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“ERO SCHIAVO DELLE SLOT, HO SVUOTATO DUE LIBRETTI E VENDUTO L’ORO DI PAPA'”

Marzo 24th, 2016 Riccardo Fucile

L’EX BABY SCOMMETTITORE: “COSI’ PER SETTE ANNI SONO STATO MALATO DI AZZARDO”

«Ho cominciato a giocare d’azzardo a 14 anni. Facevamo la schedina nell’intervallo a scuola. All’inizio era un passatempo».
E alla fine?
«Alla fine avevo svuotato due libretti di risparmi, quello mio e quello della mamma».
Migliaia di euro bruciati in poker e slot machine.
«Mi sono fatto anche dei debiti. Quando i soldi sono finiti, ho venduto tutto l’oro che c’era in casa per continuare a puntare».
Nicola (nome di fantasia) fa il barista a Milano.
Oggi ha 21 anni. «Per sei — racconta — sono stato malato. Malato di gioco».
Che cosa ricorda delle prime volte?  
«Ero all’ultimo anno di scuole medie. Il sabato pomeriggio andavo con i compagni alla Snai a puntare su serie B e Premier League. Mi giocavo tutta la paghetta».
Il gioco d’azzardo è proibito ai minori. Come si aggirano i divieti?  
«Entri, punti e nessuno ti dice nulla. Nelle sale scommesse non c’è alcun controllo. Quella dove andavo io era dietro la scuola».
Le è mai stata rifiutata una giocata perchè era minorenne?  
«Mai».
Quando è passato alle slot?
«È successo per caso. Un giorno ho infilato 5 euro in una macchinetta e ne ho vinti 850. Quella è stata la mia rovina».
Perchè?  
«Non mi sono più fermato. Se un giorno vincevo, il seguente mi rigiocavo tutto. Ero ossessionato dal pensiero di recuperare i soldi persi».
Ma il banco vinceva sempre.  
«C’erano momenti in cui pensavo: “Sono un idiota”. Ma dopo un paio d’ore stavo di nuovo puntando. Una volta ho perso 900 euro in un giorno».
Poi ha toccato il fondo.
«È successo quando ho preso dalla cassaforte la fede di mio padre e l’ho venduta per 100 euro. Quei soldi mi sono durati meno di dieci minuti alla macchinetta».
La famiglia e gli amici erano a conoscenza del suo problema?  
«No, mi vergognavo. Andavo a puntare da solo. Ne parlai con un amico, anche lui scommettitore. Per aiutarmi mi regalò un salvadanaio, ma non l’ho mai riempito. Un giorno la mamma me lo tirò dietro perchè aveva scoperto tutto».
Da quanto tempo non scommette più?  
«Da quattro mesi. Neanche una schedina. È dura, ma resisto. La famiglia e lo psicologo mi aiutano. Finalmente mi sento pulito. Ma non posso ancora dire di essere guarito».
Che cosa direbbe al premier Matteo Renzi?  
«Di farsi un giro in una sala slot tra ragazzini malati e anziani che si giocano la pensione in un pomeriggio. Uno Stato serio dovrebbe vietare queste cose. Ormai ad ogni angolo di Milano c’è una sala slot. Io cambio strada per non passarci davanti».
Cosa vuole fare da grande?  
«Avrò un bar tutto mio. Sarà  senza slot».

Gabriele Martini
(da “La Stampa”)

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LA PAGHETTA FINISCE NELLE SLOT MACHINE: 200.000 ADOLESCENTI ITALIANI MALATI

Marzo 24th, 2016 Riccardo Fucile

LA LEGGE NON FUNZIONA, AUMENTANO I GIOCATORI D’AZZARDO TRA I 14 E I 19 ANNI… IL 7% PUNTA SOLDI QUATTRO O PIU’ VOLTE LA SETTIMANA

