Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
LA LISTA PENNACCHI: CHI L’HA VOLUTA E’ LO STESSO CHE L’HA PRIMA TRADITA E POI BOICOTTATA PER MESCHINI INTERESSI DI POTERE… ADOLFO URSO E I SUOI INFAMI COMPAGNI DI MERENDE, AL SERVIZIO DEL SULTANO
Le leggende metropolitane sono dure a morire.
C’è gente ancora convinta che David Bowie sia un alieno e che Paul Mac Cartney sia morto nel 1969.
Però io ci provo lo stesso a raccontare la campagna elettorale di Latina, oltre la leggenda metropolitana dell’esperimento fallimentare di un gruppo di politici sciocchi e di fatui intellettuali.
L’antefatto.
Nel gennaio scorso ai vertici di Fli si cominciò a parlare di amministrative, e di come incidere in una corsa per la quale non eravamo attrezzati.
Emerse l’idea di lavorare su due-tre città simbolo, proponendo candidature di impatto fortissimo alla guida di liste civiche di alto profilo, condivisibili da destra e sinistra.
Adolfo Urso fu il motore del tentativo.
Fu individuato su Milano un nome molto prestigioso (che non svelo) sul quale anche il Pd avrebbe potuto convergere.
Per Latina, simbolo della nostra sfida di legalità , città “di destra” per eccellenza, si pensò ad Antonio Pennacchi con lo stesso schema (lista civica, destra/sinistra unite contro Di Giorgi, candidato-ombra del chiacchieratissimo sen. Fazzone).
Su Milano non si riuscì a “chiudere”.
Su Latina Pennacchi nicchiò sull’invito a candidarsi, dicendo che comunque poteva essere lo sponsor forte di un nome che rappresentasse una svolta con una lista civica unitaria.
Il congresso.
Il 15 febbraio l’organigramma uscito dell’assemblea congressuale di Fli con Bocchino vicepresidente e Della Vedova capogruppo provoca una gravissima e imprevedibile crisi interna.
Adolfo Urso e Andrea Ronchi contestano il ruolo affidatogli (portavoce e presidente dell’assemblea).
Pasquale Viespoli si associa alle critiche e minaccia l’addio.
Nelle prime 24 ore la polemica sugli organigrammi è trasparente: «Quando Fini è salito in aereo ¬— dice ai giornali un senatore — c’era l’accordo per Urso capogruppo, quando è sceso il coordinatore era Della Vedova. Non è questione di essere ultrà di Bocchino o ultrà di Urso. È questione di metodo. Noi senatori in questo momento siamo come una polveriera che rischia di saltare».
Il 16 febbraio, con la riunione del gruppo al Senato, la polemica muta di tono.
Non si criticano più le scelte sui nomi ma una pretesa “deriva a sinistra” di Futuro e libertà .
E quello diventerà il ritornello di tutta la polemica dei mesi successivi.
Ariecco Latina.
La fantomatica “deriva a sinistra” di Fli, di cui Fabio Granata è visto come l’incarnazione (un po’ perchè si espone, un po’ perchè manca il coraggio di attaccare direttamente Fini) diventa il tema che spacca il partito.
La polemica non ha fondamento, ma determina da un lato le ossessive rassicurazioni della classe dirigente (il “mai col Pd” ripetuto tante volte da Bocchino) e dall’altra una escalation di controaccuse per giustificare la possibile uscita dal partito di chi giudica l’esperimento Fli fallito.
Il “caso Latina” sembra fatto apposta per fare casino. E serve anche per mettere in difficoltà il coordinatore del Lazio Antonio Bonfiglio, già esponente della destra sociale che ha “sposato” la causa di Pennacchi, da parte di chi aspirerebbe al suo ruolo.
Si sottrae al gioco Benedetto della Vedova, certo non sospettabile di simpatie fascio comuniste, che interpellato sull’opportunità della scelta risponde secco: «Latina è Latina e Pennacchi è Pennacchi».
3 aprile. Potito Salatto: “Se la dirigenza nazionale dovesse avallare il disegno Fli-Pd in un capoluogo di provincia come Latina, le ripercussioni interne sarebbero dirompenti, lascerebbero il segno in quanti continuano a ritenere Futuro e liberta’ un partito che si muove nel centrodestra e in particolare in quel nuovo polo alternativo al Pd stesso».
4 aprile. Direzione di Fli sulle candidature.
È ufficiale: no alla Lista Pennacchi, il cui candidato sindaco (condiviso col Pd) doveva essere Claudio Moscardelli. Il pressing ha funzionato.
Lo scrittore commenta: «A me non me l’ ha chiesto solo Granata o la Perina, de fa’ sta cosa! Me l’ ha chiesto proprio Urso, in mezzo alla strada. M’ hanno cercato loro. Tutti a dire: Anto’ , ce stai? T’ impegni? Mo’ Urso ci ha ripensato? Non lo vogliono fare? Ottimo, io un lavoro ce l’ ho! Ma se stavano tanto bene co’ Berlusconi, perchè so’ venuti via dal Pdl? E perchè poi so’ venuti a rompe’ li c… a me?».
9 aprile. Mancano pochi giorni alle scadenze per il deposito delle candidature. Claudio Barbaro (dirigente della provincia di Latina) interpella circoli e militanti della città .
Tutti insistono: non tagliare il link con Pennacchi.
Con uno sforzo generoso, Bonfiglio recupera l’idea e il gruppo che l’aveva sempre sostenuta — Fabio Granata, Luciano Lanna, amico personale dello scrittore, Filippo Rossi, Miro Renzaglia e tanti altri — si mette a disposizione di una soluzione di ripiego: Pennacchi darà il nome alla lista, Filippo Cosignani (Fli) correrà per sindaco, tutti si candideranno e si cercherà di determinare la sconfitta al primo turno del Pdl e di Giovanni Di Giorgi, per poi trasformare il ballottaggio in una grande sfida per il rinnovamento e la legalità .
