Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
PD 31,4% (-0,2%) M5S 27,9% (+ 0,7%), LEGA 13,3% (-0,5%) FORZA ITALIA 12,8% (+ 0,1%), FDI 4,4% (-0,1%), SINISTRA ITALIANA 4,3% (-0.1%) NCD 3% (+0,2%)
Dopo una pausa di 15 giorni, tornano le intenzioni di voto di Tg La7: i sondaggi elettorali a cura di EMG.
Chi sale di più è il M5S che arriva al 27,9% (+0,7%) mentre cala il PD AL 31,4% (-0,2).
A destra la rottura tra Forza Italia e Lega – Fdi premia Berlusconi che sale al 12,8% (+0,1%).
Crolla ancora pesantemente la Lega al 13,3% (-0,5%) e cala anche Fdi al 4,4% (-0,1%).
Segno evidente che gli elettori non hanno gradito il tradimento romano e politica sempre più estremista del duo Salvini-Meloni.
Tra l’altro a breve Salvini corre pure il rischio di venire sorpassato da Forza Italia che insegue ad appena uno 0,5% di differenza.
Al centro recupera lo 0,2% Ncd, attestandosi al 3%, mentre non convince Sinistra Italiana al 4,3%, in calo dello 0,1%.
In caso di ballottaggio il M5S batterebbe sia il Pd (51,9% a 48,1%) che il centrodestra unito (53,7% a 46,3%), mentre il Pd avrebbe la meglio sul centrodestra unito 52,3% a 47,7%.
A dimostrazione che questo centrodestra a trazione xenofoba potrebbe vincere solo la coppa del nonno.
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
ISOLATO TOTI, ORMAI AL SERVIZIO DI SALVINI PUR DI MANTENERE LA POLTRONA IN LIGURIA COI SUOI COMPAGNI DI MERENDA PADAGNI A PROCESSO PER PECULATO
Lo cambierà , probabilmente, ma non lo vorrebbe cambiare.
Da Forza Italia, il pressing su Silvio Berlusconi è incessante: “Presidente, scelga Alfio Marchini o Giorgia Meloni. Guido Bertolaso non funziona”.
Lui, l’ex premier, cerca ancora di resistere sulla candidatura dell’ex capo della protezione civile a sindaco di Roma ma si dà un orizzonte limitato per quanto riguarda la parola definitiva: “I sondaggi ancora non lo premiano, ma diamogli altri dieci giorni di tempo o anche due settimane per crescere”.
I forzisti che lo chiamano ad Arcore chiedono uno sconto: “Presidente, la campagna elettorale è già nel vivo. Decidiamo in una settimana”.
Berlusconi aspetta i report che dovrebbero arrivare sulla sua scrivania tra un paio di giorni e prende tempo.
I due personaggi molto attivi in questa partita sono Giovanni Toti e Antonio Tajani. Il primo è schierato con Meloni, il secondo propende per Alfio Marchini. Anche gli ex di Alleanza nazionale sono orientati verso Marchini, che viene da una famiglia comunista, ma pur di non appoggiare Meloni la quale appartiene al loro album di famiglia e che secondo loro ha fatto una giravolta, sarebbero disposti a qualsiasi candidato.
Tutti sono uniti su un punto: Berlusconi deve scegliere.
Per il resto, Bertolaso chiede a Marchini di fare un passo indietro e di lavorare con lui.
E Marchini, che non ci pensa proprio a rinunciare alla sua opzione civica in favore di qualsiasi altro candidato, sta alla finestra ad aspettare che il groviglio del centrodestra si risolva in suo favore.
E intanto continua la propria campagna elettorale. Marchini e Bertolaso si annusano.
Il candidato civico, ufficialmente, non apre le porte al candidato azzurro e non apre neanche alla possibilità di un ticket. Il suo slogan rimane: “Lontani dai partiti”.
Nessuno dei due alza i toni contro l’altro. Bertolaso dice che Marchini, insieme a lui, è l’unico a parlare dei problemi della città , per questo “possono esserci sinergie”. L’entourage di Marchini a sua volta, così riporta il Corriere della Sera, parla di Bertolaso come “un fuoriclasse assoluto. Uno così potrebbe fare qualcosa per la città “.
L’ipotesi di un ticket però viene smentita da entrambe le parte, almeno per ora, così come il passo indietro da parte di uno dei due ma, allo scadere del tempo che Berlusconi si è dato, si vedrà .
Da Arcore però Berlusconi manda un consiglio a Bertolaso, che è quello di andare avanti per la sua strada, ma di fare una vera e propria full immersion tra la gente in queste due settimane.
“Solo così possiamo capire quanta presa avrà sui cittadini”, avrebbe detto Berlusconi, rinviando a un secondo momento il giudizio sulla candidatura.