Otto e mezza di mattina, tabaccheria del centro di Torino.
Il ragazzino indossa un capellino con visiera e scarpe firmate. Avrà  14 anni, al massimo 15. Quando è il suo turno parla senza esitazioni: «Un miliardario».
Allunga cinque euro e si china sul bancone. Gratta. Non vince.
Nel paese dell’azzardo (87,8 miliardi di euro il giro d’affari italiano nel 2015) le nuove leve di giocatori sono sempre più giovani.
Tentano la fortuna al bar prima di sedersi tra i banchi di scuola; trascorrono pomeriggi nelle sale scommesse; dopo cena svuotano la carta di credito dei genitori nelle slot machine per telefonini e tablet.
La percentuale di studenti nella fascia di età  tra 15 e 19 anni che nell’ultimo anno ha giocato d’azzardo è in crescita: dal 39% del 2014 al 42% del 2015.
Lo dice in Consiglio nazionale delle ricerche, in un’indagine che «La Stampa» ha potuto visionare in anteprima.
L’esercito dei baby scommettitori – in prevalenza maschi – conta un milione e 200 mila adolescenti. Con un paradosso: in Italia il gioco d’azzardo è vietato per legge ai minorenni. Eppure.
I controlli sono quasi inesistenti e gli esercenti di ricevitorie e sale slot raramente chiedono la carta d’identità .
Sempre più spesso, proprio come accade tra gli adulti, anche gli adolescenti si ammalano di gioco. Sono oltre 200 mila i ragazzi under 19 che puntano soldi quattro o più volte a settimana.
Si tratta del 7% dei giovanissimi italiani. I giochi più diffusi sono gratta e vinci, scommesse sportive, Bingo e slot machine.
Secondo i dati raccolti dalla Casa del giovane di Pavia nelle scuole lombarde almeno uno studente su due ha giocato d’azzardo.
«L’acceso all’azzardo è sempre più facile. Le app dedicate si moltiplicano e le macchinette sono ovunque», spiega lo psicologo Simone Feder, animatore del movimento No Slot che da anni fa prevenzione nelle scuole.
«I ragazzini mi chiedono: “Se fa male, perchè è legale?”.
Il problema non è rappresentato soltanto dai soldi che buttano, ma dal tempo che sprecano». Tempo sottratto alla vita.

Gabriele Martini
(da “La Stampa”)

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BRUXELLES, QUEI 300 METRI TRA I DUE COVI DI SALAH: COSI’ L’INTELLIGENCE UE SI E’ PERSA A MOLENBEEK

