Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
IL MIRACOLO ITALIANO: IL VENTO DI CAMBIAMENTO HA SPINTO I REFERENDUM FINO ALLA VITTORIA… SCONFITTA LA VECCHIA POLITICA INCAPACE DI INTERPRETARE LA VOLONTA’ POPOLARE… NON HA PREVALSO LA SINISTRA: DA DESTRA UNA VALANGA DETERMINANTE DI SI’
E’ stata una vittoria del popolo italiano, senza distinzioni tra destra e sinistra: si è affermato innanzi tutto il diritto dei cittadino a poter decidere del proprio futuro senza delegare sempre e comunque i capibastone.
Dopo avergli imposto persino le liste bloccate, l’italiano alla prima occasione ha voluto ricordare alla nostra classe politica che la legittimazione del parlamento viene dal popolo.
Ne ha tratto giovamento chi ha saputo interpretare il vento di cambiamento in atto nel Paese, nelle giovani generazioni, nei disamorati dalla politica che chiedono una svolta.
Una contrapposizione ormai plastica tra i “vecchi dentro”, dove il cerone non riesce più a nascondere le maschere dell teatrino dei vecchi riti della politica, le cene del lunedi ad Arcore, le riunioni a palazzo Grazioli, i vertici in via Bellerio dei famelici colonnelli del Senatur, la cacciate dalla Rai dei personaggi scomodi, la corruzione, la crisi, la mancanza di rispetto dellei istituzioni e dall’altro lato le preoccupazioni delle famiglie, i giovani alla ricerca di un lavoro, lo sfruttamento dei precari, il desiderio di un mondo più giusto, un modello di sviluppo dove venga fatto funzionare “il pubblico”, la vera unica alternativa alla svendita dei servizi al privato.
In due giorni questa Italia è scesa simbolicamente in piazza, senza bisogno dei tumulti che avvengono al di là del Mediterraneo, e ha mandato l’avviso di sfratto alla coalizione affaristica-razzista che guida l’Italia.
In tempi normali nessuno avrebbe mai ipotizzato che quattro referendum avrebbero visto la partecipazione di massa di quasi il 60% degli italiani.
Compresi cittadini che non votavano da anni per il disgusto.
Una percentuale talmente ampia e imprevedebile che non è attribuibile alle sole forze di sinistra: sono stati tanti coloro che a destra hanno espresso e propagandato quattro Si, come abbiamo fatto noi, facendo capire che una destra diversa è possibile anche nel nostro Paese.
E che se una volta “non si poteva morire democristiani” ora è giusto battersi per non morire berlusconiani o leghisti.
Ora che la becerodestra, insensibile persino ai temi ambientali oltre a quelli della solidarietà umana e dei diritti sociali, ha ricevuto l’avviso di sfratto, occorre far nascere una nuova destra, attenta ai cambiamenti in atto nella società italiana.
Fuori dagli steccati e dagli stereotipi, attraverso un confronto a tutto campo che rivaluti concetti quali legalità , abolizione dei privilegi della casta, legge uguale per tutti, meritocrazia, solidarietà , tutela dell’ambiente e qualità della vita, fisco giusto, risorse per la scuola pubblica e per la sicurezza, servizi pubblici efficienti, lotta alla corruzione nella Pubblica Amministrazione.
Non ha importanza quando questa destra sociale riuscirà a governare l’Italia, è essenziale incamminarsi verso la meta.
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Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
VITTORIO SI E’ RIPRESO LA STANZA CHE FU DI MONTANELLI, COME SE NON SE NE FOSSE MAI ANDATO E SALLUSTI SI RIFUGIA NELLA SALA RIADATTATA…. LA POLEMICA CON ANGELUCCI
Gerenze e divorzi. “Libero” e “Giornale” di sabato 11 giugno.
Il nome di Vittorio Feltri, in qualità di fondatore, compare sotto la testata di “Libero”. La firma però è in prima pagina sul “Giornale” di Alessandro Sallusti (direttore) e Daniela Santanchè (concessionaria di pubblicità ), soprannominati Olindo e Rosa da Feltri medesimo.
Una trama complicata. Per fortuna, si tratta di un film già visto.
Feltri che lascia “Libero” (per la seconda volta) e va al “Giornale” (per la terza volta).
La nuova puntata del tormentone inizia due settimane fa, il 30 maggio.
