Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
NELLA CAPITALE VOTANTI DIMEZZATI, SOLO 43.000… A NAPOLI INVECE SONO RADDOPPIATI, CIRCA 30.000… BASSOLINO HA PERSO PER POCO, NETTA LA VITTORIA DI GIACHETTI A ROMA
E’ Roberto Giachetti il candidato sindaco del centro sinistra per Roma con il 67%.
A Napoli Valeria Valente s’impone su Antonio Bassolino con il 46%, a Trieste vince Roberto Cosolini, sindaco uscente sostenuto da Renzi.
A Bolzano la spunta Renzo Caramaschi, outsider sostenuto da Sel-Idv e liste civiche. Il dato delle grandi città in corsa, se confermato, segna una vittoria del voto “renziano”ma ce n’è un altro che farà discutere: il crollo dell’affluenza della Capitale che si è dimezzata rispetto al 2013, quando ai seggi si recarono 103mila persone.
Roma e il Pd romano pagano in termini di partecipazione le vicende di Mafia Capitale, le lacerazioni innescate dall’affaire Marino e poi la faida dei circoli dopo il rapporto di Fabrizio Barca e il commissariamento di Matteo Orfin.
A Ostia, teatro delle vicende giudiziarie del pd romano, hanno votato 1.403 romani contro i 5mila del 2013.
Prima lite in casa Pd, sull’astensione
Il dato politico viene relativizzato dal vicesegretario Pd Lorenzo Guerini: “A Roma un buon risultato considerata anche la situazione da cui partivamo”.
Il senatore della minoranza Pd Federico Fornaro invece sottolinea la flessione così: “I dati dell’affluenza alle primarie certificano un disagio che c’è ed è presente nel popolo del centrosinistra: è un disagio politico e anche di critica e di disaffezione molto preoccupante”.
A Napoli i votanti sono invece raddoppiati: oltre 30mila, un numero superiore a
quello registrato alla fine delle primarie per scegliere il candidato Governatore che mossero 16mila persone.
“Napoli ha scelto di guardare avanti con una nuova classe dirigente. Grazie a tutti i cittadini. E ora tutti insieme nel centrosinistra per tornare al governo della città ”. Così Valeria Valente ha annunciato la sua vittoria alle primarie del centrosinistra a Napoli.
(da agenzie)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
“SE DIVENTO SINDACO, O LIBERANO I MARO’ O CHIUDO I RISTORANTI E I NEGOZI INDIANI”… QUALCUNO LO AVVISI CHE SE HANNO REGOLARE LICENZA HANNO GLI STESSI DIRITTI DEGLI ALTRI: MENO BALLE
Dobbiamo riconoscere che tra i vari candidati romani del centrodestra (o presunto tale), se gli altri riescono a essere solo umoristi involontari, lui è un discreto battutista “ufficiale”, pronto e reattivo.
Che poi faccia o meno ridere, dipende ovviamente dal giudizio soggettivo dell’ascoltatore.
Francesco Storace oggi ha aperto ufficialmente la sua corsa al Campidoglio puntando l’attenzione su tre slogan: «Roma invasa tornerà italiana», «Roma impaurita tornerà sicura», «Roma sporcata tornerà pulita».
Ormai tra i vari partiti pare una rincorsa a chi si impossessa prima degli autospurgo. Storace, fautore a suo tempo della doppia tessera, in questo potrebbe essere avvantaggiato, magari riesce ad impossarsene di più d’uno.
Qualora si fosse riferito anche alla decadenza etica e politica della politica romana, magari avrebbe potuto dare un’occhiata anche a certi suoi sostenitori, non proprio immuni da procedimenti giudiziari, come peraltro il suo contendente Bertolaso (che in questo caso lui stesso menziona).
Veniamo alla proposte concrete.
Che la sicurezza si ottenga attraverso “l’aumento dell’illuminazione pubblica” è quanto meno opinabile, “il coordinamento tra le forze dell’ordine” è poi competenza del prefetto e non del sindaco, che “il comandante dei vigili deve appartenere al Corpo e non venire da fuori” non crediamo sia la soluzione automatica della efficienza del Corpo stesso, ma giusto uno slogan per ingraziarsi qualcuno.
Ma Storace ha dato il massimo quando ha detto: “Prometto che, se sarò sindaco, convocherò in Campidoglio l’ambasciatore dell’India per dirgli che se i marò non tornano in Italia chiuderemo tutti i ristoranti e i negozi indiani di Roma“.
Peccato che nessuno tra il pubblico gli abbia ricordato che chi è in regola con la licenza e paga le tasse ha gli stessi diritti degli altri e non puoi certo farlo chiudere se non beccandoti una denuncia.
E’ una regola di tutte le democrazie civili.
Ma forse era una delle sue solite barzellette: frequentare da troppi anni Palazzo Grazioli determina inevitabilmente una propensione ad ascoltarle.
E a raccontarle.
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
SABATO 12 L’ELETTORE DI AREA POTRA’ VOTARE BERTOLASO GIULIO O GIULIO BERTOLASO… MATTEO E GIORGIA REGGERANNO IL MOCCOLO
La risposta alle primarie del Pd a Roma? L’anticipo delle ‘gazebarie’.