Marzo 24th, 2016 Riccardo Fucile

DUE BLITZ IN 4 MESI ANDATI A VUOTO… L’ARRESTO HA ACCELERATO GLI ATTENTATI

Trecento metri, cinque minuti a piedi, lo spazio di una passeggiata che diventa il simbolo della sconfitta delle polizie europee.
È la distanza che separa i due indirizzi della caccia all’uomo che avrebbe potuto svelare in tempo la struttura della cellula cresciuta nel quartiere di Molenbeek, a Bruxelles, la base operativa dei jihadisti belgi e francesi.
Ponendo fine con quattro mesi di anticipo alla fuga di Salah Abdeslam, l’uomo chiave che unisce gli attentati del 13 novembre a Parigi e le bombe all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles le cui impronte sono state ritrovate dagli investigatori nel covo dei fratelli El Bakraoui nel quartiere di Forest.
Lì la polizia aveva tentato un blitz qualche giorno fa, facendosi sfuggire due occupanti e uccidendone un terzo, l’algerino Mohammed Belkaid.
A Forest — luogo dove i destini dei jihadisti per un momento si incrociano — c’era il covo affittato — secondo i media francesi — da uno dei due kamikaze che si sono fatti esplodere nella hall dell’aeroporto e nella metro di Bruxelles.
Non erano soli: proprio qui sarebbe passato lo stesso Salah, segnando un contatto strettissimo tra i due fratelli autori degli attentati di Bruxelles e l’unico sopravvissuto del commando in azione il 13 novembre a Parigi.
A rafforzare quel legame ci sono i file ritrovati nel computer di Ibrahim El Bakraoui: “Non voglio finire in una cella come Salah”, si legge in una sorta di testamento scritto poco prima dell’attentato.
E un audio, dove — secondo le prime indiscrezioni riportate da Tf1 — i due fratelli annunciano di voler agire “per vendicare l’arresto di Salah Abdeslam, il 18 marzo, e la morte di Mohammed Belkaid”.
In altre parole tutti componenti di una stessa cellula, che la cattura di Salah, ricercato numero uno per quattro mesi, avrebbe potuto smantellare in tempo. Il segno inequivocabile del legame operativo che attraversa i due attentati, quello di Parigi e di Bruxelles.
I giorni da primula nera del Califfato di Salah, con il fiato sul collo della polizia e dell’intelligence belga e francese, mostrano in realtà  il fallimento delle forze di sicurezza.
Era la notte tra il 15 e il 16 novembre dello scorso anno, appena due giorni dopo la strage del Bataclan. Verso l’ora di pranzo le forze speciali belghe fanno irruzione in un appartamento al numero 47 di rue Delaunoy.
Cercano Salah, il ragazzo di origine marocchina unico sopravvissuto del commando entrato in azione a Parigi. Sanno che è tornato a Bruxelles, in un appartamento vicinissimo al bar che fino a poco tempo prima gestiva insieme al fratello Brahim, chiuso dopo un controllo amministrativo.
Ma la primula nera di Daesh era già  fuggita perchè aveva capito di avere i poliziotti sulle sue tracce.
A rivelarlo, un mese dopo il blitz mancato, era stato il ministro della Giustizia belga Koen Geens nel corso di una trasmissione televisiva dell’emittente VTM. Salah Abdeslam, secondo il ministro, “si trovava verosimilmente in un appartamento di Molenbeek” due giorni dopo il massacro. In quelle ore concitate, infatti, si era diffusa in tutto il mondo la notizia dell’arresto del ricercato numero uno.
Una notizia poi smentita dalle autorità  belghe.
Secondo il quotidiano Het Laatste Nieuws la polizia belga aveva ricevuto l’informazione che Salah si trovava in quella via, ma non avrebbe potuto fare irruzione nell’appartamento “perchè la legge impedisce le perquisizioni tra le undici di sera e le cinque del mattino”.
Una spiegazione assurda, ma che fa capire le difficoltà  dell’intelligence fiamminga di fronte al network terroristico. “Salah? Abita a cento metri da qui”, raccontavano quasi con aria di sfida alcuni adolescenti a France TV mentre le forze speciali lasciavano l’appartamento. E, in fondo, non avevano tutti i torti.
Quattro mesi dopo Salah viene catturato a meno di 300 metri da questo indirizzo. Pochi passi, due isolati. Rue des Quatre-Vents, al numero 79, appena superata la moschea di Al Khalil.
Al piano terra il 18 marzo scorso — quattro giorni prima del duplice attentato di Bruxelles — alle 16.50 la polizia belga trova e arresta Salah. La fuga della primula nera finisce dove tutto era iniziato.
In mezzo c’è il quartiere di Molenbeck, che racchiude tutte le contraddizioni della capitale europea. Multietnico, ma non in grado di garantire le opportunità  e i diritti reali a tutti.
Disoccupazione al 30%, scolarità  bassa, con la metà  dei giovani che non finiscono gli studi. E un 20% della popolazione con un reddito al di sotto della soglia di povertà . In mezzo a quei 300 metri c’è poi una delle principali moschee, unico vero riferimento culturale dell’area.
E qui cadono anche i tanti luoghi comuni diffusi in questi giorni: Salah era distante anni luce dalla vita religiosa, raccontano gli abitanti della zona.
E oggi sul sito della moschea Al Khalil appariva un lungo comunicato, con la condanna dura dei due attentati del 22 marzo.
I trecento metri che hanno nascosto il ricercato numero uno hanno fornito altri rifugi. Sono altre, molto probabilmente, le reti di protezione racchiuse nella fuga di Salah. Un mondo che l’intelligence belga e europea a malapena riesce a sfiorare.

A. Palladino e A. Tornago
(da “il Fatto Quotidiano”)

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LA UE HA GIA’ STRUTTURE ANTI-TERRORISMO MA INEFFICIENTI E SENZA POTERI