È il lunedì nero del Cavaliere che perde a Milano e Napoli.
Nemmeno Sallusti sta tanto bene: tre by-pass al cuore.
Al terzo piano della redazione del “Giornale” a Milano, in via Negri, arrivano gli operai. Bisogna ricavare un ufficio in più. Al momento il piano è diviso così: il direttore Sallusti nella stanza-monumento che fu di Montanelli, con annessa segreteria; poi i vice De Bellis e Porro; infine la sala riunione.
Cominciano i lavori. Si piccona, si abbatte, si restringe, si ridipinge.
Al terzo piano c’è un altro inquilino da sistemare.
La comparsa degli operai è la conferma più evidente alla voce che circola da giorni sul ritorno di Feltri.
Altra scena, altra città . Roma, mercoledì primo giugno. Un lancio di agenzia annuncia: “Pdl: Angelucci lascia gruppo”.
Il deputato berlusconiano Antonio Angelucci detto Tonino è il patriarca della famiglia che controlla “Libero”.
Melania Rizzoli, sua amica e collega a Montecitorio, va ripetendo: “Tonino è furibondo”.
Furibondo per l’improvviso addio di Feltri ma anche per la sentenza dell’Agcom (il cui consiglio è a maggioranza di destra) che impone a “Libero” di restituire 12 milioni di euro di soldi pubblici e gliene fa perdere altri 6 non incassati ma già messi a bilancio.
Agli Angelucci, re delle cliniche, viene contestato di aver preso finanziamenti per due testate: “Libero”, appunto, e “Il Riformista” (poi ceduto).
Venerdì 3 giugno. È l’ultimo giorno di Feltri a “Libero”.
Chiuso nella sua stanza batte a macchina la lettera di dimissioni. L’affida alla segretaria che la spedisce via fax ad Arnaldo Rossi, presidente del cda del quotidiano. Il Diretùr bergamasco va via senza salutare nessuno.
Nè Belpietro, nè la redazione, nè il direttore generale Cecchetti.
Lunedì 6 giugno. Feltri si presenta al “Giornale” e conduce la riunione del mattino. Chi c’era commenta: “Si è comportato come se fosse andato via il giorno prima”. Feltri torna da editorialista ma si muove da direttore.
Sallusti gli cede la stanza ed è costretto a traslocare nell’ufficio ricavato dalla sala riunioni.
Ma alla redazione Olindo si dice “contentissimo e rincuorato”. Al punto che l’amico ritrovato Vittorio “mi aiuterà a guarire il cuore”. Rosa, raccontano, approva.
A “Libero” si vendicano così: “Azouz-Feltri è tornato da Rosa e Olindo”.
Il Diretùr accoglie e boccia proposte di articoli, con lui tornano le prime pagine “squadrate come se fossero disegnate da un grafico bulgaro”.
Giovedì 9 giugno. Antonio Angelucci, accompagnato dal figlio prediletto Giampaolo, va a Palazzo Grazioli, la residenza romana di Berlusconi.
All’uscita, sibila: “Andare via dal Pdl? Mai dire mai”.
Il deputato gioca ancora con le minacce di rottura. In realtà , il colloquio con il premier sarebbe andato molto bene. Il chiarimento tocca varie questioni, compresa la sentenza Agcom.
Il sospetto è che Feltri, azionista di “Libero” con il 10 per cento (pacchetto dal valore di 11mila euro), abbia fiutato il crac e sia scappato via.
B. è accomodante, come al solito: “Tonino ti giuro che non sapevo nulla del ritorno di Feltri al Giornale”. Il Cavaliere si confida anche: “I miei figli vogliono che mi ritiri dalla politica per salvare le aziende”.
Sulla sentenza Agcom, poi, viene coinvolto con una telefonata anche Cesare Previti, tuttora ascoltato nell’inner circle di Palazzo Grazioli.
Tra cavilli e tecnicismi il ricorso al Tar potrebbe far ben sperare.
Gli Angelucci si sono sbarazzati del “Riformista” e potrebbero fare l’en plein: non restituire i 12 milioni e riprendersi i 6 previsti. Chissà .
Senza dimenticare gli ottimi rapporti con il triumviro-banchiere del Pdl Denis Verdini, cui il deputato-patriarca Angelucci ha prestato 15 milioni di euro per i guai del Credito Cooperativo Fiorentino.