Silvio Berlusconi ha deciso di accelerare.
Ha dato il via libera a non perdere tempo, a consultare subito il popolo della Capitale per lanciare Bertolaso nella corsa per il Campidoglio. Era una richiesta avanzata anche da Fdi.
In realtà alcuni big azzurri ancora hanno qualche perplessità sulla convenienza nel restringere i tempi ma la consultazione popolare si dovrebbe comunque tenere, apprende l’Agi, nel prossimo week end.
“Prima si fa e meglio è”, dice Maurizio Gasparri. Avverrà sabato prossimo quindi la ratifica della discesa in campo dell’ex Capo della protezione civile.
Berlusconi, si sa, è stato sempre ostile alle primarie, anche quelle dem che si stanno tenendo a Roma e nelle altre città d’Italia le considera una farsa.
A scegliere un amministratore di una città devono essere i leader, occorre un sindaco all’altezza che venga sottoposto poi al giudizio degli elettori, la linea del presidente azzurro.
E dunque FI si sta mobilitando per organizzare le ‘urne elettorali’ a Roma e capire quali sono le esigenze dei cittadini.
Gli azzurri con la mossa su Bertolaso intendono anche rivitalizzare il partito e “rilanciare la rivoluzione realizzata da Berlusconi”, come spiega il senatore Francesco Giro, “dovremo cogliere questa occasione”.
Ma il Carroccio è molto critico sulla eventualità che il referendum su Bertolaso diventi una sorta di consultazione sullo stesso Berlusconi.
Ma l’operazione è chiara: come Salvini ha gestito le primarie tarocco della Lega, questa volta i gazebo saranno in mano a Forza Italia, le sorprese sono escluse.
Tra gli azzurri c’è la convinzione che i dati dei sondaggi su Bertolaso siano in salita, quindi ci si prepara a dire che hanno votato 30.000 romani e che il gradimento di Bertolaso raggiiungerà almeno il 70%.
A Salvini e alla Meloni non resterà che reggere il moccolo.
(da agenzie)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
SUL RAPIMENTO DEGLI ITALIANI: “ACCERTEREMO RESPONSABILITA’, C’ERA UN DIVIETO DI ENTRARE NEL PAESE”
“Con me presidente, l’Italia non manderà 5mila soldati a combattere in Libia. Nostro intervento? Solo se lo chiede un governo solido”.
Parola di Matteo Renzi, a Domenica Live su Canale 5, da Barbara D’Urso.
Dove parla di tutto: dalla politica estera alle unioni civili, dalle banche alla paternità di Nichi Vendola, fino all’omicidio stradale e alle pensioni.
Nel mezzo battute e applausi. Infotainment puro.
Come l’ingresso in studio. Giacca e cravatta, musica di Ennio Morricone in sottofondo, saluti allo studio. Poi afferra la mano della conduttrice (i due si danno del tu da sempre) e salgono sul palco.
La prima domanda? “Parliamo di cose fatte” dice la conduttrice. E Matteo Renzi snocciola i numeri: su quante mamme hanno usufruito del bonus bebè (da lui annunciato sempre a Domenica Live ad ottobre 2014), sull’omicidio stradale divenuto legge, sulle unioni civili passate al Senato. Di palo in frasca.
Nel mezzo battutine, luci sparate, applausi a ogni slogan. Chi è in studio, però, parla di un pubblico non entusiasta, con l’indice dell’applausometro molto al di sotto delle aspettative.
“Io oggi lascerei perdere il politichese” dice Renzi, che si cala alla perfezione nel carattere nazional-popolare del programma: “Non bisogna trattare tutti i politici allo stesso modo, chi ruba va a casa anzi in carcere. Gli altri vanno trattati bene”. Applausi. E’ il momento di parlare di stepchild adoption e della paternità di Nichi Vendola. “Quando c’è una nuova vita dobbiamo essere tutti contenti” sottolinea Renzi.
Libia e politica estera
“Le domande sono tante, Matteo” attacca la D’Urso per affrontare il tema dell’impegno italiano in Libia. “Ci vuole calma, la guerra non è un videogioco — puntualizza Renzi — Non è all’ordine del giorno la missione militare italiana perchè la prima cosa da fare è che ci sia un governo che sia solido, anzi strasolido, e abbia la possibilità di chiamare un intervento della comunità internazionale e non ci faccia rifare gli errori del passato.
L’ipotesi dei cinquemila uomini in Libia non c’è. Punto” assicura il premier. Poi l’esempio dell’intervento in Iraq e il quadro internazionale in cui è maturato.
“C’è una diga a Mosul, una ditta italiana ha vinto la gara per ristrutturarla — racconta il premier — Mi ha chiamato Obama, mi ha chiesto di aiutare perchè se quella diga crolla sarebbe una catastrofe. L’Italia è un grande Paese e noi andremo a proteggere chi ristrutturerà la diga. Ma la guerra è una cosa seria, non si scherza”.
Oggi, però, è il giorno del ritorno a casa dei due italiani della ditta Bonatti.