Marzo 24th, 2016 Riccardo Fucile

DA EUROPOL A EUINTCEN: LOTTA AL CRIMINE ORGANIZZATO E PROCURA FEDERALE

“Se fosse esistita un’intelligence europea o almeno un migliore coordinamento europeo forse adesso non saremmo qui a piangere questi morti”.
Erano passati appena quattro giorni dall’attacco dei terroristi di Daesh a Parigi quando l’italiano Gianni Pittella, presidente del gruppo europeo socialista e democratico, lanciava la proposta di creazione di un servizio di sicurezza dell’Unione.
Tema che ieri l’Italia riprendeva con forza, ribadito da molti esponenti del mondo politico, dal premier Matteo Renzi al suo predecessore Enrico Letta.
Sono passati quattro mesi, l’Europa conta altri morti e di quel progetto non c’è neanche l’ombra. Annunci, bei propositi, promesse di una svolta che probabilmente in pochi vogliono.
Il campo va sgomberato da un equivoco.
Quando si parla di “Fbi europea” — come in molti esponenti dem ripetevano ieri dopo il duplice attentato di Bruxelles — si indica una struttura che, almeno sulla carta, esiste già . Si chiama Europol, ha sede in Olanda nella città  di La Hague ed ha tra i suoi scopi statutari la lotta al crimine organizzato e al terrorismo.
Il problema vero è la sua debolezza. Pur avendo in mano strumenti estremamente potenti — database sofisticati e, ad esempio, la futura gestione del numero identificativo dei passeggeri dei voli, il Pnr — quasi sempre ha una funzione di puro coordinamento richiesto su base volontaria dalla polizia nazionali.
Europol è lo strumento di polizia giudiziaria di un’altra struttura europea, Eurojust, una sorta di procura federale che coordina i magistrati con indagini su crimini che coinvolgono più Paesi europei.
E anche questa struttura sul tema del terrorismo negli ultimi anni non è certo brillata per un particolare protagonismo.
Se in passato — quando a dirigerla era Giancarlo Caselli — ha avuto un ruolo importante nel coordinamento di inchieste sul terrorismo, oggi mostra sempre di più il lato debole: non può esercitare indagini di iniziativa, limitandosi a coordinare i fascicoli delle procure nazionali, come ha ricordato a IlFattoQuotidiano.it lo stesso Caselli.
L’unica struttura esistente in Europa con potere d’iniziativa nelle indagini è l’Olaf, l’ufficio antifrode diretto dall’italiano Giovanni Kessler.
Le competenze, però, sono limitate alle truffe sui fondi europei e non entra nelle eventuali indagini penali che spettano sempre ai singoli stati.
La vera questione va letta tra le righe della dichiarazione di ieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Occorre affrontare questa sfida decisiva con una comune strategia, che consideri la questione in tutti i suoi aspetti: di sicurezza, militare, culturale, di cooperazione allo sviluppo”.
In altre parole non è ipotizzabile un servizio di intelligence e di sicurezza nazionale se l’Europa non è in grado di esprimere una visione geopolitica unitaria.
Chi è il nemico? Non sempre la risposta è omogenea. La politica estera e militare dell’Unione è una chimera, una sintesi al minimo comun denominatore, soprattutto nel contesto attuale, con uno scenario geopolitico frammentato e complesso.
Non sono chiari i rapporti con la Russia, ancor meno le relazioni con i Paesi arabi finanziatori di Daesh. Prevalgono sempre e comunque i singoli rapporti bilaterali, soprattutto in tema economico.
Parlare di fallimento dell’intelligence europea vuol dire puntare il dito sull’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, ovvero sull’italiana Federica Mogherini.
L’unica struttura di sicurezza esistente dipende — che ha la sigla di EuIntCen — direttamente da lei. Non ha un budget proprio e svolge sostanzialmente un lavoro di raccolta di informazioni classificate per realizzare i report destinati al “ministro degli esteri europeo”.
Da quando la struttura è stata creata — nel 2002, all’epoca di Javier Solana — ha ricevuto molto spesso dure critiche per la scarsa qualità  dei report.
Secondo il centro studi svizzero specializzato nel tema della sicurezza Cross-border Research Association, molti Stati membri si sono lamentati del fatto di ricevere lo stesso livello d’informazione e analisi presente nelle riviste come il Time, l’Economist o Newsweek, ma in ritardo.
Nel 2011, con il passaggio dell’agenzia sotto le dipendenze dell’Alto rappresentante, l’intenzione era quella di rafforzare la struttura.
Un buon proposito che si è scontrato ieri con l’attacco nel cuore dell’Europa.

Andrea Palladino
(da “il Fatto Quotidiano”)

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