Solo dopo il ‘test popolare’, raccontano, quindi a metà aprile, dovrebbe essere commissionato un ultimo sondaggio sul ‘gradimento’ dell’ex capo della Protezione civile e sulla sua competitività rispetto ai ‘favoriti’ Giachetti-Raggi.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
CHIESTA L’AUTORIZZAZIONE AL MINISTRO ORLANDO… RISCHIA UNA MULTA RIDICOLA, DA 1000 A 5000 EURO
Matteo Salvini rischia di essere processato per vilipendio dell’ordine giudiziario.
La procura di Torino ha chiesto infatti al ministro della Giustizia, Andrea Orlando, l’autorizzazione a procedere contro il segretario della Lega per aver definito, il 14 febbraio scorso, “una schifezza” la magistratura italiana.
Ad avanzare la richiesta è stato il procuratore capo Armando Spataro che dopo le affermazioni di Salvini al congresso del Carroccio piemontese a Collegno, aveva disposto l’avvio degli accertamenti per la sussistenza del reato.
Ora che gli accertamenti sono conclusi a Spataro non resta che il via libera di Orlando per procedere: secondo il codice penale infatti, visto la tipologia di reato, al procuratore della Repubblica di Torino serve l’autorizzazione del ministero per procedere.
Secondo l’articolo 290 c.p Salvini rischia una multa che va dai 1.000 ai 5.000 euro.
(da agenzie)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
L’IMMAGINE DIVENTA PROVA DELLE BUGIE E DELLA CRUDELTA’ DEL REGIME: GRAZIE ALLA RETE AVREBBE UNA FORZA DEVASTANTE
Non è la prima volta che una madre piegata sul corpo del figlio si erge contro la morte, il dolore, l’ingiustizia.
Dalle Madri di Plaza de Mayo in Argentina, alle madri degli studenti massacrati dal cartello della droga in Messico, fino a, più vicino a noi, alle madri di Ilaria Alpi e di Stefano Cucchi.
Ma è forse la prima volta che il legame tra una madre e un figlio si inserisce nel luogo dove può cambiare se non la storia almeno la relazione fra due paesi.
A occhi asciutti durante una conferenza stampa affollatissima la madre di Giulio Regeni ha agitato la sua leva contro un intero sistema, un governo, un Generale che guida una grande potenza , cui si inchinano, per bisogno e interesse, tutti i paesi occidentali.
Una leva piccola, come tutte le leve: la foto del volto del figlio. Quel volto descritto da lei, sempre a occhi asciutti, “gli avevano fatto così tanto che era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Io e il padre lo abbiamo riconosciuto solo dalla punta del naso”. Quella immagine che è la prova delle bugie, della crudeltà , la madre Regeni sa quanta forza contiene, “non obbligatemi a pubblicarla”, dice appunto al Generale.
Con questo gesto, la famiglia Regeni ha fatto qualcosa di nuovo.
Invece di limitarsi alla usuale speranza, al solito appello alla verità , ha sfidato le autorità di un altro paese: “Su mio figlio si è scaricato tanto male, tutto il male del mondo”, ha detto, a sottolineare la grandezza della partita.
“Non possiamo dire, come ha detto il governo egiziano, che è un caso isolato… Non questo. Giulio, cittadino italiano, è un cittadino del mondo. Quello che è successo a Giulio non è un caso isolato rispetto ad altri egiziani, e non solo. Per questo continuerò a dire per sempre verità per Giulio”, ha detto la madre.
Un discorso di attacco, senza una piega di autocommiserazione, alla luce di una analisi spietata: “E’ dal nazismo che non viviamo una morte sotto tortura”.
A parte l’emozione (nostra) e la forza (di questa famiglia), questa sfida fra una madre e un generale è anche un suggerimento a tutti noi per capire i tempi in cui viviamo, le condizioni nuove che rendono possibile l’impatto di una sola vittima, di una sola madre su un universo così più grande.
La storia della morte di Giulio non sarebbe oggi quel simbolo che è in un mondo senza la Rete, cioè senza la comunicazione vasta, immediata, semplice , emozionata, della comunicazione globale.
Figlio di un mondo senza confini, come l’ha descritto la madre, Regeni è andato a lavorare in Egitto, un paese dove proprio la Rete ha avviato il maggiore e più turbolento processo di rivolta contro le dittature arabe, e sulla Rete, simbolica nemesi, è poi corsa la resistenza ad ogni silenzio sul suo omicidio, la ricerca di testimonianze, la verifica fatto su fatto di ogni versione ufficiale.
È il “magico” del web questo unificare e riscattare ciascuno dalla massa amorfa, per dare a ciascuno dignità di cittadino, di persona, di voce udibile da tutti, e, nel nostro caso, voce di una madre portata su una platea globale.
