IL QUOZIENTE FAMILIARE DI CUI SI PARLA SPESSO A CHI CONVIENE?
SI TRATTA DI SPOSTARE LA BASE DI CALCOLO DELL’IMPOSIZIONE SUL REDDITO DALL’INDIVIDUO ALLA FAMIGLIA….I DIVERSI PESI DEL NUCLEO FAMILIARE, UN COSTO TRA I 3 E 12 MILIARDI PER FAVORIRE LE FAMIGLIE NUMEROSE…IL PROBLEMA DELLE COPPIE DI FATTO
Alla disperata ricerca di un provvedimento fiscale che gli faccia rialzare le quotazioni presso l’elettorato deluso, una specie di Viagra per riconquistare le urne, Silvio Berlusconi ha rispolverato nei giorni scorsi l’idea del “quoziente familiare”, già nel programma del centrodestra ma finita, come tante altre, in soffitta.
Di che si tratta? In sostanza, di spostare la base di calcolo dell’imposizione progressiva sul reddito (Irpef) dall’individuo alla famiglia.
In altre parole di tassare il complessivo reddito familiare (la somma dei redditi di uno, due o più percettori) dividendolo però prima per il numero dei componenti del nucleo. L’operazione non è una banale divisione tra i due fattori ricordati: il divisore, infatti, viene stabilito attribuendo a ciascun membro della famiglia un “peso” diverso.
Così in Francia, ad esempio, dove il sistema del quoziente familiare è in vigore da molti anni, una coppia con una persona a carico ha un dividendo di 2,5 (quindi reddito complessivo diviso 2,5), mentre una con tre persone a carico ha un dividendo di 4 (quindi reddito complessivo diviso 4).
Nei due casi le aliquote applicate variano sensibilmente, a vantaggio della famiglia più numerosa.
Occorre considerare, comunque, che anche nel sistema fondato sull’imposizione individuale in qualche misura si tiene conto della numerosità della famiglia, sia attraverso detrazioni d’imposta che mediante deduzioni dall’imponibile (per coniuge a carico, figli, ecc.).
In generale il metodo del quoziente familiare (imperante sia in Francia che in Germania, con sensibili differenze) si ritiene comunque più marcatamente favorevole alle famiglie numerose rispetto a un sistema su base individuale accompagnato da deduzioni e detrazioni.
Il primo e principale problema che si pone ai “riformatori” che vorrebbero passare anche in Italia al quoziente è quello della copertura finanziaria: se si vuole alleggerire l’imposizione alle famiglie occorre trovare i quattrini e le strade sono poche (le stime del costo del quoziente variano assai, dai 3 ai 12 miliardi di euro, in relazione alla consistenza dell’alleggerimento della pressione fiscale che si vuole concedere).
Di finanziare la riforma in deficit non se ne parla nemmeno con i tempi che corrono e con l’occhiuta e sacrosanta vigilanza di Bruxelles.
L’eliminazione di deduzioni e detrazioni per carichi familiari che accompagnerebbe il nuovo modello non ne coprirebbe che in piccola parte i costi: se così non fosse non avrebbe senso intraprendere questa strada.
La via maestra è ovviamente quella di tagliare spesa pubblica, ma sappiamo quanto è difficile percorrerla e, oltretutto, si rischia di cadere in un circolo vizioso: da un lato si abbassa l’imposizione alle famiglie con più figli, dall’altro si aumentano le tasse scolastiche, si riducono gli asili nido, si tagliano spese sanitarie di cui quelle stesse famiglie sono le maggiori beneficiarie.
E tutto ciò in un paese nel quale la spesa sociale per disabili, famiglie, disoccupati e lotta alla povertà sono fra il 30 e il 90 per cento inferiori a quelle medie dell’Ue (a causa di una spesa previdenziale sensibilmente superiore).
Resta un’altra scelta, certo non entusiasmante: attuare la riforma fissando un preciso paletto: si cambia ma a parità di gettito.
E’ evidente a tutti che in questo caso i benefici per le famiglie numerose non potrebbero che essere limitati e comunque compensati da maggiori imposte per i single (qualcuno ricorda la tassa sul celibato del compianto Cavalier Benito?) o per le coppie senza figli che già oggi sopportano una pressione fiscale fra le più alte al mondo.
E poi, che senso ha muovere tutto l’ambaradan di una riforma così complessa come quella del quoziente per fare un po’ di maquillage, qualche correzione marginale, per dare qualche euro in più (e qualche servizio in meno) alle famiglie più numerose?
Per far questo basterebbe innalzare deduzioni e detrazioni per i congiunti a carico. Qualcuno insisterà : comunque sarà sempre un sistema più equo dell’attuale, un sistema che terrà conto dei maggiori bisogni di un nucleo più folto (e quindi con minore “capacità contributiva”, vedasi l’articolo 53 della Costituzione).
Ma le cose non sono così semplici…
Come è stato osservato da più parti, mentre il sistema di imposizione “individuale” è neutrale rispetto allo stato civile dei contribuenti, quello del quoziente non lo è affatto. Quindi, innanzitutto, per non discriminare le coppie di fatto bisognerebbe adeguare il concetto fiscale di coppia: in Francia il quoziente si applica a tutti i tipi di coppie, non solo a quelle unite dal sacro vincolo del matrimonio, perchè i nostri cugini d’Oltralpe hanno da tempo varato i Pacs, quei patti paramatrimoniali che in Italia sono aborriti soprattutto da coloro che maggiormente tifano per i quozienti.