La lista viene “chiusa” la notte prima del termine, in extremis.
Dal 10 aprile al 15 maggio. La lista Fli-Pennacchi diventa la metafora da impallinare per chi sogna il ritorno a casa, la casa del Pdl, o quantomeno il recupero del ruolo di ruota di scorta del berlusconismo approfittando delle amministrative.
Gli episodi di disturbo e di boicottaggio si sprecano.
Il più grave vede Potito Salatto appoggiare con manifesti e interviste la lista civica Latina Capitale, sostenendo che è l’unica legittimata ad avere il sostegno di Fli.
Sul quotidiano “Latina Oggi” titoli a tutta pagina sulle dichiarazioni dell’europarlamentare: «Per fortuna ci sono candidati di Fli come Cristina Rossi della lista civica Latina Capitale che sostiene Gatto (ex assessore al bilancio, FI) e che avranno modo di catalizzare un voto di centrodestra autentico».
Lo scetticismo sull’esperimento di Latina si diffonde nel partito, dove il solo nome della città provoca litigi e divisioni.
17 maggio. Risultati delle 13 liste in gara.
Di Giorgi, il candidato del Pdl, vince al primo turno con il 50,97 per cento.
Cioè per 250 voti circa. Cosignani si ferma all’1,06.
L’obbiettivo di mandare Di Giorgi ai ballottaggi non era affatto impossibile, anzi: con più impegno e meno bastoni tra le ruote sarebbe stato semplice.
E ai ballottaggi si sarebbe potuta fare una grande battaglia per la legalità e per l’identità di Latina, oltre i partiti, facendo appello al risveglio del senso civico e dell’orgoglio cittadino. Conclusioni.
La sconfitta della lista Fli-Pennacchi dimostra soltanto l’incapacità di comprendere il nuovo di chi l’ha osteggiata in buona fede e la profonda malafede di tutti gli altri, quelli che hanno risposto alla generosità e alle intuizioni del più grande scrittore italiano con miserabili manovrette di corridoio e boicottaggi nell’ombra.
Dovrebbero almeno evitare di usare come un randello la parola “Latina” per delegittimare persone e dirigenti con cui si sentono in competizione (senza essere capaci di competere). Post scriptum.
Grazie ora e sempre ad Antonio Pennacchi, futurista coraggioso.
Flavia Perina
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
LE INTERCETTAZIONI TRA BRIATORE E LA SANTANCHE’ CHE LA PROCURA DI GENOVA HA INVIATO A MILANO…SANTANCHE’: “NON CREDEVO FOSSIMO A QUESTI PUNTI”…BRIATORE: “ADESSO VUOLE CHE DOPO DUE BOTTE LE RAGAZZE GLI DICANO CHE SONO STANCHE, E’ TUTTO COME PRIMA DANIELA: STESSI ATTORI, STESSI PROTAGONISTI”
“È malato, proprio come diceva Veronica”. “Fossi io nei suoi panno non dormirei la notte. Mica per le troie però, per i problemi del Paese”
È Flavio Briatore a commentare da Montecarlo e a raccontare al telefono alla sua amica Daniela Santanchè, il seguito delle avventure del bunga bunga. Intercettato dalla Guardia di finanza di Genova, per la vicenda di evasione fiscale che ha portato, nel maggio 2010, anche al sequestro del suo yacht “Force Blue”.
Le telefonate di Flavio, Daniela e dell’ambiente attorno a Silvio Berlusconi ricostruiscono, fino a pochi mesi fa, la fase della quiete dopo la tempesta: ormai deflagrato lo scandalo Ruby, le “serate eleganti” (come le definisce il presidente del Consiglio) continuano, anche se si trasferiscono da Arcore a Villa Gernetto (a Lesmo, provincia di Monza), dove Berlusconi ha promesso di fondare l’Università delle Libertà .
Questo, almeno, è ciò che racconta chi parla ai telefoni messi sotto controllo dalla procura di Genova: chiacchiere da amici al bar?
Le registrazioni, impietose, danno conto anche delle preoccupazioni di Lele Mora: già sotto inchiesta da parte della procura di Milano con l’accusa di essere uno dei “fornitori” di ragazze per le feste di Arcore, continua a essere messo sotto pressione perchè gli verrebbe chiesto di darsi da fare per organizzare nuove serate.
La guardia di finanza ha portato, la sera di martedì 31 maggio, un pacco di
carte alla procura di Milano.
Provengono dall’indagine del sostituto procuratore Walter Cotugno su presunti reati finanziari che sarebbero stati commessi attraverso finti contratti d’affitto di yacht.
Alcuni proprietari d’imbarcazioni da diporto (tra questi proprio Briatore) sono accusati di truffare il fisco facendo risultare come in affitto le loro barche. Scattano le intercettazioni telefoniche.
Ma ora una parte di queste sono state inviate a Milano, dopo che il procuratore reggente di Genova, Vincenzo Scolastico, ha preso contatto con il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, titolare con Pietro Forno e Antonio Sangermano delle indagini sul caso Ruby.
Rilevanza penale? Scarsa, sembra di capire.
Non ci sono nuove notizie di reato nei documenti arrivati da Genova, ma elementi che potrebbero confermare il quadro accusatorio già delineato dalla procura milanese nei confronti di Berlusconi, a processo per concussione e prostituzione minorile; e di Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora, che sono alla vigilia di un’udienza preliminare: accusati di induzione e favoreggiamento della prostituzione, anche minorile, per aver portato ad Arcore Ruby e almeno una trentina di altre ragazze.