Tanti, tantissimi uomini e donne, che nella Primavera di Piazza Tahir hanno creduto hanno trovato la loro voce sulla Rete e hanno perso quella voce oggi nelle galere o nei cimiteri egiziani, persi in una lotta religiosa e politica che non hanno mai voluto accettare come tale.
L’Egitto oggi è dove è, non solo perchè al Sisi ha riportato in voga (sono sempre stati usati) i metodi forti dei regimi militari di quel paese, ma anche perchè dall’altra parte vive la intolleranza e la violenza dell’islamismo del movimento dei Fratelli Musulmani che nei brevi mesi del loro governo hanno ampiamente dimostrato la loro volontà di schiacciare ogni voglia e ogni desiderio di un nuovo Egitto.
Per questa umanità presa in mezzo, schiacciata in uno scontro immenso fra forze nemiche, quale quello che viviamo, la Rete, pur con tutti i suoi lati oscuri e manipolatori, rimane l’unico filo da cui dipanare un pò di verità e di giustizia per chi non ne ha.
L’unico strumento che in questi turbolentissimi ultimi anni è stato l’onda su cui ha navigato fin a noi il terrorismo, ma è anche il filo su cui sono state comunicati al resto del mondo la resistenza a Raqqa, il dramma della fuga di milioni di migranti, la mobilitazione delle città europee contro le esplosioni.
Nel piccolissimo, è anche oggi l’onda su cui si muove la ribellione di una singola madre alla morte di un figlio .
Nelle mani della signora Regeni c’è quella leva, una foto, che sulla Rete può valere quanto uno scontro fra Stati.
E che fa oggi della famiglia Regeni, in attesa di “un segnale forte, ma molto forte da parte del nostro governo”, lo strumento più efficace che ha il nostro paese per riflettere sulle, e cambiare, le sue relazioni con un (ex?) grande alleato.
Lucia Annunziata
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
“VOTERO’ SI’ AL REFERENDUM SUL SENATO”
L’ atelier di Renzo Piano è a un passo dal Beaubourg, l’opera che quarant’anni fa lo impose al mondo.
Cento ragazzi da 18 Paesi diversi lavorano a un ospedale in Uganda, alla biblioteca di Atene, al museo archeologico di Beirut, al campus della Columbia a Harlem, a un centro culturale alla periferia di Mumbai.
Qui si pensano le nuove città contro la barbarie.
È vuoto il tavolo di Raphael, tedesco ucciso al Petit Cambodge il 13 novembre scorso: era con altri otto colleghi, Emilie si è presa una pallottola nella spalla; nessuno è scappato, tutti si sono aiutati l’un l’altro.
Un altro giovane di studio, americano, era al Bataclan, è sopravvissuto.
Renzo Piano sulla scrivania tiene le bozze del libro in uscita per il Corriere. In tre ore di conversazione, Piano ricostruisce il suo percorso e racconta i suoi progetti per questo tempo terribile e grandioso che ci è dato in sorte.
Il giovane Renzo
«A scuola ero un asino. Non che mi passasse in testa chissà che cosa; un asino autentico. Non sapevo studiare. In compenso suonavo la tromba. Gino Paoli è un mio amico d’infanzia: io ero lupetto, lui nei giovani esploratori. Siamo “figli di un temporale”, come diceva un altro di noi, Fabrizio De Andrè: venuti fuori dalla guerra, cresciuti con la convinzione che ogni giorno ci allontanava da quella tragedia, che tutto – le strade, il cibo, il sorriso della mamma – sarebbe migliorato con il tempo. Per questo, a 78 anni, credo ancora all’idea folle per cui il tempo che passa migliora le cose: lasci perdere quel che non va, prendi quel che va. C’è una cosa che non condivido con il mio amico Beppe Grillo: la paura del futuro, che è l’unico posto dove possiamo andare».
Il Beaubourg
«Il modo più feroce, più esplicito di ribellarsi all’idea del centro culturale come mausoleo intimidente era fare una fabbrica. Una macchina come quelle pensate da Jules Verne. Ma anche un villaggio medievale in verticale, con le piazze sovrapposte. Una macchina urbana, aperta, trasparente, flessibile: tutto quello che ingombra l’abbiamo portato fuori, comprese le scale mobili, che svelano Parigi poco a poco. Il Beaubourg ogni sabato ha 30 mila abitanti, in 40 anni l’hanno visitato 250 milioni di persone. Al concorso partecipammo in 681. Il Sessantotto era finito da poco, Rogers e io vivevamo a Londra. Non pensammo di vincere per un solo attimo».