Venerdì 10 giugno. Feltri verga il suo primo articolo da editorialista-direttore del “Giornale”.
Altra battuta maligna a “Libero”: “Per il momento non abbiamo perso copie. Feltri è uscito talmente in sordina che nessuno se n’è accorto”.
Alla prossima puntata di “Casa Olindo”.
Francesco Cafiero
(da”Il Fatto Quotidiano“)
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Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
UNA PERCENTUALE COSI’ ALTA AI REFERENDUM PAREVA IMPOSSIBILE, ANCHE CHI ERA PARTITO PER IL MARE PRIMA E’ ANDATO A VOTARE…GLI ITALIANI STANNO REAGENDO A QUALCOSA CHE NON SOPPORTANO PIU’
Che cosa c’entrano le telefonate tra la Daniela Santanchè e Flavio Briatore con l’alta affluenza alle urne? Apparentemente nulla.
Forse però è un nulla — appunto — solo apparente. Cerchiamo di capire perchè.
Che alle 22 la percentuale dei votanti sarebbe stata superiore al 41%, fino all’altro ieri pareva impossibile.
Un qualcosa a metà tra le audaci speranze e le pie illusioni della sinistra, o più in generale del fronte antiberlusconiano.
Già i quesiti non apparivano tanto semplici e digeribili (diciamo la verità : sull’acqua non abbiamo capito niente); in più ieri c’era il sole quasi ovunque, le scuole s’erano chiuse il venerdì o al massimo il sabato, insomma il momento era ideale per partire per le vacanze, o almeno per un week-end lungo.
Invece, a Milano le code per i laghi o per la Liguria ci sono state, sì, ma abbiamo visto gente partire non prima di essere andata a votare; e così è stato a Bologna: in coda per l’Adriatico, ma dopo una deviazione per i seggi.
A Roma, in quartieri lussuosi, la coda la si è vista ai seggi, e per giunta anche all’ora di pranzo.
Sono stati segnali, anche piccoli, ma segnali.
Segnali di una mobilitazione generale che non si vedeva da tempo.
Non sappiamo se oggi alle 15 il quorum sarà raggiunto.
Ma che una partecipazione superiore al nostro recente passato ci sia stata, è fuor di dubbio a prescindere da come andrà a finire.
Il 50% più uno sarebbe un risultato incredibile; ma anche una percentuale insufficiente, però di poco più bassa, sarebbe comunque una sorpresa.
E «incredibile» e «sorprendenti» erano stati, pochi giorni fa, le vittorie di Pisapia a Milano (dove da diciotto anni governava la destra) e di De Magistris a Napoli.
Insomma, sembra davvero che gli italiani stiano reagendo a qualcosa che non sopportano più.
Che stiano mandando avvertimenti forti a chi guida, o dovrebbe guidare, il Paese.
Ieri sera Umberto Bossi è sbottato. Ha detto chiaro e tondo — come sa fare lui, che se ne infischia della diplomazia — che Berlusconi ha perso i contatti con il Paese reale, che non sa più intercettare gli umori della gente, che non è più capace di comunicare. Se ci pensate bene, togliere queste tre caratteristiche a Berlusconi vuol dire togliergli quasi tutto.
Ebbene, Bossi l’ha fatto, furibondo per la figuraccia di un premier che va al mare mentre i cittadini vanno alle urne.
Se oggi il quorum ci sarà , Berlusconi avrà ripetuto l’errore commesso da Craxi vent’anni fa, quando invitò gli italiani ad astenersi, ottenendo l’effetto contrario.
Quell’errore precedette di poco la caduta di Craxi.
Siamo ora vicini a una fine di Berlusconi? Troppo presto per dirlo.
Ma, al di là di ogni ipocrisia, nessuno può negare che il voto a questo referendum è anche (e forse soprattutto) un voto contro Berlusconi.
Lo è diventato perchè tra i quesiti c’è quello sulla norma che rallenta i processi contro il premier; e lo è diventato ancor di più per l’esplicito invito del Cavaliere all’astensione.
Molti hanno pensato: Berlusconi dice di non andare a votare? E allora io ci vado.
Far finta che così tanti italiani siano andati alle urne solo perchè interessati al nucleare e all’acqua equivale a fingere che due settimane fa la posta in gioco fossero le amministrazioni municipali di Milano e Napoli.
