Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
VENERDI’ DOPO I FUNERALI DI DARIO FO, VERTICE AZIENDALE CON GRILLO E CASALEGGIO PER BLOCCARE LA FRONDA DI FICO…. IL RICATTO DELLA FORMAZIONE DELLE LISTE: DECIDE SEMPRE GRILLO COME TITOLARE DEL SIMBOLO
La posta in gioco è tale che, tra la camera ardente e i funerali di Dario Fo, si sono precipitati alla
Casaleggio associati i tre della vera tolda di comando dell’M5s, per un punto “urgente”.
È stato lì, da venerdì sera a venerdì notte, che Di Maio, Grillo e Davide Casaleggio hanno valutato la portata della “fronda” di Roberto Fico e degli ortodossi: “Dobbiamo stopparla subito, perchè mette in discussione tutto il percorso costruito fin qui e ribadito a Palermo: puntare al governo e a costruire l’alternativa a Renzi”
Per questo, ancora una volta, Grillo ha assicurato che continuerà a intervenire personalmente, per non far esplodere il caso sui giornali: “Ti affianco — le sue parole a Di Maio — finchè non diventi il candidato premier, poi torno al passo di lato”.
Ecco il punto. Proprio per blindare Di Maio, il fondatore era intervenuto qualche giorno prima, partecipando alla riunione dei parlamentari.
E anche dopo, quando una parte del gruppo avrebbe voluto discutere ruolo di Di Maio, ponendo questioni di trasparenza, di composizione staff, di discussione democratica: “Chi e dove decide?”.
Le voci sulla trama di Roberto Fico e degli ortodossi, invece di sedarsi, si sono intensificate: incontri, cene, abboccamenti al riparo da occhi indiscreti, insomma la prima fronda organizzata.
Sono parecchi i parlamentari avvicinati da Roberta Lombardi che si sono sentiti sussurrare: “Dobbiamo ritornare a essere quelli delle origini”.
Tra i rivoltosi più attivi anche Carla Ruocco, una volta portavoce informale di Grillo, ora molto critica sull’ascesa di Di Maio.
E inferocita per la gestione del caso Roma, al punto che accarezzò l’idea di non partecipare alla kermesse di Palermo.
Rivalità , ambizioni, incontri segreti. L’odio personale ha lacerato l’ex direttorio, dove Fico, la Ruocco, Sibilia non si parlano più.
In un post il leader di fatto dei frondisti ha smentito un suo ruolo attivo: “Nel Movimento 5 Stelle — scrive Fico – non ci saranno mai correnti interne. Si lavora a un obiettivo comune che è quello di cambiare il paese. Tutto il resto sono chiacchiere da bar”.
In verità il problema non è solo la corrente, che agli occhi della base è già bocciata in nome della mitica unità (di facciata) del Movimento.
Basta leggere i commenti alla pagina facebook di Fico per capire come un’iniziativa di corrente produrrebbe la lapidazione di chi la promuove da parte della base.
Al fondo del mal di pancia, delle rivalità personali, delle chiacchiere sulla fronda c’è vero nodo politico che a microfoni spenti più di un parlamentare sussurra: “Quando Fico o la Ruocco parlano di spirito delle origini rifiutano il percorso, immaginato da Casaleggio e su cui Grillo si è impegnato come garante: la costruzione di un Movimento che vada al governo. Vogliono stare all’opposizione e essere i puri, contro su tutto”.
E’ un conflitto che scuote le fondamenta stesse del Movimento. E che sta portando a un impasse strategico, con Di Maio che, dopo aver incontrato ambasciate, lobby, imprenditori in primavera, ora ha evitato Capri, Cernobbio, dopo che è stato messo sotto processo per il caso Roma
Proprio questo impasse è stato l’oggetto del lungo vertice milanese. Perchè la fronda è una zavorra a ogni ragionamento di prospettiva. Reso urgente dall’aria che si respira attorno al referendum.
Alessando Di Battista partirà per un nuovo tour, ma chi decide davvero dentro l’M5s non scommette più di tanto su una vittoria del no.
Ed è per questo che, in questa fase, di Maio è tenuto riparato, perchè se mette il volto sulla sconfitta al referendum poi ne esce indebolito come candidato premier: “Se vince il sì — la sintesi della riunione milanese — Luigi deve essere pronto a gennaio perchè quello punterà a elezioni anticipate. E non possiamo essere frenati dai nostri”.