È stato proprio a Villa Gernetto che nell’autunno 2010 si è conclusa una cena burrascosa.
A tavola, insieme a Silvio Berlusconi, erano sedute le sue figlie Barbara ed Eleonora.
Una danzatrice del ventre dopo il dessert ha iniziato a prodigarsi nei confronti del presidente con moine giudicate eccessive dalle figlie. “Vedete? Il vostro papà piace ancora alle donne”, avrebbe detto un Berlusconi invece sorridente e soddisfatto.
A questo punto, per tutta risposta le due ragazze, scosse, si sarebbero alzate da tavola e sarebbero fuggite via.
A Villa Gernetto è avvenuto, il 2 maggio scorso, anche il “debutto in società ” di Nicole Minetti, che Berlusconi ha voluto al suo fianco in occasione di una cena con un gruppo di industriali lombardi.
Segno di una intesa ritrovata.
Due giorni dopo la cena, mercoledì 4 maggio, Minetti ha revocato il mandato al suo difensore, Daria Pesce, rea di aver rotto il fronte difensivo con i legali di Emilio Fede e Lele Mora.
Chi sostiene che i festini proseguano, indicano anche una protagonista inedita del nuovo bunga bunga: una ragazza che nei tratti ricorda molto Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori.
“Assomiglia alla ragazza marocchina, ma è italiana”, racconta al Fatto, dietro la garanzia dell’anonimato , chi l’ha conosciuta: “Sembra una sosia di Ruby, solo un po’ più bassa: capelli neri, carnagione ambrata, labbra rifatte. Italiana, del Sud”.
Età ? “A guardarla non le darei più di 19-20 anni”.
È stata avvistata recentemente a pranzo all’Hollywood Living di via Vittor Pisani, a Milano, il locale accanto al ristorante Da Giannino, frequentato abitualmente da Fede e Mora prima dell’esplosione del caso Ruby.
(da Il Fatto Quotidiano e il Secolo XIX)
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
IN UN PAESE PROFONDAMENTE MUTATO E IN UNA CITTA’ DI 22 MILIONI DI ABITANTI VIGE ANCORA LA PAURA E LA PERSECUZIONE DI CHI DISSENTE… MA GLI STUDENTI MARTIRI DEL1989 VIVONO NEL RICORDO DI CHI LOTTA PER LA LIBERTA’
Ventidue anni dopo le proteste di piazza Tienanmen, conclusesi in un bagno di sangue, l’aspetto fisico di Pechino è profondamente mutato.
La città non è più una serie concatenata di quartieri dove – nel bene e nel male – tutti si conoscevano, dopo che le comunità del centro sono state smembrate e scaraventate nelle periferie; i vecchi vicoli, gli hutong, sono stati distrutti per far sorgere al loro posto grattacieli, centri commerciali, e infiniti complessi per uffici.
La Chang An Jie, la Via della Pace Eterna, l’asse che divide Pechino da Est a Ovest e su cui passarono i carri armati diretti a Tienanmen, attraversa ora uno sfavillante CBD, che sta per Central Business District, il quartiere d’affari centrale, e si è estesa per chilometri, man mano che Pechino si è andata espandendo.
Oggi, gli abitanti della capitale cinese sono più di 22 milioni, più della metà dei quali sono nuovi arrivi, che non erano presenti in città quando, nel giugno del 1989, l’esercito cinese aprì il fuoco sui dimostranti, facendo un numero ancora imprecisabile di vittime.
Da ventidue anni, quello di piazza Tienanmen, o del «6/4» come dicono i cinesi (trascrivendo così il mese e il giorno in cui la città si sveglio con il sangue per le strade) è il tabù più grande che esista in Cina, una data che non può essere menzionata sul Web, che viene pronunciata a proprio rischio e pericolo, che porta, ogni anno, la capitale e il Paese intero ad uno stato di allerta casomai qualcuno volesse dire a voce alta che Pechino non dimentica. Così, le più audaci forme di protesta sono talmente oscure ed intricate da essere rebus per iniziati, un linguaggio in codice comprensibile solo ad alcuni dissidenti e accaniti «netizen» su Internet, e alle forze dell’ordine.
Il Web, per esempio, commemora il «35 maggio» — ovvero il 4 giugno.
La fotografia di un disegno di un cervo morto e una bottiglietta rovesciata vengono scambiate su Twitter e Facebook e sui loro cloni cinesi, lasciando perplessi tutti quelli che non sanno interpretare queste immagini: si tratta di omofonie, che dicono «quattro giugno» (omofono appunto di «cervo morto») e «ribaltare il giudizio», inteso come il giudizio sul 4 giugno 1989 (omofono di «ribaltare la bottiglietta», e anche del nome di Deng Xiaoping, principale leader comunista cinese dell’epoca).
Nulla di meno contorto può essere azzardato, pena l’immediata detenzione.
Per il resto, deve pensarci Hong Kong, l’ex-colonia britannica tornata nel 1997 sotto la sovranità cinese ma che, grazie alla formula «Un Paese Due Sistemi» continua a godere di significative libertà politiche.
Qui, dove un milione di persone scesero nel giugno 1989 al Parco Vittoria per denunciare la decisione di sparare contro la folla, ogni anno viene tenuta una commovente veglia a lume di candela, durante la quale vengono cantate le canzoni di ventidue anni fa, ricordati i morti, e chiesta giustizia e democrazia in nome loro e di tutti quelli che si battono per le riforme politiche in Cina.
Fra i più famosi: il premio Nobel Liu Xiaobo, incarcerato. L’artista Ai Weiwei, scomparso dopo l’arresto di qualche settimana fa.
Quest’anno, le Madri di Tienanmen, un gruppo di familiari delle vittime del 4 giugno 1989, in una lettera aperta hanno rivelato al mondo di essere state contattate da alcuni agenti che volevano sondare la possibilità di offrire loro un pagamento, in cambio della sospensione del loro movimento per la memoria dei loro cari.
