe correre da sola. Contro tutti.
La Lega di governo non ci pensa proprio. Il Sindacato del Nord pone alla maggioranza condizioni che il Pdl non può accettare.
Nessuno è abbastanza forte per imporsi. Nè per rompere.
Così il governo – e il Paese – sono destinati a navigare a vista.
Finchè ci riusciranno.
Ilvo Diamanti
(da “La Repubblica“)
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
SI TRATTA DI SPOSTARE LA BASE DI CALCOLO DELL’IMPOSIZIONE SUL REDDITO DALL’INDIVIDUO ALLA FAMIGLIA….I DIVERSI PESI DEL NUCLEO FAMILIARE, UN COSTO TRA I 3 E 12 MILIARDI PER FAVORIRE LE FAMIGLIE NUMEROSE…IL PROBLEMA DELLE COPPIE DI FATTO
Alla disperata ricerca di un provvedimento fiscale che gli faccia rialzare le quotazioni presso l’elettorato deluso, una specie di Viagra per riconquistare le urne, Silvio Berlusconi ha rispolverato nei giorni scorsi l’idea del “quoziente familiare”, già nel programma del centrodestra ma finita, come tante altre, in soffitta.
Di che si tratta? In sostanza, di spostare la base di calcolo dell’imposizione progressiva sul reddito (Irpef) dall’individuo alla famiglia.
In altre parole di tassare il complessivo reddito familiare (la somma dei redditi di uno, due o più percettori) dividendolo però prima per il numero dei componenti del nucleo. L’operazione non è una banale divisione tra i due fattori ricordati: il divisore, infatti, viene stabilito attribuendo a ciascun membro della famiglia un “peso” diverso.
Così in Francia, ad esempio, dove il sistema del quoziente familiare è in vigore da molti anni, una coppia con una persona a carico ha un dividendo di 2,5 (quindi reddito complessivo diviso 2,5), mentre una con tre persone a carico ha un dividendo di 4 (quindi reddito complessivo diviso 4).
Nei due casi le aliquote applicate variano sensibilmente, a vantaggio della famiglia più numerosa.
Occorre considerare, comunque, che anche nel sistema fondato sull’imposizione individuale in qualche misura si tiene conto della numerosità della famiglia, sia attraverso detrazioni d’imposta che mediante deduzioni dall’imponibile (per coniuge a carico, figli, ecc.).
In generale il metodo del quoziente familiare (imperante sia in Francia che in Germania, con sensibili differenze) si ritiene comunque più marcatamente favorevole alle famiglie numerose rispetto a un sistema su base individuale accompagnato da deduzioni e detrazioni.
Il primo e principale problema che si pone ai “riformatori” che vorrebbero passare anche in Italia al quoziente è quello della copertura finanziaria: se si vuole alleggerire l’imposizione alle famiglie occorre trovare i quattrini e le strade sono poche (le stime del costo del quoziente variano assai, dai 3 ai 12 miliardi di euro, in relazione alla consistenza dell’alleggerimento della pressione fiscale che si vuole concedere).
Di finanziare la riforma in deficit non se ne parla nemmeno con i tempi che corrono e con l’occhiuta e sacrosanta vigilanza di Bruxelles.
L’eliminazione di deduzioni e detrazioni per carichi familiari che accompagnerebbe il nuovo modello non ne coprirebbe che in piccola parte i costi: se così non fosse non avrebbe senso intraprendere questa strada.
La via maestra è ovviamente quella di tagliare spesa pubblica, ma sappiamo quanto è difficile percorrerla e, oltretutto, si rischia di cadere in un circolo vizioso: da un lato si abbassa l’imposizione alle famiglie con più figli, dall’altro si aumentano le tasse scolastiche, si riducono gli asili nido, si tagliano spese sanitarie di cui quelle stesse famiglie sono le maggiori beneficiarie.
E tutto ciò in un paese nel quale la spesa sociale per disabili, famiglie, disoccupati e lotta alla povertà sono fra il 30 e il 90 per cento inferiori a quelle medie dell’Ue (a causa di una spesa previdenziale sensibilmente superiore).
Resta un’altra scelta, certo non entusiasmante: attuare la riforma fissando un preciso paletto: si cambia ma a parità di gettito.
E’ evidente a tutti che in questo caso i benefici per le famiglie numerose non potrebbero che essere limitati e comunque compensati da maggiori imposte per i single (qualcuno ricorda la tassa sul celibato del compianto Cavalier Benito?) o per le coppie senza figli che già oggi sopportano una pressione fiscale fra le più alte al mondo.