“Da parte nostra ci sarà tutto il sostegno necessario alle famiglie delle vittime e ai due italiani rapiti in Libia, che sono rientrati e hanno saputo solo stamattina della sorte dei due colleghi” dice Renzi, che però pone alcuni dubbi: “Dovremmo capire le responsabilità , perchè i quattro uomini poi rapiti sono entrati in Libia quando c’era un esplicito divieto di entrarci da parte nostra. C’è stata un’operazione di intervento, probabilmente dei cantieri da visitare. E’ ancora da chiarire. La vicenda è molto delicata”.
Alla presa di posizione del premier ha però risposto il presidente della Bonatti Paolo Ghirelli: “Ovviamente noi eravamo in Libia per un ruolo ben preciso che avevamo e abbiamo tuttora all’interno degli impianti della Mellitha Oil and Gas. Sono 8 mesi che collaboriamo a stretto contatto con l’unità crisi della Farnesina. Abbiamo adempiuto tutti gli obblighi di legge“.
Banche, grandi opere pubbliche e cultura
Dopo la pubblicità , è la volta della politica interna. Banche, grandi opere, cultura e pensioni. “Quando l’ho detto alla stampa estera si sono messi tutti a ridere. Lo ribadisco qui: il 22 dicembre inaugureremo la Salerno-Reggio Calabria” promette Renzi, secondo cui l’Italia finirà di essere “il Paese delle incompiute”.
Non poteva mancare la rassicurazione sulla situazione delle banche italiane: “Chi è stato truffato riavrà i soldi fino all’ultimo centesimo ma tra quelli c’è anche chi ci speculava sopra” dice il premier, tornando sulla vicenda dei rimborsi agli obbligazionisti delle quattro banche salvate dal governo. Partendo dalla vicenda della Reggia di Caserta e del direttore che per i sindacati lavora troppo, il capo del governo ne approfitta per elencare gli interventi sulla cultura: “Abbiamo liberato risorse per un miliardo di euro e nei prossimi due anni li spenderemo in tutti gli edifici culturali, dalla Reggia di Caserta al museo che ospita i Bronzi di Riace, e in tutti i luoghi che hanno progetti lasciati a metà — dice Renzi — E’ la più grande operazione di investimenti sui beni culturali con costi certi e tempi certi per re-impadronirci dei luoghi della nostra cultura e della nostra identità ”.
L’ultima richiesta della D’Urso è sulla situazione delle pensioni. “La disciplina è guardata con grandissima attenzione dall’Ue: quando saremo in condizione di prendere impegni li prenderemo” sottolinea il leader del Pd, che aggiunge: “Ora non siamo in condizioni di farlo ma stiamo lavorando a un sistema di flessibilità . Non si tagliano le pensioni. Non si tocca la reversibilità ”.
L’arrivo di Renzi a Mediaset: il dietro le quinte
E’ arrivato con il fido Filippo Sensi, a bordo di una Maserati. Un’ora prima della diretta, come da protocollo.
La quarta ospitata di Matteo Renzi da Barbara D’Urso nel salotto di Domenica Live su Canale 5 è iniziata come le altre. Con il comitato di benvenuto composto dal direttore di Videonews Claudio Brachino, dal direttore generale dell’informazione Mauro Crippa e dal presidente di Mediaset Spa Fedele Confalonieri ad accogliere il capo del governo. Come un amico.
“Buon pomeriggio, presidentissimo” dice il premier stringendo la mano a Confalonieri, che ricambia la familiarità .
E’ domenica, non manca la scena da bar sport. Renzi incrocia il cronista e gli fa i complimenti per l’abbigliamento scelto: “Maglione color viola, molto bello”, con evidente riferimento alla squadra del cuore.
Confalonieri rivendica il territorio rossonero: “Non sfottiamo presidente” dice, mentre il suo Milan perde in quel di Reggio Emilia contro il Sassuolo di Giorgio Squinzi.
Dopo il siparietto, dritto in camerino. Ingresso off limits per cronisti e addetti ai lavori. Il premier si prepara alla diretta. Almeno mezz’ora, divisa in due blocchi.
Ma è facile immaginare uno sforamento dei tempi, anche perchè l’ultima volta che si è accomodato sulla poltrona della D’Urso il premier ci è rimasto per quasi un’ora, il doppio di quanto previsto.
Parlerà di Libia, questo è certo. Poi lavoro, unioni civili e politica interna. Il tutto dopo l’ospitata esclusiva di Naike Rivelli, la figlia di Ornella Muti, e di Yari Carrisi, il figlio di Al Bano e Romina Power. Che suona la chitarra per celebrare l’ingresso in studio di Siria.
Poi Barbara D’Urso: “Vi dobbiamo lasciare, sta per entrare in studio Matteo Renzi“.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
“DANNO DI IMMAGINE ALLA REGIONE VENETO”
Gianfranco Galan deve pagare ancora.
A chiedere denaro, in questo caso per danno di immagine alla Regione del Veneto, è la Corte dei Conti di Venezia che ha avviato una istruttoria con pignoramento preventivo per ben 5,2 milioni di euro.
Il casus belli è legato alle dazioni per la realizzazione del Mose che, il Consorzio Venezia Nuova (Cvn) all’epoca dei fatti presieduto da Giovanni Mazzacurati, avrebbe dato all’ex ‘Doge’ poi divenuto ministro sotto il Governo Berlusconi, prima dell’Agricoltura e poi dei Beni culturali.