Superato questo piccolo ostacolo, ve ne sono di più sostanziosi.
Se uno dei membri della coppia (tanto per fare un esempio non casuale, l’uomo) ha un reddito elevato, mentre la donna non lavora, con il quoziente otterrà un sensibile vantaggio fiscale, tanto maggiore quanto è più elevato il reddito del coniuge che lavora. Se l’altro coniuge dovesse iniziare a lavorare il vantaggio iniziale calerebbe drasticamente, fino ad annullarsi se i due redditi che entrano in famiglia si equivalessero. E’ evidente che il nuovo sistema sarebbe un potente disincentivo per il lavoro delle donne e ben corrisponderebbe a un modello di società dove l’altra metà del cielo fa i lavori di casa e l’uomo lavora.
Questo è particolarmente vero per l’Italia, dove il tasso di occupazione femminile è assai più basso che altrove (non raggiunge il 47 per cento).
Non è quindi un caso che a battersi da sempre come leoni per l’introduzione del quoziente familiare siano la Chiesa (di recente l’ha riproposto il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei), una parte consistente del Pdl (l’ha ribadito ad esempio nei giorni scorsi, oltre che Silvio Berlusconi, il vicepresidente dei deputati del Pdl, Osvaldo Napoli, specificando che parlava “della famiglia riconosciuta dalla Costituzione”, vale a dire basata sul matrimonio), l’Udc in tutta la sua potenza di fuoco, a cominciare dal leader tutto partito e famiglie Pierferdinando Casini.
Tant’è che qualcuno ha persino ipotizzato che l’introduzione del quoziente familiare possa costituire il “ponte” per una rinnovata alleanza fra il centrodestra e i centristi di Pierfurby.
Ma scendiamo dal cielo delle ideologie familiari alla terra degli interessi materiali: avvantaggiare i nuclei monoreddito significherebbe anche non tener conto che la “produzione” di due redditi è ovviamente più costosa di quella di uno solo: costi di trasporti più elevati, asili e baby sitter in presenza di figli e quant’altro.
Anche da questo punto di vista, quindi, la penalizzazione della donna lavoratrice tramite il quoziente è evidente.
La soluzione ci sarebbe: accompagnare i quozienti con un sistema di deduzioni e/o detrazioni per tener conto dei costi di produzione del reddito: ma ciò farebbe schizzare i costi della riforma al di là dell’immaginabile.
Un simile “doppio binario” (quoziente più deduzioni) è stato pensato da qualcuno anche per ridimensionare altre magagne che i quozienti, a uno sguardo più ravvicinato, presentano, come vedremo nel seguito.
Ma, di nuovo, i conti pubblici non potrebbero sopportare un tale sovraccarico.
I quozienti familiari comportano risparmi di imposte tanto più elevati quanto maggiore è il reddito del nucleo e quanto più è concentrato su un minor numero di soggetti.
Questo dovrebbero ricordarselo coloro che invocano il nuovo sistema per motivi di equità sociale e di sostegno ai più deboli.
Sarebbe invece pienamente legittima la posizione di chi sostenesse il nuovo strumento fiscale per favorire i redditi di quel ceto medio che paga le tasse: purtroppo un simile punto di vista non viene mai esplicitato, quasi ci se ne vergognasse e si preferisse un approccio populista, anche se in evidente rotta di collisione con la realtà dei fatti.
E neppure viene evidenziato un altro possibile obiettivo del nuovo sistema, nettamente perseguito in Francia, cioè quello di incentivare la crescita demografica: se a questo si tendesse, anche le caratteristiche dei quozienti andrebbero coerentemente modulate.
Un lustro fa una studiosa dell’Università di Firenze, Chiara Rapallini, ha calcolato che, per nuclei familiari di pari consistenza, mantenendo inalterate le aliquote e il gettito ed eliminando deduzioni e detrazioni, “l’introduzione del quoziente comporterebbe la riduzione del reddito netto per i nuclei che si collocano nei primi sette decili di reddito a favore della crescita del reddito netto di coloro che si collocano nell’ottavo e nel nono decile”.
In altre parole le famiglie più numerose e più “ricche” sarebbero beneficiate, quelle povere, numerose o non, sarebbero penalizzate.
Un risultato sconvolgente e stimato per l’Italia che in buona parte si spiega con una caratteristica peculiare della distribuzione del reddito nel nostro paese: i redditi e le aliquote delle coppie bireddito sono mediamente superiori a quelli delle famiglie monoreddito.
In conclusione, il nuovo sistema disincentiverebbe il lavoro femminile, favorirebbe soprattutto le famiglie numerose con i redditi più alti, costerebbe — mantenendo inalterate aliquote e scaglioni — una perdita di gettito di circa il 3 per cento e renderebbe quindi necessario un ritocco all’insù delle aliquote (proprio il contrario di quello che Berlusconi & C: dicono di voler fare).
A questo punto non resta che chiedersi, come il Gattopardo: vogliamo cambiare tutto il sistema dell’imposizione sulle persone fisiche perchè nulla cambi?
Ne vale la pena?
Paolo Forcellini
(da “blitzquotidiano“)
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