Berlusconi per primo aveva detto che il voto di Milano sarebbe stato un referendum su di lui. E a Milano ha preso la metà delle preferenze che aveva preso cinque anni prima.
E il Pdl è crollato ovunque, non solo a Milano dove c’era — come detto con il senno di poi dal premier e dai suoi imbarazzanti portavoce — una «candidata poco adatta» come Letizia Moratti.
Insomma, il voto a questi referendum, quello alle recenti amministrative, e le esternazioni di Bossi, sono tutti elementi che confermano quello che ogni sondaggista sa perfettamente: sta crollando la fiducia in Silvio Berlusconi.
La gente non gli crede più.
E qui veniamo alle telefonate tra Daniela Santanchè e Flavio Briatore.
Al di là delle «indignazioni» per la privacy violata, i due hanno ben poco da smentire riguardo ai contenuti di quelle telefonate.
Che rivelano l’imbarazzo per i comportamenti del premier; l’incredulità per la perseveranza nell’errore; lo sdegno per certe frequentazioni («Gentaglia», secondo la Santanchè); la sensazione di una fine imminente («Qui crolla tutto»).
E dunque: se perfino le persone che gli sono vicine e amiche pensano (sia pure in segreto) queste cose di Berlusconi, che cosa volete che possano pensare i milioni di italiani che non fanno parte della sua corte?
Michele Brambilla
(da “La Stampa“)
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Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
LA RICHIESTA DI TRASFERIMENTO DI DUE MINISTERI AL NORD E’ STATA GIUDICATA DALLA BASE COME UN BLUFF STERILE…BOSSI CHIEDEVA L’ASTENSIONISMO SUI REFERENDUM, MA I SUOI ELETTORI SONO ANDATI A VOTARE…E SULLA RIDUZIONE DELLE TASSE ORA RISCHIA DI ENTRARE IN ROTTA DI COLLISIONE CON IL FIDO TREMONTI
La tentazione del Senatur in queste ore è quella di presentarsi dimissionario sul prato di Pontida per chiedere ai leghisti se vogliono che sia ancora lui a guidare la rivolta contro Roma Ladrona.
Ci sta ancora pensando e deciderà solo all’ultimo minuto: quello che è certo è che Bossi è seriamente preoccupato.
Aveva invitato i suoi elettori a disertare le urne referendarie e quelli, per tutta risposta, ci sono invece andati: i dati del nord sono impietosi a tal riguardo.
Come è servito a poco annunciare il trasferimento di alcuni uffici dei dicasteri al nord. Anzi ha suscitato una reazione opposta, visto che i ministeri sono sempre stati considerati un simbolo della burocrazia centralista.
Ma pare che sull’apputamento di Pontida si stia muovendo altro: assieme alle bandiere di Alberto da Giussano vengono preannunciate dal tam tam della base anche capannelli di contestatori.
Una svolta senza precedenti.
Piccoli imprenditori, «vittime» delle ganasce fiscali, coltivatori in guerra sulle quote latte, insomma il ventre in subbuglio del loro elettorato.
Intenzionato ora a cantarle chiare ai vertici, per nulla soddisfatti del rigorismo fiscale imboccato dal governo del quale «l’Umberto» è colonna portante.
Per non dire dell’«invasione» di immigrati dal Nordafrica.
Mine da disinnescare subito.
Tutto ad ogni modo sembra ruotare attorno ai conti di una cassa che langue e sulla quale sia Berlusconi che Bossi ormai hanno puntato le loro mine.
Tremonti non è disposto ad aprirla.
Il Senatur coi suoi insiste su un punto: «Se si fa una manovra da 45 miliardi, allora occorre una compensazione adeguata, la manovra correttiva e la riforma fiscale andranno fatte insieme. Berlusconi non può venire a dirci “taglio di qua, taglio di là “». E stop alle sforbiciate su comuni e imprese già tartassati.
Perchè, ne è convinto Maroni, «non si potranno più chiedere sacrifici senza aiutare la crescita».
Ma il pallino, ancora una volta, è nelle mani di Tremonti.
E Bossi per la prima volta appare come un leader elettoralmente perdente: colui a cui tutta la classe dirigente leghista riconosceva “fiuto politico” non comune, non ne sta azzeccando più una.