Gli atti – a firma del Procuratore Carmine Scarano – sono stati depositati una decina di giorni fa e si basano sul fatto che, con il ruolo di Governatore, Galan avrebbe provocato un pesante danno di immagine all’Ente che presiedeva.
La notizia circola a pochi giorni dall’inaugurazione dell’Anno giudiziario della Corte contabile nel corso della quale proprio il Procuratore Scarano aveva manifestato il fatto che i suoi uffici già prima dell’inchiesta Mose – datata 2010 e chiusa nel 2015 con successivi patteggiamenti ed 8 rinvii a giudizio – avevano segnalato da tempo presunte gestioni di denaro pubblico sospette.
Per Galan una nuova ‘tegola’, considerato che per uscire dalla vicenda giudiziaria aveva patteggiato una condanna a 2 anni e 10 mesi di reclusione (li sta scontando dopo essere stato in carcere ai domiciliari) e 2,6 milioni di euro di multa.
Proprio per coprire questo esborso Galan si è trovato nella necessità di cedere all’erario la sua famosa ‘Villa Rodella’ a Cinto Euganeo sui colli sopra Padova.
Ora però l’ex Governatore non ha più cifre da capogiro per coprire eventuali nuove sanzioni economiche e se la tesi della Procura delle Corte dei Conti dovesse essere accolta, dovrebbe pagare cedendo le ultime proprietà solo a lui intestate in Italia.
Si tratta di un’abitazione e dei terreni per una cifra che non sfiora neppure il mezzo milione di euro.
Scatterebbe così, in toto, il pignoramento dei vitalizi che gli verrebbero elargiti dalla Regione del Veneto per il decennio di presidenza e quelli del Parlamento al momento della sua decadenza sulla quale da tempo è al lavoro un’apposita commissione. Vitalizi che per coprire la somma dovrebbero coprire alcuni lustri.
Ma per Galan il ‘rien va plus’ non è così scontato.
Come previsto dalla legge prima che scattino nuovi e futuri sequestri ha naturalmente il tempo per contro dedurre e difendersi di fronte ai giudici contabili per ottenere che la richiesta della Procura della Corte dei Conti venga respinta.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
COME SI DIMENTICANO IL VOLTO, GLI OCCHI E LE VALIGIE DEI PROPRI NONNI
Tra tutte quelle persone che fuggivano dalla miseria c’ero anch’io.
Nei nostri occhi da emarginati c’era tutto ciò che il nostro destino ci obbligava a rivelare. Avevamo addosso l’odore dei poveri, tasche vuote e lo sconforto di chi ha visto le proprie fantasie ritornare tristi.
In Mali ho lasciato mia moglie e i miei figli, perchè dove sono nato io provvedere alla famiglia è una responsabilità degli uomini e in paese non c’erano occasioni, non c’era nulla che mi avrebbe permesso di aiutare le persone che amavo.
Quando le dissi che sarei partito, lei sorrise in modo diverso e con debole protesta provò a convincermi a non andare.
Mi chiese di restare, disse che i soldi li avremmo trovati, che aveva paura.
I conoscenti raccontavano storie, qualcuno aveva perso un parente durante il viaggio verso l’Europa, altri vivevano meglio perchè avevano chi era riuscito ad arrivare dall’altra parte del Mediterraneo e mandava soldi a casa.
Mi scosse con furia la sera prima della partenza, mi ribadì che non ero obbligato a farlo, mentre io, mentendo con il sorriso di chi la sa lunga, le dicevo che sarei tornato il prima possibile, che se non avessi avuto certezze non sarei partito.
Salii su un pullman per il Burkina Faso una mattina di giugno, con 1.600 franchi e poche cose, che non mi sarebbero servite per il viaggio ma a ricordarmi da dove venivo.
C’erano le foto dei miei figli, di lei, di mia madre e le mie sorelle. Non avevo foto con mio padre, lui lavorava sempre e io ero cresciuto con la sensazione che avrei fatto la sua stessa fine.
La prima tappa mi illuse perchè fu semplice, pagammo al confine, attraversammo il Sahel e arrivammo a Ouagadougou dopo nove ore di viaggio.
Molti avevano solo i vestiti che indossavano e la paura che ai posti di blocco ci avrebbero chiesto altri soldi.
Ogni volta che ci fermavano i militari, ci dicevano con tono minaccioso che per passare bisognava pagare e che se non l’avessimo fatto non ci avrebbero restituito il passaporto.
In Niger conobbi Matar, un ragazzo del Mali come me.
Avevamo fatto una parte della tratta assieme e diventammo amici una sera che m’invitò a cenare con lui. Un pugno di riso, un po’ di patate e qualche cipolla soffritta.
Mangiavamo con le mani da un piatto al centro del tavolo fuori da un bar che restava aperto tutta la notte.
Matar si scioglieva in sorrisi doppi d’intensità quando cercava di ricordare i motivi che l’avevano spinto ad «andare a morire in Europa».
Diceva proprio così, mentre con estrema cura accendeva la sua unica sigaretta.