E poi, che senso ha muovere tutto l’ambaradan di una riforma così complessa come quella del quoziente per fare un po’ di maquillage, qualche correzione marginale, per dare qualche euro in più (e qualche servizio in meno) alle famiglie più numerose?
Per far questo basterebbe innalzare deduzioni e detrazioni per i congiunti a carico. Qualcuno insisterà : comunque sarà sempre un sistema più equo dell’attuale, un sistema che terrà conto dei maggiori bisogni di un nucleo più folto (e quindi con minore “capacità contributiva”, vedasi l’articolo 53 della Costituzione).
Ma le cose non sono così semplici…
Come è stato osservato da più parti, mentre il sistema di imposizione “individuale” è neutrale rispetto allo stato civile dei contribuenti, quello del quoziente non lo è affatto. Quindi, innanzitutto, per non discriminare le coppie di fatto bisognerebbe adeguare il concetto fiscale di coppia: in Francia il quoziente si applica a tutti i tipi di coppie, non solo a quelle unite dal sacro vincolo del matrimonio, perchè i nostri cugini d’Oltralpe hanno da tempo varato i Pacs, quei patti paramatrimoniali che in Italia sono aborriti soprattutto da coloro che maggiormente tifano per i quozienti.
Superato questo piccolo ostacolo, ve ne sono di più sostanziosi.
Se uno dei membri della coppia (tanto per fare un esempio non casuale, l’uomo) ha un reddito elevato, mentre la donna non lavora, con il quoziente otterrà un sensibile vantaggio fiscale, tanto maggiore quanto è più elevato il reddito del coniuge che lavora. Se l’altro coniuge dovesse iniziare a lavorare il vantaggio iniziale calerebbe drasticamente, fino ad annullarsi se i due redditi che entrano in famiglia si equivalessero. E’ evidente che il nuovo sistema sarebbe un potente disincentivo per il lavoro delle donne e ben corrisponderebbe a un modello di società dove l’altra metà del cielo fa i lavori di casa e l’uomo lavora.
Questo è particolarmente vero per l’Italia, dove il tasso di occupazione femminile è assai più basso che altrove (non raggiunge il 47 per cento).
Non è quindi un caso che a battersi da sempre come leoni per l’introduzione del quoziente familiare siano la Chiesa (di recente l’ha riproposto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei), una parte consistente del Pdl (l’ha ribadito ad esempio nei giorni scorsi, oltre che Silvio Berlusconi, il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli, specificando che parlava “della famiglia riconosciuta dalla Costituzione”, vale a dire basata sul matrimonio), l’Udc in tutta la sua potenza di fuoco, a cominciare dal leader tutto partito e famiglie Pierferdinando Casini.
Tant’è che qualcuno ha persino ipotizzato che l’introduzione del quoziente familiare possa costituire il “ponte” per una rinnovata alleanza fra il centrodestra e i centristi di Pierfurby.
Ma scendiamo dal cielo delle ideologie familiari alla terra degli interessi materiali: avvantaggiare i nuclei monoreddito significherebbe anche non tener conto che la “produzione” di due redditi è ovviamente più costosa di quella di uno solo: costi di trasporti più elevati, asili e baby sitter in presenza di figli e quant’altro.
Anche da questo punto di vista, quindi, la penalizzazione della donna lavoratrice tramite il quoziente è evidente.
La soluzione ci sarebbe: accompagnare i quozienti con un sistema di deduzioni e/o detrazioni per tener conto dei costi di produzione del reddito: ma ciò farebbe schizzare i costi della riforma al di là dell’immaginabile.
Un simile “doppio binario” (quoziente più deduzioni) è stato pensato da qualcuno anche per ridimensionare altre magagne che i quozienti, a uno sguardo più ravvicinato, presentano, come vedremo nel seguito.
Ma, di nuovo, i conti pubblici non potrebbero sopportare un tale sovraccarico.
I quozienti familiari comportano risparmi di imposte tanto più elevati quanto maggiore è il reddito del nucleo e quanto più è concentrato su un minor numero di soggetti.
Questo dovrebbero ricordarselo coloro che invocano il nuovo sistema per motivi di equità sociale e di sostegno ai più deboli.
Sarebbe invece pienamente legittima la posizione di chi sostenesse il nuovo strumento fiscale per favorire i redditi di quel ceto medio che paga le tasse: purtroppo un simile punto di vista non viene mai esplicitato, quasi ci se ne vergognasse e si preferisse un approccio populista, anche se in evidente rotta di collisione con la realtà dei fatti.