L’importanza della musica
A fargli notare che le opere successive sono molto diverse dal Beaubourg, Piano risponde di badare alla coerenza, non allo stile: «L’importante è svicolare dall’accademia, ribellarsi alle tendenze, andare alla fonte delle cose. Respirare la realtà , farla cantare. Il cinema neorealista è stato molto importante per me. Come lo è stata la musica. Con il tempo da trombettista sono diventato liutaio: l’auditorium di Roma è una cassa armonica. A Parigi collaborai con Pierre Boulez, che mi fece incontrare John Cage, Karlheinz Stockhausen e due artisti che sarebbero diventati amici della vita: Luciano Berio e Luigi Nono. Come gli architetti, i musicisti lavorano sulla materia, che per loro è il suono; per Boulez, il rumore. La vibrazione della corda per gli archi, l’aria per i fiati. Una solida base d’ordine cui ti diverti a disobbedire. Come in architettura, appunto».
I grattacieli
«Non ho mai fatto grattacieli arroganti, ma macchine urbane». Lo Shard di Londra è la torre più alta d’Europa. «Non mi interessa. Presto sarà superata. Ma è una torre che non finisce, le schegge di vetro si perdono nel cielo, esprimono uno slancio, un’aspirazione, al centro di un quartiere risorto. Nel cantiere avevamo operai di 70 nazionalità diverse. A Osaka avevamo 5 mila lavoratori: tutti giapponesi. Un cantiere è un’avventura dello spirito e anche fisica: in Nuova Caledonia abbiamo avuto quattro uragani con vento a 220 chilometri; in Giappone in 36 mesi contammo 35 terremoti. Sul cantiere del Beaubourg venivano Umberto Eco, Michelangelo Antonioni, Marco Ferreri, Roberto Rossellini, Italo Calvino, che dava suggerimenti su come pulire le pareti di vetro. Venne il signor Honda e disse: “Mi piace, sembra una motocicletta”. Sul cantiere di Postdamer Platz a Berlino ho conosciuto Mario Vargas Llosa. Anche lì c’erano 5 mila operai, tra cui cento palombari ucraini, per piantare le fondamenta sott’acqua. Trovarono sei bombe della seconda guerra mondiale, inesplose: “Sono russe, quindi non esplodono” dissero con un sorriso. Ora qui nella banlieue di Parigi stiamo costruendo il Palazzo di Giustizia: trasparente, come la verità ; deve ispirare fiducia, non mettere soggezione». Come trova i nuovi grattacieli di Milano? «Sono un segno di vitalità , che è sempre una buona cosa. Ma la mia Milano è quella delle periferie. Quando studiavo al Politecnico abitavo a Lambrate, andavo a sentire il jazz in un locale in fondo ai Navigli, che si chiamava non a caso Capolinea».
La scommessa delle periferie
«Le periferie sono sempre associate ad aggettivi negativi. Sono considerate desolanti, alienanti, degradate, brutte. Proviamo invece a guardarle con occhio positivo, a cercare quel che c’è di sano. Le periferie sono ricchissime di una bellezza umana e spesso anche di una bellezza fisica, che è nascosta, che emerge qua e là . Come scrive Italo Calvino nella postfazione delle Città invisibili, anche le più drammatiche e le più infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. Questo approccio alla periferia è come andare a caccia di perle, di scintille. Viene da lontano, dal mio essere genovese, uno che non butta via niente: Braudel l’aveva capito, Genova stretta tra il mare e la montagna è stata educata a non sprecare nulla. Così, quando Napolitano mi fece senatore a vita, mi è venuto naturale pensare che il mio impegno politico sarebbe stato far lavorare giovani architetti nelle periferie italiane. Quest’estate porteremo i progetti alla Biennale dell’architettura»
Il Giambellino
I progetti sono a Torino, Catania, Roma e Milano. Si tratta di «dare forza e ossigeno a mille cose che già c’erano». Basta casette a perdita d’occhio: «L’idea della città che cresce diluendosi si è rivelata insostenibile. Come porti i bambini a scuola, come organizzi il trasporto pubblico, come medichi la solitudine? Le città sono luoghi di incontro, di scambio, in cui si sta insieme, si costruisce la tolleranza, l’idea che le diversità non sono per forza un problema, sono una ricchezza. La città ora cresce per implosione, riempiendo i buchi neri. Al Giambellino vivono 6 mila persone, 18 etnie. C’è la signora che d’estate invita la gente a scendere in cortile con la sedia e fa il cinema. L’elettricista egiziano che aggiusta gratis i citofoni rotti dai vandali. Abbiamo abbattuto il muro tra il parco e il mercato. Lavoriamo con la gente del quartiere per costruire una biblioteca. Servono tanti cantieri piccoli, microinvestimenti, microimprese: lavoro per le nuove generazioni. Dobbiamo fertilizzare le periferie con edifici civici. Non solo musei; librerie, ospedali, palazzi pubblici, stazioni della metropolitana, posti dove la gente si ritrova. Allo scorso esame di maturità uno dei temi era il rammendo delle periferie: sono stati scritti 60 mila compiti; tutti ragazzi nati in periferia».