Chiesero a tutti noi altri 800 franchi per lasciarci raggiungere il confine con la Libia, ci caricarono su un pick-up.
Eravamo in tanti, non parlava quasi nessuno, e chi lo faceva teneva gli occhi bassi.
Al confine l’autista ci consegnò ad altre persone che ci fecero attraversare il deserto fino alla città libica di Zuwara dove restammo cinque giorni sulla spiaggia, in attesa che qualcuno dell’organizzazione si facesse vivo.
Ripartimmo il sesto giorno, eravamo almeno in 400. C’erano anche donne e bambini. Il barcone era condotto da quattro «soggetti», due ci controllavano, uno era al timone e l’altro al motore.
Prima di imbarcarci ci tolsero tutto, i soldi, i pochi gioielli e i vestiti negli zaini. Eravamo ammassati uno sull’altro, i bambini piangevano e chi chiedeva di uscire dalla stiva per prendere un po’ d’aria non veniva ascoltato.
Chi creava problemi veniva picchiato, però molti insistevano lo stesso, volevano uscire all’aperto, bere un po’ d’acqua, ma non era possibile, eravamo in troppi
Il peschereccio imbarcava acqua, navigammo in quelle condizioni per giorni. Persi la cognizione del tempo su quel barcone: senza cibo nè acqua, senza ripari dalla pioggia e dal freddo.
Finimmo in mare dopo una tempesta. Ci eravamo spostati tutti su un fianco del peschereccio per paura e quello si era ribaltato.
A bordo non c’erano giubbotti di salvataggio, solo urla. I ragazzi che non sapevano nuotare, tra cui Matar, colavano velocemente a picco ingoiati dal Mare.
L’acqua era gelida, molti, nonostante muovessero le braccia, non resistevano e venivano inghiottiti dal Mediterraneo.
In quel momento non pensavo al fatto che potevo morire, ma a mia moglie e ai miei figli, alle promesse che avevo fatto e all’infinità di parole che avevo usato per rassicurarli.
Il mare sembrava non finire più, non c’era terra. Trovai un resto del barcone e cercai con tutto me stesso di tenermi a galla, qualcuno fece lo stesso, altri due si contesero un pezzo di legno ma alla fine andarono giù entrambi.
Esattamente un anno fa ho messo piede per la prima volta in Italia grazie a quegli uomini vestiti di rosso che mi hanno teso un salvagente e mi hanno tirato fuori dall’acqua.
Qui non ho trovato tutto quello che ho promesso a mia moglie.
Questo posto non assomiglia minimamente a tutto quello che mi è stato raccontato da mio padre.
In Italia ci chiamano migranti, come se questo servisse a far tacere il dolore e a rendere l’immagine di una strage una cosa ordinaria, di passaggio.
Ci chiamano migranti, come se non avessimo un nome, un volto, come se non avessimo una storia.
Ci chiamano migranti perchè è meglio che restiamo a casa nostra, che moriamo nelle nostre terre, e non nel loro mare che chiamano «Nostrum».
Ci chiamano migranti, come se fossimo una categoria e non persone, come se non fosse morto nessuno d’importante, nessuno che ha una famiglia.
Loro si sono chiamati coloni, turisti, esploratori quando nelle nostre terre hanno portato il malessere che oggi ci costringe a fuggire.
Ci chiamano migranti, per ricordarci che al mondo ci siamo noi e loro. Loro che hanno una famiglia, una casa, che se muoiono finiscono sui giornali con il loro nome, loro che hanno tutto e non provano vergogna.
Ci chiamano migranti. Noi che non siamo niente, che non siamo gli ultimi e nemmeno i primi.
Perchè i primi partivano da qui, dall’Italia, e avevano il volto dei loro nonni, gli occhi dei loro parenti, le valigie dei loro amici di famiglia.
E la speranza dei migranti.
Antonio Dikele Distefano
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
UNO DEI MIGLIORI VIOLINISTI D’ITALIA SUONA IN UNA STAZIONE DEL METRO’: SU 1.760 PASSANTI SI FERMANO IN 11
Irrigidito nel gelo del primo mattino, ha sceso passo dopo passo le scale fino al tunnel del metrò sotto via Lepanto.
Portava una barba folta, capelli un po’ lunghi sulla fronte, era senza cappotto anche se il termometro segnava esattamente zero. Tutto ciò che aveva con sè quell’uomo era un grosso pullover grigio, guanti di lana mozzati all’altezza delle dita e un astuccio di pelle ammaccata fra le mani.
Le quattro addette della biglietteria della metropolitana lo hanno visto fermarsi proprio davanti al loro sportello e aprire la sua scatola con cura. Ne ha tirato fuori un violino. Ha poggiato il contenitore sul pavimento di linoleum nero, ha sparso con metodo quattro monete d’incoraggiamento sul velluto rosso della fodera.
Ed è a quel punto che ha iniziato
Se conoscete l’ Adagio e la Fuga della prima Sonata per violino di Johann Sebastian Bach, sapete di che cosa si tratta. Ti lacera il corpo e ti strappa via l’anima con una precisione matematica, te la porta allo scoperto e tu non puoi farci niente.