E neppure viene evidenziato un altro possibile obiettivo del nuovo sistema, nettamente perseguito in Francia, cioè quello di incentivare la crescita demografica: se a questo si tendesse, anche le caratteristiche dei quozienti andrebbero coerentemente modulate.
Un lustro fa una studiosa dell’Università di Firenze, Chiara Rapallini, ha calcolato che, per nuclei familiari di pari consistenza, mantenendo inalterate le aliquote e il gettito ed eliminando deduzioni e detrazioni, “l’introduzione del quoziente comporterebbe la riduzione del reddito netto per i nuclei che si collocano nei primi sette decili di reddito a favore della crescita del reddito netto di coloro che si collocano nell’ottavo e nel nono decile”.
In altre parole le famiglie più numerose e più “ricche” sarebbero beneficiate, quelle povere, numerose o non, sarebbero penalizzate.
Un risultato sconvolgente e stimato per l’Italia che in buona parte si spiega con una caratteristica peculiare della distribuzione del reddito nel nostro paese: i redditi e le aliquote delle coppie bireddito sono mediamente superiori a quelli delle famiglie monoreddito.
In conclusione, il nuovo sistema disincentiverebbe il lavoro femminile, favorirebbe soprattutto le famiglie numerose con i redditi più alti, costerebbe — mantenendo inalterate aliquote e scaglioni — una perdita di gettito di circa il 3 per cento e renderebbe quindi necessario un ritocco all’insù delle aliquote (proprio il contrario di quello che Berlusconi & C: dicono di voler fare).
A questo punto non resta che chiedersi, come il Gattopardo: vogliamo cambiare tutto il sistema dell’imposizione sulle persone fisiche perchè nulla cambi?
Ne vale la pena?
Paolo Forcellini
(da “blitzquotidiano“)
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
SI ACCENTUA IL CARATTERE PUNITIVO E CARCERARIO…I RESPINGIMENTI SONO VIETATI DA ZONE DI GUERRA….”SEMBRA PIU’ UN EFFETTO ANNUNCIO CHE NON CAMBIA LA SOSTANZA”….CI SONO NORME EUROPEE CHE L’ITALIA AVREBBE DOVUTO RECEPIRE ENTRO IL 24 DICEMBRE 2010
In contrasto con ogni direttiva europea in materia di immigrazione, il governo ha ripristinato, tra l’altro, la procedura di espulsione coattiva immediata per tutti gli extracomunitari clandestini, prolungando inoltre il periodo di permanenza nei CIE (Centri di identificazione ed espulsione) fino a 18 mesi, accentuando ancor di più l’aspetto punitivo e carcerario del provvedimento.
Maroni aveva scelto questa strada per lanciare un messaggio alla base leghista, alla vigilia dell’appuntamento di Pontida. Ormai si muovono così, alla rinfusa, elargendo proclami ad uso interno.
Il provvedimento prevede inoltre di coinvolgere i giudici di pace, neanche fossero questioni di condominio, nel trattamento delle controversie legate all’immigrazione, sottraendole ai giudici togati.
“Mi sembra un effetto-annuncio che non cambia la situazione nella sostanza”, ha commentato il direttore del Consiglio Italiano Rifugiati 1 (Cir), Christopher Hein.
Per quanto riguarda le espulsioni coattive dei cittadini comunitari che commettono violazioni, dice Hein “ci sono regole comunitarie su questo, e il rimpatrio è previsto solo in caso di reati di una certa gravità con condanna definitiva passata in giudicato. L’espulsione immediata non è nuova di per sè, è già possibile quando ci sono le condizioni di legge. Ma spesso non si può fare perchè le persone non hanno il documento di viaggio. Dunque – ha aggiunto Hein – prima occorre che ci sia il riconoscimento dai rispettivi consolati”.
Il direttore del Cir ha poi fatto alcune considerazioni sulla decisione di prolungare la permanenza nei Cie fino a 18 mesi.
“Con il pacchetto sicurezza – ha detto – l’Italia aveva già aumentato questo periodo da due a sei mesi. E dalle statistiche dello stesso Viminale sappiamo che in pochissimi casi chi non può essere espulso in due mesi lo potrà in sei. Ora portarlo a 18 mesi è solo una punizione che non ha nulla a che vedere con una vera politica di rimpatri – ha affermato Hein – non cambia l’effettività dell’allontanamento della persona dal territorio. E’ quindi solo un atto punitivo, viste le condizioni in cui versano questi centri”.