Gli agenti hanno ricevuto un rifiuto oltraggiato, e le madri hanno anche specificato che, quest’anno, dopo che Pechino si è lasciata spaventare dai richiami online per organizzare delle «proteste dei gelsomini» come quelle che scuotono il Medio Oriente, e mentre si intensifica nel Partito comunista l’appostarsi strategico in preparazione delle nomine alle massime cariche politiche nell’ottobre del prossimo anno, «la situazione è la peggiore dal 4 giugno 1989. Il silenzio regna in tutto il Paese».
Schizofrenia di una Cina di scintillanti CBD e silenzi forzati, dove autorità all’apparenza solidissime non possono tollerare nè cervi morti, nè gelsomini.
Ilaria Maria Sala
(da “La Stampa“)
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
QUELL’ANDATE AL MARE DEL LEADER SOCIALISTA FU UN BOOMERANG SENZA PRECEDENTI….IL 62% CHE RESPINSE LA CAMPAGNA ASTENSIONISTA FU L’INIZIO DELLA FINE
Referendum inutili, dice Silvio Berlusconi.
“Il più inutile fra i referendum” disse Bettino Craxi di quello, sulla preferenza unica, appresso al quale venne giù la Prima Repubblica.
Non di rado l’archeologia offre rimarchevoli affinità fra gli eventi, e a scavare nei ritagli di un’epoca ormai remota si scopre che corrono esattamente vent’anni e tre giorni tra la scadenza che mette a rischio il berlusconismo e il voto che il 9 giugno del 1991 determinò il crollo del ciclo di potere craxiano. Risale ad allora il celebre invito di Craxi, “Andate al mare”, rivelatosi di lì a poco il più fragoroso boomerang della storia elettorale italiana.
L’anno prima erano andati a monte un paio di referendum (caccia e pesticidi), a via del Corso le agenzie demoscopiche di fiducia registravano un clima di estraneità e di stanchezza.
Finì invece che 27 milioni di italiani, il 62,6 per cento respinsero la campagna astensionista.
E per il leader del garofano fu l’inizio della fine – e non solo per lui.
Il presidente Berlusconi ha qualche ragione per ricordarselo.
Forse è per questo che oggi si limita a dire l’indispensabile: la consultazione del 12 giugno nasce “da iniziative demagogiche” e quindi “si vota sul nulla”. Vent’anni orsono Craxi la mise giù molto più dura: il referendum promosso da Mario Segni non solo costava troppo, ma era “incostituzionale”, anzi “incostituzionalissimo”, “antidemocratico”, “inquinante”, “una truffa”, “un caso di ubriachezza politica molesta”.
Senza accorgersi di aver innescato un referendum su di sè, Craxi agì per convinzione e per sfida, ma anche per arroganza e perchè in realtà , poco lucido e circondato com’era da yes-man, aveva perso il contatto con la realtà del paese e del suo stesso elettorato.
Scettico sul quorum, arrivò a minacciare “il ritiro della licenza” ai sondaggisti che invece lo dichiaravano probabile.
Ma la scena indimenticabile, il 2 giugno, andò in onda durante un pranzo che concludeva di una accaldata visita garibaldina a Caprera, e a un telecronista che provava e riprovava a chiedergli dell’imminente referendum, visibilmente infastidito Craxi diede platealmente le spalle alla telecamera e con voce imperiosa proclamò: “Passatemi l’olio!”.
Ora, è anche vero che i potenti al tramonto un po’ si assomigliano tutti – e tanto più con il senno di poi.
Ma a quel punto l’uomo sembrava già l’ombra di se stesso e intorno a lui s’addensavano segni niente affatto propizi: pur malandato, aveva ripreso a mangiare e a fumare, e mentre a Roma la Gbr di Ania Pieroni andava sperperando soldi in feste e macchinari, a Milano la “Duomo connection” era arrivata a lambire il Psi.
Impantanato nella palude democristiana, c’era il sogno del congresso del centenario, ma intanto i cortigiani si passavano sottobanco l’abbecedario a luci rosse di Moana e sul leader incombevano pure le memorie d’alcova di Sandrocchia.
Su un altro piano, pure dissacrante per la sua leadership, un paio di mesi prima era uscito con enorme successo un autentico atto d’accusa come Il Portaborse, con Nanni Moretti, e proprio nei giorni della campagna referendaria risuonava “L’uomo ragno” di De Gregori: “E’ solo un capobanda,/ ma sembra un Faraone,/ si atteggia a Mitterrand,/ ma è peggio di Nerone”.
Il risultato elettorale, lo sfondamento del quorum, colse Bettino come un fulmine tra le rovine di Beirut, dove era andato come osservatore speciale dell’Onu con giornalisti al seguito.
Stringendosi nelle spalle disse: “Io da solo non posso far miracoli” – e anche questa è la frase preferita di chi, troppo spesso invocato come un salvatore, sperimenta di colpo la solitudine del comando al momento della disfatta.
Tra gli inviati c’era Augusto Minzolini, che due giorni dopo seguì Craxi in Sicilia, dove pure si stava per votare (e il Psi andò malissimo).
Proprio a lui, sulla botta referendaria che ancora gli doleva, il leader volle consegnare una recriminazione che a vent’anni di distanza suona, più che paradossale, ineffabile e a suo modo forse anche profetica: “Non abbiamo ingaggiato battaglia. Io non ho fatto nemmeno un comizio. Non c’è stata una campagna di spot, mentre gli altri l’hanno fatta anche nelle tv private. Del resto la Fininvest – e qui Berlusconi può farci un pensierino – è senza patria: incassa e basta”.