È anche una delle pagine per violino più difficili mai scritte (1720), così innovativa e sconcertante che Bach morì trent’anni dopo senza che nessun editore si fosse mai arrischiato a pubblicarla.
Un secolo e mezzo più tardi, Johannes Brahms non osò comprare il manoscritto originale che gli veniva offerto perchè dubitava che fosse autentico. Sono meno di dieci minuti di musica ma si portano dietro un’ombra d’incredulità fin dal primo momento.
Questa è la composizione, e questi il tempo e il luogo: la fermata Lepanto sulla linea A della metro di Roma, lunedì 18 gennaio.
E quest’articolo è un puro e semplice plagio, è bene dirlo subito. Nel 2008 Gene Weingarten del «Washington Post» vinse il primo dei suoi due premi Pulitzer per le feature , le storie più lunghe, con un testo che mise alla prova un migliaio di passanti del metrò della capitale degli Stati Uniti e la dignità di uno dei grandi maestri di questo secolo.
Joshua Bell, ciò che di più vicino a una rockstar esista nel mondo del violino, aveva accettato d’improvvisarsi musicista di strada nel centro di Washington un mattino presto all’ora di punta.
Per 43 minuti aveva suonato la Ciaccona di Bach e altri 5 pezzi, raccogliendo 32 dollari e spiccioli da 27 persone; quel giorno nessuno lo riconobbe e un solo passante adulto si fermò ad ascoltarlo. Per 9 minuti.
Anche in questo lunedì di gennaio l’uomo che raccoglie qualche moneta agitandosi contro la parete del metrò è famoso, nel resto della sua vita.
È un interprete solido e raffinato, fra i più grandi d’Italia. Carlo Maria Parazzoli, 51 anni, da poco meno di venti primo violino solista dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia.
In carriera si è esibito con i più celebri direttori e nelle migliori sale del mondo. Ha suonato musica da camera con Lang Lang, Martha Argerich, con il mitico direttore e pianista Wolfgang Sawallisch.
Quando c’è lui l’incasso medio di una serata all’Auditorium della capitale è di alcune decine di migliaia di euro, un buon posto ne costa circa 50 e non sarà mai situato così vicino alla fonte del suono come in questo corridoio a Lepanto.
Ma il pubblico nei teatri conosce un codice non scritto, che detta concentrazione e silenzio in momenti dati. Il mondo di Parazzoli è questo.
E ciò che segue è il risultato della fredda mattinata di gennaio.
Il maestro ha suonato 30 minuti (dalle 8.04 alle 8.34), davanti a lui sono passate 1.760 persone, nessuno l’ha riconosciuto, in 11 hanno offerto qualcosa, in 4 gli hanno rivolto uno sguardo aperto e sostenuto per almeno qualche secondo e quelle 4 persone avevano tutte lo stesso profilo demografico: frequentano invariabilmente la scuola materna o le prime classi delle elementari, hanno fra i 4 e i 6 anni di età .
Dopo la performance, scaldandosi in un bar, Parazzoli prenderà atto che la distinta dei ricavi presenta 2 monete da 2 euro, 6 da uno, 3 da 50 centesimi, 5 da 20, 3 da 10, 5 da 5 centesimi e una da un cent.
Qualcuno deve averne approfittato per svuotarsi le tasche. In tutto fanno 13 euro e 6 cent.
In uno dei grandi quartieri borghesi di Roma, dove le persone che usano il metrò vengono da case piene di libri e si affrettano verso uffici – spesso pubblici – di un qualche prestigio, lo 0,63% dei passanti ha scelto di fare un’offerta per l’ Adagio e la Fuga di Bach interpretati da Parazzoli.
In un quartiere paragonabile di Washington, Joshua Bell aveva raccolto contributi dal 2,4% di quelli che l’hanno incrociato.
Non è un atto d’accusa. Piuttosto questo è un test su come lavorano i muri che chiudono la nostra mente e quei binari invisibili che ci guidano sempre verso una direzione data, anche quando ai lati appaiono panorami stupefacenti.
È un modo di riflettere sulla bellezza e sulla sottigliezza che ci sfuggono tutti i giorni, semplicemente perchè non pensiamo che debbano essere qui. Non ora, non in questo luogo.
Convinti di essere nel pieno delle nostre facoltà , obbediamo al contesto anzichè ai nostri sensi. Confondiamo il valore con il prezzo, prendiamo il secondo come misura esclusiva del primo.
Alcuni studi mostrano che, alla cieca, spesso tendiamo ad apprezzare vini meno cari ma improvvisamente preferiamo i più costosi non appena qualcuno ci informa su quanto siano stati pagati.
L’aver speso per un prodotto acuisce la nostra mente e ne affina la percezione.
Sapere è tutto.
Ragguagliate di ciò che sta realmente accadendo, le quattro addette della biglietteria si alzano in piedi dietro il vetro dello sportello non appena Parazzoli accenna le prime note.
Non riescono più a lavorare, ascoltano incantate. Ma quando poco dopo arriva un treno e un’ondata di gente si rovescia fuori dai tornelli, nessuno degna quell’uomo in golf grigio di uno sguardo.