Hein ha anche sottolineato che la direttiva dell’Unione Europea sul ritorno – entrata in vigore dal 1° gennaio 2011 e che l’Italia avrebbe dovuto recepire entro 24 dicembre 2010, ma non è ancora legge nel nostro Paese – in casi estremi già ammette il trattenimento fino a 18 mesi, ma ci deve essere sempre una verifica che il prolungamento della permanenza nei centri dia un’effettiva possibilità di eseguire l’espulsione, non può in ogni caso essere una misura di detenzione o di punizione. Anche la Germania prevede la permanenza fino a 18 mesi, ma sono pochissimi i casi effettivi”.
Ma il Consiglio Italiano per i Rifugiati si è espresso anche rispetto al rischio che in Italia venga introdotta una politica indiscriminata di respingimenti verso un paese in guerra.
“Le prospettive di realizzare un blocco navale dalla Libia per impedire la partenza dei profughi e di riportare i profughi da dove sono partiti, ovvero da un’area in guerra, è semplicemente inaccettabile” – ha aggiunto ancora Christopher Hein – “Si violano le più essenziali leggi internazionali e nazionali che si basano tutte su un unico fondamentale principio: non possono essere respinte persone verso aree in cui la loro vita è messa in pericolo”.
Il Cir ricorda inoltre che in nessun modo possono essere realizzati respingimenti di massa.
Deve sempre essere verificata la condizione individuale delle persone e data la protezione a quanti chiedono asilo.
Dobbiamo ricordare che molte delle persone arrivate in questi mesi dalla Libia sono rifugiati che fuggono dalle persecuzioni e dalle violenze dell’Eritrea, Etiopia, Somalia, Costa d’Avorio”.
Il Cir chiede dunque che non vengano introdotte in alcun modo misure di respingimenti di massa, che vengano rispettate scrupolosamente le norme vigenti e realizzate operazioni efficaci e tempestive di soccorso in mare.
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Giugno 20th, 2011 Riccardo Fucile
PRATICAMENTE LO STESSO DESTINO IPOTIZZATO NEL 2007, PRONTO A MATERIALIZZARSI CON 4 ANNI DI RITARDO E DIVERSE CENTINAIA DI MILIONI IN MENO….QUANDO BERLUSCONI REGALO’ LA PARTE BUONA DI ALITALIA AI FRANCESI
Il Ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani smentisce ma, la notizia è ormai nell’aria.
Alitalia, scrive in esclusiva il quotidiano romano Il Messaggero, sarebbe pronta a trasferirsi a Parigi diventando parte di una super-holding controllata dal duo Air France-Klm.
Un’indiscrezione? Senz’altro, ma anche una voce concreta a sentire il quotidiano che dell’operazione sembra in grado di fornire più di un dettaglio.
In sintesi: la compagnia di bandiera, che dai francesi è già partecipata per un quarto, si preparerebbe alla fusione con conseguente trasferimento della sede direzionale a Parigi (vi ricorda qualcosa che riguarda una certa Detroit?).
Air France avrebbe già dato mandato in tal senso alla Leonardo & Co, advisor finanziario reclutato per l’occasione.
Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta sarebbe già stato informato della vicenda nel corso di un incontro a Palazzo Chigi.
Fin qui gli elementi chiave dell’operazione che, afferma ancora il Messaggero, dovrebbe realizzarsi entro la fine dell’anno.
Ma nella notizia, ovviamente, c’è dell’altro.
A cominciare dagli indizi a conferma dell’indiscrezione.
Il primo, in realtà , lo aveva offerto lo stesso presidente di Alitalia, Roberto Colaninno che, smentite successive a parte, non aveva escluso sette mesi fa la possibilità della fusione con il vettore francese.
Il secondo lo aveva fornito lo scorso anno l’amministratore delegato Rocco Sabelli secondo il quale quella di Air France rappresenterebbe la scelta obbligata in calendario per il 2013, alla faccia dei proclami di “italianità ” dell’azienda.
Il terzo indizio lo offre oggi la stessa compagnia che, in risposta allo scoop del quotidiano, sceglie di non seguire Romani nella smentita preferendo, al contrario, il più neutrale no comment.
Tre indizi potranno anche non fare una prova. Ma per un legittimo sospetto c’è ne già a sufficienza.
A dire il vero tra gli indizi ve ne sarebbe anche un quarto, quello rappresentato dalla logica del mercato.