Filippo Ceccarelli
(da “La Repubblica“)
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
L’AMMINISTRATORE DELEGATO STELLA ANNUNCIA ANCHE CHE TELECOM CEDERA’ IL CONTROLLO DELLA RETE: PROBABILMENTE A CARLO DE BENEDETTI…IL TG DI MENTANA VELEGGIA AL 10%, LA 7 SEMPRE PIU’ AMBIZIOSA: CRESCE DEL 22% LA PUBBLICITA’
Qualche giorno fa, più diplomatico che incisivo, Giovanni Stella parlava per metafore.
L’amministratore delegato di La7 si paragonava a un paziente addestratore che aspetta i macachi-conduttori che scendono frastornati dal banano Rai.
Adesso l’ad Stella torna a fare onore al suo soprannome, il canaro, un dirigente concreto nel maneggiare affari e dichiarazioni.
Mira al banano di viale Mazzini: “Uno o due fra Michele Santoro, Milena Gabanelli, Giovanni Floris e Fabio Fazio verranno a La7”.
E poi pettina le disordinate indiscrezioni sul futuro di Telecom Italia Media, la società del gruppo La7 che fa capo a Telecom: “Entro fine anno avremo un azionista di maggioranza relativa con il 40 per cento del capitale, il 37 all’attuale proprietà e il 23 sul mercato”.
Qualcuno avvisi viale Mazzini.
Come cambiare l’immagine di un Cda Rai che in apparenza conferma i programmi sgraditi al Cavaliere e in pratica tiene in bilico mezza Raitre (oltre Annozero)?
E come spiegare la sfilata dei direttori di rete che illustrano i progetti al direttore generale Lei e scopriranno di aver sbagliato previsioni?
Ecco come la racconta chi aspetta un cenno per firmare i contratti: “Manca un particolare: il voto del Cda Rai. Le porte sono aperte e noi — aggiunge Stella – abbiamo un accordo di massima con almeno due conduttori del servizio pubblico. Posso dire che uno o due verranno a La7, ma preferisco usare il condizionale: potrebbero. Vedremo nei titoli di coda chi avrà ragione”.
Con chi discute l’amministratore delegato di La7? Sente Beppe Caschetto, l’agente di Floris e Fazio? “Spesso”. E Santoro? “Anche”.
Stella è in piena campagna acquisti nel servizio pubblico che per pubblicità , canone e ascolti dovrebbe sovrastare l’emittente di Telecom; ma la politica e il governo frantumano la solidità di viale Mazzini e così La7 è l’unico approdo sicuro.
Fermi, le trattative sono chiuse, però Stella sigilla le buste con i nominati: “Ripeto: uno o due dei quattro che ho citato. Ora osserviamo le mosse della Rai”.
E poi fa intuire che Santoro è tra i più indiziati assieme a uno fra Fazio e Floris.
à‰ facile capire i motivi.
Sul giornalista di Annozero pende il ricorso di viale Mazzini contro il suo reintegro: la sentenza in Cassazione arriverà mercoledì.
E la Rai nasconde le carte a Fazio — senza contratto come Floris — per la terza serata di Che tempo che fa, che compare e scompare come nei giochi di prestigio.
Stella offre libertà editoriale più che accordi milionari: contratti a rendimento, un minimo garantito e premi per i risultati Auditel.
L’indice share e il conto in banca cresceranno con la stessa velocità sul modello Enrico Mentana: la scommessa era il 7,5 per cento del telegiornale, ora veleggia sul 10.
Per investire Telecom ha bisogno di capitali freschi: “Avremo un compagno di viaggio per sanare i conti e migliorare il prodotto”.
In corsa (nonostante la smentita) c’è l’ingegnere Carlo De Benedetti con il gruppo Espresso-Repubblica: “È una fra le tante ipotesi”, dice Stella.
Il valore in Borsa di Telecom Italia Media è di 278 milioni di euro, il 40 per cento vale circa 300 milioni fra capitale azionario e offerta pubblica di acquisto (opa).
E quanto vale La7?
Nei primi tre mesi del 2011 ha incassato il 22% in più di pubblicità , passando dai 27,5 milioni nel trimestre 2010 ai 33,5 milioni nel 2011, in proporzione cala il passivo fra costi e ricavi.
I numeri migliori sono fuori dal bilancio.
à‰ l’abbondante 10 di share di Mentana che trascina Otto e Mezzo, l’Infedele e In Onda e fissa la fascia 18-20:30 al 4,26% (media giornaliera al 3,4).
Dal 2009 a oggi, i canali generalisti di Rai e Mediaset hanno perso l’8% di share, ma La 7 è cresciuta soltanto di mezzo punto.
Ecco perchè Stella s’è piazzato sotto il banano più grosso e masochista.
Carlo Tecce
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
CICCHITTO IMPRESENTABILE, LUPI TROPPO DEBOLE, IL TOTO-MINISTRO DELLA GIUSTIZIA VEDE SOLO DUE FAVORITI: IL PROCURATORE AGGIUNTO DI VENEZIA E CHI HA OTTENUTO L’ESAME DI ABILITAZIONE DA AVVOCATO A REGGIO CALABRIA
Anche il prossimo ministro della Giustizia colpa di Pisapia?
Carlo Nordio — lanciato da Gianni Letta per la successione ad Alfano durante l’ufficio di presidenza post elettorale del Pdl — rallenta.
E forse un ruolo lo avrà giocato quel libro scritto non molto tempo fa assieme all’oggi neosindaco di Milano.
Promettente il titolo: “In attesa di giustizia: dialogo sulle riforme possibili”. Probabilmente letale invece il coautore, indicato variamente dai berluscones come un talebano filogay.
Ed ecco la colpa: in grande ascesa per via Arenula adesso sarebbero le quotazioni di Mariastella Gelmini.