Il ruolo della politica
«Sono lungi dal disprezzare la politica. In Senato ho provato ad andarci, ci andrò ancora, ma sono più utile nel mio ufficio a Palazzo Giustiniani. Comunque, ogni volta che metto piede nell’Aula sono davvero onorato, fiero. È una grande istituzione. Al referendum di ottobre sulla riforma costituzionale voterò sì. Se il Senato diventa più piccolo, meno ridondante, se costa meno, è cosa buona. Non vorrei perdesse il suo ruolo di guida morale del Paese: l’abbiamo inventato noi italiani, l’abbiamo esportato ovunque. Deve rimanere il luogo in cui si discutono i grandi temi della società ».
«L’architetto è un mestiere politico. La ricerca estetizzante della bellezza, quando è fine a se stessa, è inutile. Ma Sengor, con cui lavorai in Senegal, mi ha insegnato che il bello, quando è autentico, non è mai disgiunto dal buono. È l’idea dei greci: kalos kagathos , bello e buono. È un’idea che ho ritrovato in Libano. È il principio della civiltà mediterranea, oggi messa così a dura prova». Farebbe il Ponte sullo Stretto? «Un vero costruttore è sempre favorevole a gettare ponti, è sempre contrario ad alzare muri». E qual è il costruttore della storia che ammira di più? «Brunelleschi. Il primo a curvare la cupola, dopo secoli che l’uomo non ne era più capace; e dimostra che è possibile costruendo un modellino di legno. Da giovane faceva l’orologiaio: un artigiano diventato artista. Il percorso contrario è molto più difficile. Fondere arte e tecnica: qui è la grandezza».
Aldo Cazzullo
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
“SU REGENI SIAMO STATI TROPPO TIMIDI, DOBBIAMO CONTROBATTERE ALLE SGANGHERATE VERSIONI EGIZIANI”
Chiamatela idealista, ma per la radicale Emma Bonino la soluzione resta gli Stati Uniti d’Europa. Sul terrorismo, sulla Libia, sui migranti, perfino sui rapporti tra Italia ed Egitto ai ferri corti per il caso Regeni trasformatosi in un caso internazionale: «Senza politica estera comune non c’è intelligence», dice l’ex ministro degli esteri.
E senza un’intelligence comune dell’Unione contrastare i nuovi jihadisti è pura teoria.
I terroristi di Bruxelles sono passati indisturbati dall’Italia: cosa facevano i nostri servizi?
«Posto che perfino la sicurezza americana fu beffata nel 2001, se i terroristi di Bruxelles non erano segnalati come potevamo intercettarli? L’Europa fa grandi sforzi di coordinamento ma l’intelligence non è questione di coordinare 28 paesi bensì di politica estera, di sicurezza e di difesa comune: se non c’è, non c’è intelligence comune. Nell’integrazione dell’UE la sicurezza è rimasta competenza nazionale: per rimediare bisognerebbe rivedere i trattati e invece i paesi pensano a rivedere le proprie Costituzioni illudendosi che chiudere le frontiere risolva il problema».
Cosa risolve invece?
«Tenere la barra dritta sugli Stati Uniti d’Europa e da lì costruire una politica estera comune e un’intelligence comune tipo Fbi europea. L’Italia, al di là delle polemiche, è il paese che si sta spendendo di più per una maggiore integrazione. Dico le polemiche perchè mi dispiace sentire i nostri leader che parlano dell’Europa come un’entità ostile: siamo tra i fondatori dell’UE e se non funziona non è per via dei burocrati di Bruxelles ma perchè così l’hanno voluta i paesi membri, Italia compresa».
Ha l’impressione che l’Italia mantenga un basso profilo sui diversi dossier internazionali?
«Non credo nell’illusione dell’influenza nazionale, non ci aiuta a governare i fenomeni. L’Italia a volte ha preso delle iniziative, come Mare Nostrum. Ma anche lì la mia proposta di farne un intervento europeo incrociò il fuoco di sbarramento di Bruxelles. Davanti ai rifugiati in Grecia penso che abbiamo appaltato i confini europei alla Turchia e mi dico che questa Europa – 500 milioni di abitanti, il continente più ricco del mondo – tra il 2008 e il 2014, durante la peggiore crisi economica, ha concesso 2,5 milioni di visti l’anno mostrandosi così consapevole del proprio invecchiamento e del bisogno di manodopera. E non sappiamo gestire i rifugiati?»