E qualcuno nella Lega comincia a smarcarsi e a giocare in proprio.
Non a caso due alleati da sempre come Maroni e Tremonti non si lesinano critiche, mentre Zaia e molti altri dirigenti non hanno avuto remore a indicare più di un Sì ai quesiti referendari, in aperto contrasto con via Bellerio.
Messo sotto pressione, il Cerchio amgico sembra perdere colpi e Bossi stesso appare indeciso e frastornato.
Forse anche per questo non presenterà le sue dimissioni formali dal palco di Pontida: teme che non ci sarebbe un plebiscito per la sua conferma.
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Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
TREMONTI NON LE MANDA A DIRE A MARONI: “HO LE IDEE CHIARE SULLA RIFORMA, CI SONO COSE IN CUI DIMOSTRI PIU’ CORAGGIO SE LE DICI CHE SE LE TACI”… “VOLETE LA RIFORMA? TROVATEMI 80 MILIARDI”
“Alla fine ho avuto il coraggio di venire qua, dipende da voi, lo capirò dopo se ho fatto fatto bene o male”.
Lo ha affermato il ministro dell’Economia dal palco della festa nazionale della Cisl di Levico Terme. “Non sono tormentato e dirò tutto quello che penso – ha proseguito – ci sono cose in cui dimostri più coraggio se le dici rispetto a se le taci”.
“Ieri ho avuto l’imprudenza di usare il termine prudenza – ha aggiunto – era riferito al mondo, si vede che oggi non bisogna più usarlo”.
Il ministro ha poi detto che “la speculazione è causa di instabilità , o si dà una vera regolata alla finanza, cosa che non c’è stata, o si inventa un nuovo driver di crescita”.
“Ci manca un driver così – è la sua idea – manca al mondo Occidentale e se manca al mondo occidentale manca al mondo”.
E sulla riforma il ministro Tremonti ha detto di avere “le idee chiare”.
Prima del 18 giugno, ha spiegato, “rendiamo pubblici i lavori dei tavoli di studio”.
“Voglio fare la riforma fiscale, ho le idee assolutamente chiare, da almeno un anno”, ha affermato.
“Ne ho una ottima – ha continuato Tremonti – non è un problema di posizione personale, il problema è dove trovare i meccanismi finanziari. Potrei dire: datemi 80 mld ma è una cifra forse eccessiva”.
“Io ho le idee assolutamente chiare su cosa è giusto per il fisco – ha spiegato ancora il ministro – su quali aliquota applicare ma non si può andare al bar e dire ‘da bere per tutti’, e poi chi paga? Voi. Io sono tentato di dire, vi faccio la riforma e voi mi trovate 80 miliardi”.
Tremonti ha ripreso e risposto così all’affermazione del ministro dell’Interno Roberto Maroni che a margine della festa della Cisl a Levico Terme (Tn) aveva detto: “Per il ministro dell’Economia serve la prudenza, è giusto, ma in questi momenti credo che serva più il coraggio che la prudenza, il coraggio di mettere in campo una riforma significativa, il coraggio di sfidare la congiuntura, il coraggio di un gesto importante atteso”.
“Noi – ha proseguito il ministro – dobbiamo impegnarci a prendere l’impegno per portarla a compimento entro la fine della legislatura”.
Il ministro ha aggiunto che la riforma fiscale deve essere “contemporanea alla manovra ed essere una riforma fiscale vera. Non solo una cosa buttata lì per coprire la manovra. Se chiediamo sacrifici agli italiani dobbiamo far capire loro che servono per evitare la bancarotta, ma dare anche una prospettiva. E’ un impegno del programma di governo”.
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Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
PARLA JOHN PRIDEAUX, AUTORE DEL SERVIZIO CRITICO SU BERLUSCONI….E STRANAMENTE LE COPIE DEL SETTIMANALE SONO STATE BLOCCATE PER ORE A FIUMICINO
Laurea a Cambridge, ex-corrispondente da India e Brasile, ora responsabile delle pagine internet dell’Economist, il 32enne John Prideaux è l’autore del rapporto speciale sull’Italia del settimanale britannico che ha fatto scalpore per i pesanti giudizi su Berlusconi, «la sua era è stata un disastro» e per il titolo di copertina, «L’uomo che ha fottuto un intero paese».