Fedelissima, come Alfano. Giovane, come Alfano. Più incline all’osservanza dei desideri del capo che all’esercizio costruttivo del dubbio. Proprio come Alfano.
E che la ministra dell’Istruzione — laurea in giurisprudenza in tasca, per carità — abbia conquistato l’abilitazione di avvocato transumando da Brescia a Reggio Calabria perchè il concorso era una passeggiata (93% di ammessi agli orali si conteggiò allora) deve essere considerato più un “buon spirito di adattamento” che l’ennesima furbata.
Testa a testa allora.
Superato per impresentabilità il nome di Cicchitto (un piduista alla Giustizia Napolitano non l’avrebbe mai digerito), debole quello di Lupi — buono però per essere dirottato proprio all’ Istruzione — all’aspetto i leghisti che con le inevitabili vicende processual-berlusconiane vogliono avere a che fare il meno possibile, ecco che l’eminenza azzurrina nel vertice di martedì ha servito al premier il nome del procuratore aggiunto di Venezia.
Nel curriculum avranno brillato per gli occhi del Cavaliere le inchieste sul finanziamento del Pci-Pds.
E certamente anche l’antica amicizia con Cesarone Previti di cui Nordio è stato spesso commensale al circolo Cannotieri Aniene.
Così come l’aver atteso ben sei anni prima di spedire a Roma le carte con la richiesta di archiviazione per Occhetto e D’Alema alla fine dell’inchiesta sulle coop rosse; non male per uno che potrebbe essere chiamato a gestire il processo breve.
“Avendo indagato a fondo sul vecchio Pci posso dire che l’espressione “questione morale” è impropria, ambigua; perchè è stata usata da un partito che non aveva nessuna legittimazione a dare lezioni di moralità tenuto conto che il Pci veniva finanziato dall’Urss, ovvero da un Paese nemico” una delle sue massime più riuscite.
Che stride un po’, però, a ben guardare con quella vecchia storia che fece tanto scalpore all’epoca di Mani Pulite quando dalle carte tirate fuori dal pm Ielo vennero gettate ombre su di lui; in una conversazione telefonica della linea “calda” di Hammamet, il figlio del legale di Craxi lo definì “uno molto fidato”.
Il mondo politico, ovviamente, non restò in silenzio e Nordio replicò seccato: “Craxi mi ha definito un giudice fidato? Se fidato è chi indaga a 360 gradi e non si limita a Dc e Psi, allora lo sono”.
Parole che adesso rendono più chiaro il perchè l’eminenza azzurrina abbia potuto pensare a lui, sparigliando un tavolo del partito alla mercè di mille correnti.
Nordio in politica dunque?
“Io penso che nessun magistrato dovrebbe mai candidarsi alle elezioni, a maggior ragione non deve farlo un pm che è diventato famoso per inchieste in ambito politico” un altro dei suoi motti, forse le ultime parole famose.
Ma a cambiar idea si fa sempre in tempo.
Anzi, da quelle parti è un vizio che va sempre di gran moda. Epperò sono anche altre le cose che pesano.
Di certo il Cavaliere vede in Nordio un assist non da poco per portare al traguardo quella riforma della Giustizia, che tanto gli preme issare come bandiera in ricordo del suo ultimo passaggio al governo del Paese.
Nordio potrebbe essere il cavallo di Troia vincente per infrangere le barriere che gran parte della magistratura ha eretto contro la riforma.
Certo, però, non è un “famiglio”. E sarebbe difficile “muoverlo” sul fronte delle intercettazioni piuttosto che su quello, non meno impervio, delle — eventuali — altre leggi ad personam che sono spuntate come funghi in parlamento poco prima dell’inizio della campagna elettorale per le amministrative.
Più docile agli ordini del Cavaliere sarebbe senz’altro una come la Gelmini (il cui posto all’istruzione verrebbe preso da Lupi), il cui pugno di ferro sulla riforma universitaria ha mostrato il nerbo di cui è capace quando si tratta di fare la voce grossa e andare avanti nonostante tutto.
Silvio, insomma, non ha ancora deciso.
Anche se qualche accenno alla questione è stato lanciato ieri, quando Berlusconi e Letta sono saliti al Quirinale per parlare con Napolitano dell’esito degli incontri internazionali avuti durante i festeggiamenti per il 2 giugno.
Ci vorrà ancora qualche tempo, comunque dopo i referendum, perchè il nodo venga sciolto definitivamente.
Nordio, dicono ambienti pidiellini, non si sottrarrebbe a una chiamata, di certo se lo aspetta.
La sua ultima apparizione pubblica però non è stata delle migliori.
Lunedì sera, Auditorium di Roma.
Messa in scena del processo a Giulio Cesare.
Lui, il procuratore, a rappresentare l’accusa. “Fragile, mal sostenuta, di malavoglia”.
Ed infatti — a certificarlo il presidente della giuria popolare, per l’occasione Francesco Gaetano Caltagirone — Cesare finisce assolto.
Ma non è finita. Flebili voci insinuano per il post- Alfano addirittura il nome di Augusta Iannini, capo dell’ufficio legislativo di via Arenula.
Peccato sia la moglie di Bruno Vespa.
Sara Nicoli ed Edoardo Novella
(da “Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
ECCO I NUMERI CHE I PROMOTORI SPERANO DI RAGGIUNGERE PER PORTARE A VOTARE PIU’ DEL 50% DEGLI ELETTORI
Confermato il voto sui quattro quesiti, le forze politiche si chiedono se il quorum del 50% degli elettori più uno (necessario perchè il referendum sia valido) sia raggiungibile o meno.