Lo fa solo una bambina in una giacca a vento bianca, cercando di mimare i gesti del maestro al violino ma la madre non rallenta e anche la piccola sgambetta via.
È in quel momento che arriva il direttore della stazione Lepanto.
Nervoso, chiede al maestro di mostrargli l’autorizzazione per quella performance. Bastano un pezzo di carta, un timbro. Non ne ha.
«Cerchi almeno di abbassare il volume», fa lui.
Il direttore sparisce per qualche minuto, torna per un nuovo tentativo di cacciare Parazzoli e alla fine si arrende: «Vabbè, dirò che ero in bagno. Ma lei alle 8.30 se ne vada».
Solo le donne si avvicinano per lasciare dei soldi, gli uomini mai. Ma anche quelle sfuggono con gli occhi.
Depositano le monete sulla fodera rossa – non le gettano, per rispetto – e si dileguano senza guardare il musicista.
La loro pietà viaggia sempre mista al fastidio. «Anche se al mio posto ci fosse stata una tela originale di van Gogh, nessuno si sarebbe fermato. Non ci avrebbero creduto. Abbiamo sempre paura che i nostri piani di giornata siano sconvolti», dirà Parazzoli più tardi.
Ma non per tutte è così. Alberta Milone, un avvocato di 47 anni, nel tempo libero suona il liuto rinascimentale e quella mattina sente subito qualcosa di speciale in quel suono. Lascia due euro. «Ho capito che non era una persona qualunque, perchè non mi ha ringraziata».
Era il primo violino di Santa Cecilia, avvocato.
«Wow. È stato un momento intenso», razionalizza.
In cima alle scale della metro Elvio Tiburzi, 61 anni, impiegato alla Corte dei conti, aspetta la collega Gigliola Caratelli per avviarsi con lei verso l’ufficio.
Tiburzi da ragazzo ha abbandonato gli studi di musica prima del diploma perchè era diventato padre molto presto. «Poi ho suonato un po’ nei piano bar, ma sono di formazione classica. Mia figlia si è diplomata e ora suona quando la chiamano», dice con un orgoglio controllato.
Quel mattino Tiburzi non resiste, scende le scale della metro per controllare da dove viene quel canto di violino.
Vede Caratelli, la collega della Corte dei conti, che ha appena lasciato una moneta («volevo mostrare che qualcuno capiva cosa stava accadendo»).
Tiburzi si ferma, assorbe ancora un istante di quella musica sublime, poi un dubbio lo blocca. «Suonava troppo bene – ricorda – allora ho pensato: mi sa che è un esperimento».
E i due colleghi si sono affrettati verso la Corte dei conti.
Federico Fubini
(da “il Corriere della Sera”)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
L’UOMO DELLE COMUNICAZIONI DEL MONTE DEI PASCHI MORTO TRE ANNI FA: FU VERO SUICIDIO?
«A tre anni dalla morte alzate la testa, rompete il silenzio».
È scritto su un manifesto che chiama a raccolta per un corteo silenzioso domenica pomeriggio a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi, chi ha a cuore la verità sulla fine di David Rossi.
La moglie e la figlia del dirigente della banca senese che fu trovato morto sotto la sua finestra non si sono rassegnate.
E il caso, archiviato come suicidio, tre mesi fa è stato riaperto dalla procura di Siena. Che ora ha il compito di diradare le nebbie che avvolgono l’episodio più inquietante di una storia capace di spingere il Monte sull’orlo del baratro.
Quella sera in vicolo di Monte Pio
È mercoledì sera. A quell’ora, nelle giornate di inizio marzo, rinfresca un po’. Il torrente umano che scorre senza sosta lungo via Banchi di Sopra sfilando davanti a piazza Salimbeni si interrompe di tanto in tanto.
Le stradine lì intorno sono deserte. Vicolo di Monte Pio, alle spalle del Monte dei Paschi di Siena, poi, è un budello chiuso dove non si vede mai nessuno.
Ma non quel mercoledì sera di tre anni fa, il 6 marzo 2013. Ci sono delle persone, e c’è anche una macchina che sbarra l’ingresso del vicolo.
Ai loro piedi, disteso per terra, un uomo sta agonizzando. È caduto da una finestra: si è buttato da solo o qualcuno l’ha aiutato?
Si chiama David Rossi, ha cinquant’anni ed è un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena, che sta attraversando il momento più difficile dei suoi cinque secoli e passa di vita.
Una tempesta giudiziaria la sta scuotendo dalle fondamenta.
Sulla costosissima acquisizione dell’Antonveneta si allungano ombre pesanti: i magistrati sospettano reati gravissimi, dall’insider trading alla truffa.
Rossi è il responsabile della comunicazione della banca, uno degli uomini che sono stati più vicini all’ex presidente Giuseppe Mussari, l’epicentro della bufera. E adesso è lì, a terra, con quegli uomini intorno.
Il giallo del biglietto alla moglie
Quando arriva la polizia, però, non c’è nessuno. L’inchiesta è rapidissima e il caso viene subito archiviato: suicidio. Tutti gli indizi, secondo i magistrati, depongono in questa direzione.