Ma lui ribadisce l’obiettività sua e del suo giornale, la cui distribuzione ieri a Roma è stata bloccata — sarà una coincidenza? — da un’ispezione dei container all’aeroporto di Fiumicino, secondo quanto riporta Wanted in Rome, giornale della comunità anglosassone nella capitale italiana.
Perchè un rapporto sull’Italia proprio adesso?
Qualcuno nel governo Berlusconi pensa a un complotto tra media italiani d’opposizione e l’Economist, per dare un’altra botta al centro-destra all’indomani della sconfitta nelle amministrative.
Dal 2005 non avevamo dedicato all’Italia uno dei nostri rapporti dedicati a un singolo paese. Ne facciamo in continuazione, su tutti i più importanti paesi del mondo. Il 150esimo anniversario dell’unificazione italiana era una buona occasione per un punto sul vostro paese. La decisione è stata presa circa un anno fa, sicchè il fatto che sia uscito dopo la sconfitta elettorale di Berlusconi è una coincidenza.
Fonti del governo italiano vi accusano di superficialità . Quanto tempo e risorse avete impegnato in questa inchiesta?
Ho trascorso un mese in Italia a fare ricerche e poi a scriverla, con l’aiuto del nostro staff di ricercatori.
Come risponde all’accusa più grave che vi lanciano Berlusconi e i suoi sostenitori lanciano, cioè di pregiudizio contro di lui e contro l’Italia?
Ogni volta che critichiamo un governo o un politico da qualche parte nel mondo ci accusano di avere un pregiudizio negativo. La verità è che non faremmo un buon servizio ai nostri lettori, o all’Italia, se facessimo finta che in Italia va tutto bene. Lasciamo da parte tutta la questione del bunga-bunga e dei processi: la gestione economica di Berlusconi è stata un disastro. In base al reddito pro-capite, l’economia italiana è più piccola nel 2010 che nel 2000. Solo due nazioni al mondo hanno fatto peggio nell’ultimo decennio: Haiti e Zimbabwe. Un dato di fatto che non si può nascondere.
Qualche elemento del governo Berlusconi si è scandalizzato per il titolo che avete fatto: «L’uomo che ha fottuto un intero paese». Una parola troppo forte?
Ci piace fare copertine forti, che richiamano l’attenzione del lettore e talvolta lo fanno sorridere, sostenute da un rigoroso reportage fattuale. In questo caso abbiamo giocato con vari possibili doppi sensi per il titolo, ma il doppio significato di “screw” in inglese (fottere e rovinare, ndr.) era troppo divertente per rinunciarvi.
Il suo rapporto si conclude sostenendo che l’ipotesi più probabile è che in Italia tutto continui più o meno come ora, anche dopo Berlusconi, mentre l’editoriale che lo accompagna sembra più ottimista sulla possibilità di un rinnovamento che faccia ripartire il paese. Chi ha ragione?
Ci sono differenze di opinione al riguardo anche dentro all’Economist. Ma tutti concordiamo su quanto segue: l’Italia ha bisogno di una nuova politica per ricominciare a crescere; quando finirà l’era Berlusconi ci sarà un’occasione di cambiamento; basterebbe qualche piccola riforma per far migliorare radicalmente le cose».
(da “La Repubblica”)
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Giugno 13th, 2011 Riccardo Fucile
I DUE FRONTI: I RISCHI DEL CENTRODESTRA E LA SCOMMESSA DEL CENTROSINISTRA….ENTRAMBI SI SONO MOBILITATI, POLITICIZZANDO LA CONSULTAZIONE
Centro-destra: questa volta alle urne non andrà soltanto una parte del Paese
La prima differenza tra la campagna per le amministrative sfociata nella quadrupla sconfitta di Torino, Bologna, Milano e Napoli, e quella referendaria è che stavolta Berlusconi e Bossi hanno marciato uniti.
Il premier più dichiaratamente e il Senatur più svogliatamente si sono pronunciati per l’astensione, inalberando la parola d’ordine dei referendum inutili.