I cittadini, infatti, hanno a disposizione due opzioni – se vanno alle urne: scegliere il “sì” (cioè votare per cancellare la legge) o il “no” (se vogliono mantenerla in vigore). Poi c’è l’astensionismo volontario, che va spesso ad aggiungersi a quello fisiologico e che sovente è stato incoraggiato dal “fronte del no” per far mancare il quorum.
Infatti, anche in caso di vittoria del “sì” nel conteggio delle schede, il risultato è efficace e valido solo se va a votare – come si diceva – la metà più uno degli aventi diritto al voto.
Dal referendum sul divorzio (1974) a quelli del giugno 2009, gli italiani sono stati chiamati a votare su 62 quesiti in 15 occasioni.
In otto si è raggiunto il quorum, con percentuali di votanti variabili fra il 57% (1995) e l’87,7% (1974); in sette (1990, 1997, 1999, 2000, 2003, 2005, 2009) il quorum non è stato raggiunto (l’affluenza è stata compresa fra il 23,3% del 2009 e il 49,6% del ’99). La percentuale media dei votanti (1974-2009) è stata pari al 54,5%, però: anni ’70, 84,4%; anni ’80, 74,1%; anni ’90, 53,2%; 2000-2009, 26,7%.
Negli anni Duemila, perciò, il raggiungimento del quorum è stato il principale terreno di confronto fra “partito del sì” e “partito del no”.
Secondo nostri calcoli, per ottenere il quorum del 50,01% al referendum abrogativo, se ci basiamo sui tradizionali comportamenti di voto, occorre che l’affluenza alle 12 di domenica 12 giugno sia almeno del 10%; alle 19 del 26,5-27%; alle 22 del 37-37,5% (giungendo al 50,1-50,5% alle 15 del giorno dopo).
Ma se l’obiettivo è più alto (poniamo il 55% nazionale, se l’affluenza dall’estero è bassa) la percentuale minima per il quorum è più elevata: alle 12 il 10,5-11%; alle 19 il 29-29,5%; alle 22 il 40,5-41, per arrivare a quota 55% alle 15 del 13 giugno.
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
NEL 2010 IL NUMERO DEI GRANDI EVASORI SMASCHERATI, CON VOLUME DI AFFARI OLTRE 100 MILIONI DI EURO, E’ AUMENTATO DEL 56%… LE IMPOSTE EVASE CORRISPONDONO AL 17% DEL PIL… IL MAGGIOR IMPORTO DI REDDITO EVASO E’ LOCALIZZATO AL CENTRO-NORD DEL PAESE
Negli ultimi anni la lotta all’evasione ha dato dei frutti, però il fenomeno è ancora estesissimo.
I lavoratori autonomi e gli imprenditori dichiarano il 56,3% in meno di quanto incassano, celando al fisco una media di 15.222 euro a testa, e i proprietari di case riescono a non dichiarare addirittura l’83,7% dei loro redditi immobiliari, pari a 17.824 euro medi pro-capite.
Questo quadro impietoso esce dal rapporto del gruppo di lavoro sull’«Economia non osservata» (un nuovo eufemismo), guidato dal presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, in vista della riforma fiscale che si spera possa ridurre lo scandalo.
Guardando ai numeri aggregati, il sommerso in Italia rappresenta una fetta importante del prodotto lordo: nel 2008 l’ampiezza dell’economia «in nero» è stata stimabile fra un minimo di 255 miliardi di euro e un massimo di 275 miliardi, pari rispettivamente al 16,3 e al 17,5% del Pil.
Invece nel 2000, il valore aggiunto prodotto nell’area del «sommerso» economico risultava fra i 217 e i 228 miliardi di euro, rispettivamente il 18,2 e il 19,1% del Pil. Quindi c’è stato un recupero di legalità , ma lento e insufficiente.
Vista l’enormità delle cifre in gioco, è chiaro che se tutti pagassero il dovuto, lo Stato non avrebbe più problemi di bilancio, e si potrebbero finanziare molti più servizi.
Il peso del sommerso differisce molto per settore di attività : nel 2008 in agricoltura è stato il 32,8% del valore aggiunto totale (9,1 miliardi di euro), nel settore industriale si è fermato al 12,4% (52,8 miliardi) e nel terziario è arrivato al 20,9% (212,9 miliardi).
In assoluto, secondo questo studio che ha i crismi dell’ufficialità , l’evasione raggiunge i picchi maggiori nel settore degli alberghi, dei bar e dei ristoranti e in quello dei servizi domestici.
Se invece si guarda all’evasione media di tutti i cittadini italiani, la quota non è un granchè: nel 2010 è stato evaso, secondo queste stime, soltanto il 13,5% del reddito dichiarato, per una media di 2093 euro a contribuente.
Ma numeri così bassi si ottengono mettendo nello stesso calderone l’evasione zero dei redditi tassati alla fonte (essenzialmente quelli da lavoro dipendente) e l’evasione molto più facile di molti altri tipi di introito.
Ci sono anche delle notevoli differenze territoriali.
Nel Centro Italia il valore medio del reddito evaso è di 2.936 euro per contribuente (pari al 17,4% del reddito complessivo), al Nord si scende a 2.532 euro (cioè al 14,4%) e nel Mezzogiorno a 950 euro (il 7,9%).
Il Fisco non sta a guardare.
Nel 2010 il numero dei grandi evasori (quelli con un volume d’affari oltre i 100 milioni) smascherati è aumentato del 56%, e sul complesso dei contribuenti la maggiore imposta accertata è cresciuta a 27,8 miliardi (da un valore di 26,3 miliardi nel 2009).
Però questi numeri sono ancora modesti rispetto alla dimensione del fenomeno da contrastare.
Anche da qui viene la necessità di un’incisiva riforma del sistema fiscale, che il lavoro di Enrico Giovannini e del suo studio è inteso a facilitare.