La stessa logica chiamata in causa dal direttore generale uscente della Iata — International Air Transport Association, Giovanni Bisignani secondo il quale allo stato attuale delle cose la compagnia per come è concepita oggi non sarebbe più in grado di sopravvivere. “La strada è il consolidamento con altre compagnie con cui creare più efficienza” ha dichiarato all’Ansa.
A pesare la concorrenza dei low cost ma anche i rincari del prezzo del carburante. Secondo la Iata, l’industria area mondiale avrebbe già rivisto al ribasso del 50% i propri utili attesi per quest’anno ipotizzando per il 2011 un profitto complessivo di circa 4 miliardi di dollari contro gli 8,6 previsti in precedenza.
Nel 2010 gli utili erano stati di 18 miliardi. Alitalia, dal canto suo, ha registrato una perdita operativa di 100 milioni nel 2010 migliorando la propria situazione contabile rispetto all’anno precedente quando il rosso si era attestato a 274 milioni.
La scelta di affidarsi ad Air France, insomma, sembrerebbe logica.
Ma una domanda sorge spontanea: non sarebbe stato preferibile percorrere la stessa strada anni fa quando l’accordo, che sembrava cosa fatta, fu stoppato con la scusa delle necessità strategica della compagnia di bandiera in “solide” mani italiane?
Un passo indietro.
Nel 2007, con la compagnia di fatto agonizzante, si inizia a parlare sempre più insistentemente del possibile interessamento di Air France che nel marzo dell’anno successivo presenterà la sua offerta: 1,7 miliardi di euro per acquisire l’intera compagnia e i suoi debiti.
Nell’estate del 2007, intanto, è scoppiata la rivolta dell’allora opposizione.
Berlusconi invoca l’intervento dell’imprenditoria italiana. Detto fatto. Le ipotesi di cordata si materializzano da lì a poco.
Antonio Baldassarre, ex presidente della Corte Costituzionale, si fa promotore dell’operazione diffondendo notizie in proposito a partire dall’agosto del 2007.
Notizie, rivelatesi “false e concretamente idonee a provocare una sensibile alterazione dei valori del titolo Alitalia quotato sui mercati finanziari” diranno i giudici del tribunale di Roma che nel febbraio di quest’anno rinviano a giudizio per aggiotaggio lo stesso Baldassarre, già sanzionato dalla Consob con una multa da 400 mila euro .
Nel dicembre 2007 la cordata è svanita e la compagnia si prepara ad entrare in amministrazione controllata. Poi nel 2008 il centrodestra rivince le elezioni.
E lì prende forma il capolavoro.
“Merci Silvio” titolerà il giornale francese Les Echos nel gennaio 2009, e non è difficile comprendere il perchè.
Air France ha appena acquisito il 25% delle quote di Alitalia spendendo appena 300 milioni di euro.
In termini relativi è già un affare, ma il bello viene dalla qualità degli assets.
E già , perchè l’azienda nel frattempo è cambiata.
Ai francesi finisce un pezzo di compagnia sana e senza debiti visto che tutto il marcio è stato convogliato in una bad company (all’origine di un disastro per i piccoli azionisti) beneficiaria a sua volta di un prestito ponte da 300 milioni di euro.
Da chi viene il prestito?
Dallo Stato, ovviamente, vale a dire dai contribuenti.
Ma è solo la punta dell’iceberg visto che tra prestiti, ammortizzatori sociali e debiti scaricati sul Ministero dell’Economia, il conto finale di Alitalia si colloca tra i 4 e i 5 miliardi di euro.
“Un’operazione politica, sbagliata e costosa” scriverà l’Economist.
Insomma, la parte malsana, quella preponderante cioè, è stata scaricata sullo Stato e quindi sui cittadini, quella buona, minoritaria, è stata data in pasto al mercato.
Solo che le cifre adesso sono note.
E se la matematica non è un’opinione il 25% pagato 300 da Parigi identifica un valore complessivo dell’azienda pari 1,2 miliardi.
Il che è meno di quanto aveva offerto a suo tempo Air France ma anche qualcosa, e non poco, in più rispetto a quei 1.056 milioni versati dai Colaninno boys per la rinnovata Cai. Nel frattempo la compagnia ha assunto il monopolio della preziosa tratta Roma-Milano grazie all’acquisizione di AirOne privandosi del fardello di 7.000 dipendenti in esubero. La possibile (probabile?) fusione rappresenterebbe la logica conclusione di un processo di ristrutturazione economicamente disastroso per tutti, tranne che per i diretti interessati.
E se l’operazione andrà in porto i fortunati azionisti avranno modo e motivo di brindare copiosamente.
Spumante o Champagne non fa davvero differenza.
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