Rossi è stressato, il 19 febbraio hanno perquisito casa sua. Due giorni prima, ha scritto in una mail all’amministratore delegato Fabrizio Viola «stasera mi suicido sul serio aiutatemi».
E poi non c’è forse quel biglietto lasciato alla moglie («Toni, ho fatto una cavolata troppo grossa…»)? Già , quel biglietto… Antonella Tognazzi riconosce la scrittura del marito. Ma c’è qualcosa che non convince.
Come se quel messaggio non fosse stato scritto in piena libertà . David stava passando un brutto momento, d’accordo, ma non c’erano state avvisaglie di un gesto simile. E poi non la chiamava mai «Toni». Anche le perizie hanno lasciato molti dubbi, però sono state liquidate frettolosamente. Decisamente troppo.
Le telecamere di sorveglianza
I familiari vogliono vederci chiaro e insieme all’avvocato Luca Goracci rimettono pazientemente in fila tutti i fatti. Il 16 novembre 2014 Antonella Tognazzi dice aReport di non credere al suicidio.
E la trasmissione di Milena Gabanelli mostra un frammento del filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dove si vede un oggetto, forse un orologio, che cade dall’alto sul selciato dove da qualche minuto è riverso Rossi.
Un dettaglio sconcertante, e non isolato.
Le perizie di parte ne sono piene. L’ora registrata nel video non corrisponde a quella effettiva: è avanti di 16 minuti. Il perito sostiene che potrebbe essere anche stato manomesso.
Anche se il presunto autore non è riuscito a occultare la presenza di persone vicino al corpo di Rossi.
Secondo il perito compaiono poco dopo la caduta di David e restano lì fino alla sua morte avvenuta 22 minuti dopo l’impatto.
«Tali figure umane – sottolinea la relazione – non sono mai state oggetto di approfondimento, secondo quanto in atti». Così la stessa dinamica della caduta, che le perizie di parte giudicano incompatibile con l’ipotesi del suicidio.
Quel numero sul telefonino
Sul cadavere vengono poi riscontrate ecchimosi e ferite tipiche di una colluttazione. Quindi c’è l’oggetto che cade, dopo diversi minuti, e nello stesso momento in cui qualcuno, sul telefonino di Rossi rimasto nel suo ufficio mentre lui è a terra esanime, digita un numero: 4099009.
E che cosa cercava chi è entrato quella sera nel computer di David, usando le sue credenziali?
Nell’istanza di riapertura del caso c’è la ricostruzione minuziosa dello scambio di mail avvenuto due giorni prima della sua morte fra Rossi e Viola. David gli dice che vuole parlare con i magistrati. E prima possibile. «Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani. Mi puoi aiutare?».
Ma perchè David ha bisogno di parlare con i pubblici ministeri? «Vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici e i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, Comune, fondazione, banca. Magari – scrive ancora – gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve».
Passa qualche minuto, però, e cambia idea: «Ho deciso che meglio di no. Non avendo niente da temere posso tranquillamente aspettare che mi chiamino. Si può fare con calma».
Calma che Rossi purtroppo non avrà .
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Marzo 6th, 2016 Riccardo Fucile
“E’ UNA GARA A CHI ARRIVA ULTIMO”
“I Cinque Stelle cercano innanzitutto di non vincere mai le elezioni, cercano al massimo di arrivare secondi“.
Così il presidente della regione Puglia Michele Emiliano (Pd) commenta a “Si Può Fare” su Radio 24 la misura appena approvata dal consiglio regionale di istituire un Reddito di Dignità fino a 600 euro al mese per chi ha un reddito sotto i 3mila euro all’anno.
Votazione alla quale, all’ultimo momento, non hanno preso parte i consiglieri M5s. “Abbiamo discusso per ore e ore tutti gli emendamenti. Poi — spiega Emiliano — c’è stata una baruffa col presidente del consiglio durata pochi secondi e quindi sono usciti dall’Aula. Ho saputo poi che erano stati fatti degli emendamenti da parte del M5S, come per esempio inserire il taglio degli stipendi dei consiglieri in questa misura. Un ritocco di poche decine di migliaia di euro a fronte di una misura che vale 70 milioni di euro. Sono iniziative last minute”.
Quindi, domandano i conduttori Alessio Maurizi e Carlo Gabardini il rapporto con M5S è finito?
“No, io continuerò a lavorare, perchè non è possibile tenere 8 milioni di voti congelati. Ma percepisco da parte loro un odio verso il Pd, persino quando mi avvicino a Di Battista per dargli la mano. Temono anche di essere fotografati”.
Il governatore della Puglia poi aggiunge: “M5S ha un problema ogni volta che deve governare: dove governa, come a Livorno, governa male. Dove invece governa bene, come a Parma, poi litigano col sindaco. Anche a Roma stanno facendo di tutto per perdere le elezioni. Anche se — dice — devo dire che anche il Pd sta facendo di tutto per farli vincere. Sarà una gara a chi arriva ultimo”.
Perchè? “Beh, con sei candidati alle primarie il Pd sta facendo di tutto per perdere le elezioni. Forse — conclude Emiliano — se avessimo trovato una proposta più chiara sarebbe stato meglio”
(da “il Fatto Quotidiano”)
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