Fatta l’Italia, nel centocinquantenario dell’Unità proviamo a disfare gli evasori.
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Giugno 4th, 2011 Riccardo Fucile
CONTRO LA PRIVATIZZAZIONE SI SCHIERANO MOLTI SINDACI DEL CENTRODESTRA, MENTRE IL PD, CHE ORA APPPOGGIA IL SI’, E’ STATO A LUNGO SU POSIZIONI LIBERISTE
Cosa hanno in comune il sindaco siciliano di Menfi e quello leghista di Bardolino?
I vescovi e i centri sociali? Hanno in comune un bene, anzi un bene comune: l’acqua.
E per difenderlo dalla speculazione e dalla logica del profitto hanno deciso di schierarsi a favore dei referendum contro la privatizzazione delle reti idriche del 12 e 13 giugno.
Se è vero che raggiungere il quorum sarà molto difficile, una delle chiavi per un eventuale successo è proprio la trasversalità del sostegno al “sì” ai quesiti che riguardano la gestione degli acquedotti.
Non solo quella tutto sommato poco sorprendente tra l’area anticapitalista dei no global e il richiamo della Cei 1 al francescano “molto utile et humile et pretiosa et casta sor
Aqua”, ma anche quella che passa dentro partiti e coalizioni.
La campagna per il voto su legittimo impedimento e nucleare si è caratterizzata da subito come uno scontro politico tra opposizione e governo, ma sul tema dell’acqua le cose stanno diversamente.
Da sempre si tratta di una questione che divide gli schieramenti al loro interno e anche l’apparente compattezza ostentata attualmente dal Partito democratico non deve trarre in inganno.
I referendari ricordano ancora l’estremismo filo privatizzazione di Linda Lanzillotta, ex ministro per le Autonomie locali nel governo Prodi ora nell’Api di Francesco Rutelli, ma tentazioni “liberiste” non sono mancate in passato neppure all’attuale segretario Pierluigi Bersani.
Posizioni che nel partito hanno convissuto a lungo con quelle della componente ecologista e più “movimentista”.
“Ma tutto sommato nel Pd quando era al governo la posizione favorevole alla logica del mercato era maggioritaria”, rievoca Stefano Ciafani di Legambiente.
Malgrado la passate ambiguità del centrosinistra, le due norme sulle quali i cittadini saranno chiamati a pronunciarsi il 12 e 13 giugno portano comunque la firma del governo Berlusconi.
Provvedimenti varati nonostante i mal di pancia della Lega, per la quale il passaggio della gestione dal pubblico ai privati rappresenta sia un problema ideologico che di potere.
Da un lato per il partito del federalismo è difficile giustificare l’arrivo nelle “sue” valli di imprese “forestiere” interessate a fare i soldi con le sorgenti “padane”.
Dall’altro anche le municipalizzate più grandi e solide come quelle di Milano e Brescia hanno da temere dall’apertura di gare per la gestione della rete idrica che le vedrebbero in concorrenza con multinazionali in grado di far pesare le loro risorse finanziarie e di impossessarsi non solo del servizio, ma anche di un eccezionale strumento di potere.
Una contraddizione che a suo tempo il Carroccio ha cercato di risolvere inserendo nella contestata “legge sviluppo” del 2008 un emendamento su misura che permette deroghe nella privatizzazione dell’acqua “per situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”.
Una frase che potrebbe essere tranquillamente tradotta così: “Avanti con la privatizzazione, però in Val Brembana e nelle altre valli facciamo come ci pare”.
Ma evidentemente la rassicurazione non è stata sufficiente perchè in questi mesi, molto prima che lo stesso Umberto Bossi ammettesse che i quesiti sono “attraenti”, il numero di amministrazioni comunali del Lombardo-Veneto che si sono schierate per “la tutela dell’acqua bene comune” si è andato moltiplicando, fino al clamoroso manifesto del sindaco di Belluno Antonio Prade con i “dieci buoni motivi per votare sì al referendum”. Naturalmente c’è anche chi ha preferito non esporsi e non ha preso posizione, ma Walter Bonan, del comitato veneto “per l’acqua bene comune”, la situazione la fotografa così: “Ho fatto decine e decine di iniziative in comuni e piccoli centri. Magari a volte di gente ce n’era poca perchè l’informazione soprattutto all’inizio scarseggiava, ma non è mai successo che qualcuno si alzasse per difendere la privatizzazione”.
Ancora più in là nella battaglia per l’acqua pubblica si sono spinti gli amministratori siciliani, regione dove la sinistra non brilla certo per numero di municipi controllati. Sull’Isola, che grazie allo statuto autonomo e all’intraprendenza dell’ex presidente Totò Cuffaro ha sperimentato la privatizzazione degli acquedotti con qualche anno d’anticipo, si è coalizzato un vastissimo movimento d’opposizione al quale hanno aderito oltre 140 giunte locali.
“C’è stata una mobilitazione straordinaria da parte di amministratori di tutti i colori politici a sostegno della legge regionale d’iniziativa popolare che sancisce il divieto di mercificazione delle risorse idriche, anche perchè qui è un impegno che si intreccia con quello per la legalità “, ricorda Antonella Leto del Forum siciliano dei movimenti per l’acqua.
Un impegno davvero straordinario perchè a differenza che al Settentrione, dove tutt’al più si può finire espulsi dal partito, in Sicilia ci si spinge fino a rischiare la vita.
Come sta accadendo a Michele Botta, sindaco di centrodestra di Menfi, nell’agrigentino. In prima fila a sostegno della campagna “per l’acqua bene comune”, Botta, come altri suoi colleghi, è stato più volte oggetto di minacce mafiose, compreso l’invio di una busta con un proiettile.
Valerio Gualerzi
(da “La Repubblica“)
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