«Inutili», appunto, e non controproducenti o dannosi, perchè una vera campagna astensionista si fa innanzitutto mostrandosi indifferenti, distratti, presi da cose più importanti, e in questo i due maggiori soci del governo di centrodestra non avevano neppure da fingere, trovandosi impegolati ancora con le conseguenze del disastroso risultato nelle città , con i venti di burrasca della manovra economica, e con le turbolenze, ciascuno le sue, dei partiti di cui sono leader: mugugni pidiellini un po’ da tutte le parti, scissioni parlamentari invece che consolidamento della maggioranza, adunata a Pontida fissata per il 19 giugno, con il popolo leghista che s’annuncia rumoroso più che mai.
La corsa per le amministrative era stata caratterizzata dalla duplice rottura della Lega sulla guerra in Libia, che precedette il primo turno del voto, e sullo spostamento dei ministeri al Nord, che pregiudicò il secondo, e ancora si trascina.
Stavolta, invece, niente di tutto questo.
Verrebbe da risfoderare, anche per Berlusconi e Bossi, l’antico detto latino, «simul stabunt, simul cadent».
E in effetti, un’eventuale affermazione dell’astensione, con il conseguente fallimento dei referendum, consentirebbe al presidente del consiglio e al suo principale alleato, se non proprio di cantare vittoria, dato che non c’è mai da gioire per la diserzione dei seggi, almeno di dire che avevano avuto ragione sui promotori dei referendum e sulle consultazioni fallite. Inoltre la sconfitta dell’opposizione su un’iniziativa in cui aveva speso tutta se stessa verrebbe a confermare che la perdita delle grandi città nelle elezioni di maggio, pur dolorosa, è lungi dal rappresentare la crisi epocale del rapporto tra il Cavaliere e il suo popolo che il centrosinistra, ed anche qualche voce dissonante del centrodestra, avevano voluto proclamare a tutti i costi.
Per le stesse ragioni l’esito opposto – raggiungimento del quorum con una molto probabile vittoria dei «sì» all’abrogazione – sarebbe disastroso: molto più per Berlusconi, ma anche per Bossi, specie se a determinarlo fossero i cittadini nordisti, in aperto dissenso con le indicazioni astensioniste ricevute e non condivise.
L’idea che anche solo la metà più uno degli elettori richiesta per la validità dei referendum si presenti ai seggi e voti darebbe la sensazione che davvero Berlusconi ha perduto la maggioranza nel Paese, e quella raccogliticcia grazie alla quale governa in Parlamento non rappresenta più gli umori reali degli italiani.
Molto dipenderebbe, in questo caso, dalla percentuale definitiva dei votanti, dato che qualcuno, per offrire un argomento difensivo al Cavaliere, sarebbe disposto subito a sottrarre i «no», formalmente contrari al cartello dei promotori schierati per i «si», sostenendo che solo questi ultimi vanno considerati voti antiberlusconiani «doc».
Ma a parte il fatto che i «no» partono sfavoriti, sarebbe impossibile, specie con argomenti come questi, nascondere la ferita dell’eventuale secondo colpo inflitto al premier in poche settimane.
Ci si potrebbe chiedere, infine: al dunque, cosa conviene di più a Berlusconi?
Sfangarla grazie alla pigrizia estiva, ai primi bagni di mare e all’astensione della gente rimasta sotto l’ombrellone, o beccarsi un’altra legnata che lo convinca una volta e per tutte a darsi una mossa?
Difficile rispondere: a giudicare dalle reazioni di questi giorni, non si sa davvero cosa scegliere.
Berlusconi ha già detto che il governo non cadrà anche se l’esito dei referendum sarà contrario.
E in caso di definitiva cancellazione del legittimo impedimento (legge che tra l’altro scade a ottobre), ha già pronta un’accelerazione della prescrizione breve, per rallentare o bloccare i processi di Milano.
Diceva Andreotti che tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia.
Incredibilmente, questo sembra adesso diventato anche lo slogan dell’ultimo Berlusconi.
Centro-sinistra: senza il quorum Bersani tornerebbe sotto esame
Tutto più facile se si raggiunge il quorum e dunque se vincono i sì. Per il centrosinistra ovviamente.
Facile insistere sulle dimissioni di Berlusconi, malgrado negli ultimi giorni Bersani, Di Pietro e Vendola abbiano tentato di depoliticizzare il voto referendario.
Ma se vincono, si vedrà che si trattava di un semplice trucco per convincere più gente possibile, elettori di centrodestra in primis, ad andare a votare.