L’Italia è esposta al terrorismo come Francia e Belgio?
«Oltre all’Europa c’è il Pakistan, che piange oggi 70 morti, il Mali, l’Iraq, la Costa d’Avorio. Il punto non è prevedere il prossimo paese target ma ammettere la difficoltà di capire l’agenda di questi terroristi. Detto ciò non so da dove vengano certe convinzioni e non credo affatto che l’Italia sia al riparo».
L’Italia si sta facendo prendere in giro dall’Egitto su Regeni?
«In questi casi la tenuta e la durata sono la forza delle cose. Io impiegai 6 mesi per riportare in Italia la Shalabayeva. Credo che su Regeni l’Italia debba insistere e controbattere alle versioni sgangherate del Cairo. L’Egitto vorrebbe chiudere perchè la vicenda di un singolo sta facendo il giro del mondo».
Crede che dovremmo richiamare il nostro ambasciatore?
«No, la nostra presenza in Egitto in questa fase è fondamentale. L’asset dell’Italia è non mollare. L’Egitto è un partner importante per noi ma vale anche il contrario. Sono pragmatica: non è che si debba rompere con tutti i regimi autoritari ma serve misura, nè fare il baciamano a Gheddafi, nè coprire le statue davanti agli iraniani, nè affrettarsi a riconoscere Morsi, Sisi o chi per loro. La sorte di Regeni è un’incognita, magari c’è dietro la lotta tra i vari gruppi del mukabarat, il servizio segreto egiziano. Ma l’Italia deve tenere duro anche perchè oggi l’Egitto teme che il caso finisca per squarciare il velo sulla repressione in corso e su migliaia di cosiddetti Fratelli Musulmani in cella senza processo nè capo d’accusa».
Intervenire o no: come legge le incertezze italiane sulla Libia?
«Credo che l’accordo Kobler sia stato precipitoso e che non ci siano basi perchè quel governo entri a Tripoli. Ho l’impressione che finora abbia prevalso la pressione di Usa, Regno Unito e Francia per accelerare i tempi temendo il precipitare degli eventi, ma è un accordo con troppi esclusi e non può funzionare. Dovremmo anche capire cosa significa che a Tripoli ci sono gli islamisti: sono gli stessi di Tobruck, i primi di rito Fratelli Musulmani e gli altri di rito wahabita. L’Italia, come tutti, vuole installare a forza questo governo inviso a Tripoli come a Tobruck. Ma i nostri interessi non sono quelli francesi e l’Europa non ha una politica estera comune: quando sento parlare di operazioni militari mi chiedo contro chi? Per chi? Chi fa il controllo del territorio dopo? Non vedo nessuna strada militare per la Libia a meno di volerla rioccupare, e non mi pare sia in discussione. Bisogna considerare anche che oggi l’esodo dei migranti sembra un po’ ridotto per via dei controlli di Frontex ma i disperati continuano ad arrivare dal Sahel e la Libia resta un serbatoio di profughi e altro: se si chiude la rotta balcanica riesploderà ».
Francesca Paci
(da “La Stampa”)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
“NO A LEGGI SPECIALI, COOPERAZIONE GIUDIZIARIA INTERNAZIONALE”
Nella lotta al terrorismo c’è un’impostazione errata che oggi sembra cara all’Europa: volere privilegiare l’attività di intelligence, trascurando invece la questione della cooperazione giudiziaria».
Il procuratore della Repubblica di Torino Armando Spataro è uno dei pochissimi magistrati ad avere affrontato tutte le sfide criminali più pericolose: gli Anni di piombo, le mafie e quindi il terrorismo «cosiddetto islamico », secondo quella che reputa «l’unica definizione idonea a evitare ogni impropria, se non offensiva, generalizzazione».
Ha condotto in prima persona la più importante indagine in Europa sulla degenerazione della guerra globale scatenata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, facendo condannare gli agenti della Cia che rapirono Abu Omar e i loro complici italiani.
E anche per questo fa subito una premessa: «Credo fortemente alla funzione delle agenzie di informazione in ogni democrazia. Ma ho più volte affermato che va potenziata la sinergia tra le tutte le istituzioni e le forze in campo, non il mero rafforzamento delle attività di intelligence. Bisogna anche operare per rendere effettiva la cooperazione giudiziaria internazionale, di cui sono protagonisti la magistratura e le forze di polizia tradizionali».
Su questo punto l’Europa sembra all’anno zero.
«Le difficoltà dipendono dalla differenze di ordinamento. Molti paesi dell’Unione europea non accettano che siano i pubblici ministeri a dirigere le indagini della polizia giudiziaria, con la conseguente sottrazione delle inchieste alle scelte politiche. E allo stesso modo nella maggioranza degli stati non esiste il principio – per noi irrinunciabile – di assoluta indipendenza del pubblico ministero rispetto al potere esecutivo».
Quando la lotta al terrorismo viene affidata agli 007 c’è il rischio che venga a cadere ogni possibilità di controllo democratico?
«Se si opera principalmente attraverso i servizi di intelligence è chiaro che la guida non potrà che essere politica. Di qui le scelte prevalenti in favore dei servizi care ai governi europei, anche a scapito dell’efficienza operativa e della qualità dei risultati. Inoltre le regole secondo le quali operano i servizi non possono che essere, per definizione, segrete, dunque diverse tra loro ed incontrollabili, tali da alimentare spesso metodi d’azione a dir poco criticabili».
Ma i problemi sono solo di natura costituzionale?
«Non solo. Spesso si manifestano enormi resistenze nel mettere in comune, a fini investigativi, le notizie e i dati davvero utili. Le banche dati esistono ma non comunicano. Evidentemente molti si ritengono proprietari esclusivi delle notizie importanti. In questi anni ho riscontrato alcune difficoltà nella collaborazione con le autorità francesi e britanniche, mentre la cooperazione ha funzionato egregiamente nei rapporti tra Italia, Germania e Spagna. Non a caso sono paesi che hanno rispettivamente conosciuto il terrorismo interno delle Brigate Rosse, della Raf e dell’Eta, riuscendo a sviluppare anticorpi efficaci – dall’analisi delle strategie e del “pensiero” di quei gruppi, alla specializzazione investigativa ed allo scambio immediato delle notizie utili – che ancora oggi servono».
Lei ritiene che l’esperienza maturata negli Anni di piombo sia ancora utile?
«La sintesi del mio pensiero sta in quella famosa frase del presidente Pertini: “Abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi”. Un’affermazione che allude alla correttezza dell’azione istituzionale ed alla centralità dell’azione giudiziaria».
Molti sostengono che oggi la portata della minaccia sia tale da imporre leggi speciali, paragonando la situazione creata dagli attentati di Parigi e Bruxelles a una vera guerra, da combattere con ogni mezzo.
«La nostra democrazia non può tornare indietro di un solo passo e non possono esistere, come qualcuno teorizza, zone grigie nell’affrontare il terrorismo. Non si torna indietro neppure di un millimetro, per la semplice ragione che sui diritti non si tratta. È ovvio che ci troviamo di fronte a fenomeni nuovi, che comportano l’esistenza di scenari di guerra. Ma l’Italia ha saputo dire no a misure straordinarie come quelle introdotte dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Dal 2005 il nostro paese ha varato tre decreti per rispondere alla minaccia del terrorismo, tutti convertiti in legge con grandissima maggioranza parlamentare ».
Ci sono diversi esponenti politici, non solo di destra, che ritengono insufficienti le misure adottate in Italia e accusano la magistratura di eccessivo garantismo contro il terrorismo.
«Anche grazie a questi provvedimenti abbiamo conseguito eccellenti risultati nel contrasto del terrorismo internazionale, tanto che, comparando i dati dei processi celebrati in Europa, gli esiti in Italia sono tra i migliori, se consideriamo i numeri delle condanne definitive. Ciò è sicuramente frutto della grande professionalità della nostra polizia giudiziaria, ma non si deve escludere la ricaduta positiva di un sistema di leggi, che si è dimostrato efficace e rispettoso dei diritti delle persone indagate».
Un’altra delle richieste che vengono avanzate riguarda la raccolta di massa di dati sensibili, come quella sui viaggi aerei, e lo scambio nella Ue.
«A chi sostiene che sia legale e utile nella lotta al terrorismo raccogliere milioni di dati, così controllando e classificando mezza umanità , si deve rispondere ripetendo che la concentrazione di miriadi di dati indistintamente raccolti – è provato – non è mai servita a nulla. Questa raccolta, esattamente come renditions, torture e prigioni illegali, rischia solo di fornire ai terroristi storie ed immagini da usare a scopi di proselitismo: così è avvenuto con quella delle tute arancioni indossate dai prigionieri di Guantanamo, immagine sfruttata per la tragica scenografia dei crudeli “sgozzamenti” dell’Is».
Gianluca Di Feo
(da “La Repubblica”)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
DAL CAPITALISMO AL SADOMASOCHISMO
Per Marcel Fratzscher, un economista tedesco non allineato al pensiero unico, quando una minoranza di persone si arricchisce ai danni di tutte le altre, il prodotto interno lordo dell’intero Paese peggiora.