A risultato positivo eventualmente acquisito sarà un coro incessante contro il premier, che ha perso il suo famoso consenso popolare prima alle amministrative e poi appunto al referendum. Magari, anzi probabilmente, Berlusconi non si dimetterà e farà di tutto per continuare a galleggiare fino a che ci riuscirà ma con sempre maggiori difficoltà interne alla sua coalizione.
Nel frattempo, con quasi trenta milioni di sì in tasca, i leader del centrosinistra potranno condurre una campagna elettorale in discesa, per quanto lunga possa essere.
Il leit motiv della fine del berlusconismo salirà di volume e di intensità .
La vittoria del Sì dovrebbe – ma qui il condizionale è d’obbligo visto che si sta parlando di centrosinistra – anche aiutarli molto a cementare un’alleanza tra di loro che al momento non vede alternative nonostante i vari tentativi di allargarla al Terzo polo.
Sarebbe insomma evidente a quel punto, visto il voto amministrativo e referendario, che l’alleanza da presentare agli italiani alle prossime elezioni politiche dovrà essere quella tra Pd, Sel e Idv.
Anche e soprattutto perchè avrebbe ricevuto una spinta vigorosa da tutti coloro che non solo hanno votato ma hanno anche partecipato alle primarie, alla raccolta delle firme, insomma la tanto evocata scietà civile, una volta si chiamava «la base», che si è mobilitata per far vincere questo centrosinistra.
Sarebbe difficile per la nomenklatura, come ironizzava Bertold Brecht, «cambiare il popolo».
Panorama molto diverso, se non opposto, nel caso non si raggiungesse il quorum.
Intanto perchè la vittoria dell’astensione avrebbe l’effetto di rivitalizzare il governo e in particolare il suo premier, che potrebbe rivendicare non solo la vittoria ma anche il consenso popolare alla sua dichiarazione: «Io non andrò a votare».
Le dimissioni del governo, ossia l’obiettivo principale dell’opposizione, si allontanarebbe nel tempo, magari fino alla scadenza naturale della legislatura.
E poi perchè, anche se si tratta di due voti molto diversi, l’eventuale sconfitta al referendum offuscherebbe in parte la vittoria del centrosinistra, alle elezioni di due settimane prima.
Ma soprattutto il rischio per il centrosinistra è che si riaprano tutti i giochi nel Partito democratico.
Non mancherebbero coloro pronti ad accusare Bersani di essersi appiattito su Di Pietro e Vendola, di aver seguito per opportunismo l’ondata referendaria su temi che nello stesso Pd non sono mai stati contrastati con nettezza, dal nucleare alla privatizzazione dell’acqua. Verrebbero ricordate tutte le liberalizzazioni dello stesso Bersani, per non parlare delle fascinazioni nucleariste che in quel partito – anzi in entrambi i partiti che hanno partorito il Pd – sono sempre esistite. Infine, accusa delle accuse a sinistra, Bersani verrebbe imputato di subalternità nei confronti delle iniziative altrui.
Tornerebbe in auge la vocazione maggioritaria di Veltroni, riacquisterebbe fiato la strategia di D’Alema, l’alleanza con Casini come asse portante del futuro governo, forse verrebbe rimessa in discussione persino la leadership del segretario che grazie alle amministrative si era invece enormemente rafforzata.
E anche negli stessi due partiti minori, qualche contraccolpo non mancherebbe.
Non verrebbero certo messe in discussione le leadership di Vendola e di Pietro, tuttavia il loro potere contrattuale nei confronti del Pd uscirebbe parecchio indebolito.
Più complicato, per Vendola, insistere sulle primarie; più arduo, per Di Pietro, stringere nell’angolo dell’antiberlusconismo un Partito democratico che non ha mai amato l’eccessivo giustizialismo dell’ex Pm.
Tutti ovviamente direbbero che raggiungere il quorum era una missione impossibile, che il governo ha fatto di tutto, a cominciare dalla data fissata nel mezzo di giugno, perchè vincesse l’astensione.
Ma si tratterebbe di giustificazioni che, per quanto vere, difficilmente riuscirebbero a evitare gli effetti perversi della sconfitta.
Marcello Sorgi e Riccardo Barenghi
(da “La Stampa”)
argomento: Berlusconi, Bersani, elezioni, governo, PD, PdL, Politica | Commenta »