A prima vista sembra una banalità : se pochi ricchi rastrellano il rastrellabile e la maggioranza dei consumatori ha sempre meno soldi in tasca e tantissima paura di spenderli, chi può ancora permettersi di comprare frigoriferi, maglioni e telefonini, alimentando la fantomatica Crescita? Invece gli economisti tedeschi di sistema si sono scagliati contro il tapino, sostenendo che i suoi dati (peraltro desunti dall’Ocse, non da Disneyland) sono sbagliati e le sue conclusioni abborracciate.
Perchè è vero che anche in Germania i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, ed è verissimo che il risanamento dei conti pubblici lo hanno pagato il ceto medio immiserito e i giovani disoccupati o sottopagati.
Ma lungi dal mortificarla, l’aumento della disuguaglianza e dell’infelicità collettiva ha fatto bene alla signorina Crescita.
Infatti il reddito pro capite è in salita, seppure a scapito di tre tedeschi su quattro, che come nella storia dei polli di Trilussa si ritrovano abbondantemente sotto la media.
Mi guardo bene dall’entrare in queste dispute tra scienziati.
Ma se anche i rivali di Fratzscher avessero ragione, un sistema economico che cresce sulla pelle di tre quarti della popolazione e trova degli economisti disposti a menarne vanto senza proporre uno straccio di alternativa, sancisce il passaggio definitivo dal capitalismo al sadomasochismo.
Massimo Gramellini
(da “La Stampa”)
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Marzo 29th, 2016 Riccardo Fucile
PER ORA SONO 1.712 I GRANDI ELETTORI DELLA CLINTON E 1.004 QUELLI DI SANDERS
Bernie Sanders non molla la presa e incassa una serie di vittorie che galvanizzano il suo elettorato pronto a sostenerlo sino alla convention democratica di Filadelfia del prossimo luglio.
E nonostante il distacco che lo separa dalla front runner Hillary Clinton in termini di delegati, il senatore social-democratico punta a mettere a segno nuovi successi e annuncia battaglia dura anche alle primarie di New York.
È nell’estremo Ovest che Sanders mette a segno vittorie con largo margine: Stato di Washington, Alaska e Hawaii, dove nei caucus distacca la rivale Clinton.
Una delle giornate migliori per il senatore del Vermont convinto di poter replicare in Wisconsin, dove si vota il 5 aprile.
«Abbiamo un sentiero di vittoria – dice – nessuno può negare che la nostra campagna stia vivendo un momento favorevole». Poi si rivolge ai giovani, la base forte del suo consenso: «Stiamo vincendo grazie al vostro straordinario contributo, e continueremo a farlo per rendere migliore il futuro dell’America».
E secondo quanto riportato dai media americani per le prossime tappe elettorali Sanders ha messo a punto una strategia, ovvero andare all’attacco con un «tour» serratissimo e una tattica simile a quello applicato in Michigan, dove nelle scorse settimane il senatore liberal ha messo a segno un sorpasso inaspettato.
Puntando tutto sulla sfida con la rivale proprio nello Stato tra quelli a lei più favorevoli, New York, di cui è stata senatrice, e che vota per le primarie democratiche il prossimo 19 aprile.
E anzichè giocare in difesa Sanders passa all’attacco tornandone a criticare le iniziative elitarie. Come la cena del 15 aprile con Hillary Clinton, George e Amal Clooney nella Bay Area, in California, dove due posti al tavolo principale costeranno oltre 350 mila dollari, il 400% del reddito medio annuo per un cittadino di San Francisco.
«Una oscenità », avverte il senatore, che chiarisce di essere un fan di Clooney come attore e che la sua «non è una critica a lui, ma al sistema corrotto di finanziamento della campagna elettorale».
«Un sistema – prosegue – dove i grandi finanziatori hanno un peso sproporzionato sul processo politico».
Dopo quella di gala, il 16 aprile si terrà un’altra cena di raccolta fondi per l’ex First lady nella villa dei Clooney in California e parteciparvi costerà 33 mila dollari a testa.
Il Golden State voterà per le primarie il 7 giugno, e in palio ci sono 475 delegati.
Ad oggi il conto dei delegati vede Hillary in testa con 1.712 grandi elettori a fronte dei 1.004 di Sanders, ma al netto dei superdelegati, che danno il sostegno indipendentemente delle votazioni il bilancio è di 1.243.
Ne servono 2.383 per ottenere la nomination democratica e allo stato attuale il confronto rischia rendere ancora più profonda la spaccatura tra l’elettorato della Clinton e quello di Sanders.
Col rischio di un alienamento di quest’ultimo e, in caso di vittoria di Hillary, di un’ondata di astensionismo al voto di novembre dando un vantaggio trasversale al candidato repubblicano, Trump o Cruz.
Francesco Semprini
(da “La Stampa”)
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