Il giorno dopo, al funerale di Dario Fo, Grillo si è mostrato solo accanto a Di Maio, Davide Casaleggio e Di Battista.
Un segnale preciso ai frondisti. Perchè il primo a capire che il ritorno al vaffa, alle scatole di tonno, al no all’Europa è insufficiente e lascia l’Italia nelle mani di Renzi. Ed è lui il titolare del simbolo, il che vale più di ogni votazione online quando si formeranno le liste. E chissà se, come in ogni partito tradizionale, c’è anche questo nella fronda, la rassicurazione di un secondo mandato in Parlamento.
Rassicurazione che, in questo clima di veleni, non è ancora arrivata.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
PER LUI “E’ UNA CIFRA NORMALE PER UN DEPUTATO”… I PARLAMENTARI M5S, COME AVEVAMO DETTO FIN DALL’INIZIO DEL MANDATO, IN REALTA’ RESTITUISCONO SOLO 2.000 EURO SUI 12.000 CHE PERCEPISCONO
“Centomila euro di eventi sul territorio in tre anni? Ma quanto spende Luigi Di Maio?”, è la domanda che corre di chat in chat tra i parlamentari del Movimento 5 Stelle riguardo alle rendicontazioni del vicepresidente della Camera.
Domanda ripresa sul sito del ‘libro a puntate’ Supernova di Marco Canestrari e Nicola Biondo, cui l’interessato oggi, in conferenza stampa per presentare un tour addirittura mondiale per il NO al referendum sulle riforme costituzionali, risponde: “Sono meno di tremila euro al mese, è normale per un parlamentare spendere per attività sul territorio”.
Non è così semplice però.
Perchè se è vero che i parlamentari 5 stelle continuano a restituire parte della loro indennità fissa (Di Maio a maggio 2016 ha restituito 1.686 euro su 4.945), è anche vero che, da quando sono sbarcati in Parlamento, la quota ‘variabile’ delle restituzioni è diminuita drasticamente, come dimostra il grafico del sito maquantospendi.it, che analizza i dati forniti dall’M5S su tirendiconto.it.
Così, per restare a maggio 2016 che è l’ultimo mese di cui si trova traccia, dei 7.193 euro di rimborsi forfettari che i deputati sommano all’indennità , il vicepresidente della Camera ha restituito 460 euro.
Un andamento simile a quello dei mesi precedenti e migliore di quello di molti suoi colleghi che spesso, quota fissa dello stipendio base a parte, non restituiscono nulla.
Quel dato gigantesco degli ‘eventi sul territorio’, però, fa discutere.
Perchè come parlamentare, in Italia, Di Maio ha treni e aerei pagati. Quindi le spese di trasporto non possono essere così ingenti.
E perchè spende molto di più rispetto a tutti gli altri.
Per fare qualche esempio, dopo i 108.752 euro del vicepresidente della Camera c’è il presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico con 31.600 euro, poi il semisconosciuto senatore Carlo Martelli con 28.484 euro, Carla Ruocco con 25mila, Barbara Lezzi con 22mila. Alessandro Di Battista è solo sedicesimo con poco più di 16mila euro, ma era prima del ‘Costituzione coast to coast’ che potrebbe aver cambiato le cose sebbene il deputato romano dormisse e mangiasse spesso da attivisti, per poi ripetere — a più riprese — “la benzina ce la regalano”.
Così, la retorica della ‘politica a costo zero’ continua a essere usata anche da chi ha scoperto che la politica a costo zero non è.
E il dato dei 100mila euro spiega più di tanti retroscena quanto Luigi Di Maio e l’ufficio comunicazione dei 5 stelle spingano su di lui come candidato premier del Movimento.
Mandandolo in giro per l’Italia e per l’Europa, quando non è in Israele, ogni weekend utile. Spingendolo fino a Mosca, se sarà lui a chiudere l’annunciato tour mondiale per il NO dall’ormai ‘amico Putin’, visto che il Movimento non perde occasione per difendere la Russia e accusare l’Unione europea di aver sbagliato tutto con le sanzioni.
E costruendo una leadership di fatto che, adesso, inizia a dar fastidio ai molti nostalgici dell’ ‘uno vale uno’.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
“HANNO BLOCCATO IL VERO CAMBIAMENTO: QUESTA NON E’ DEMOCRAZIA DAL BASSO, MA DEMOCRAZIA DEL PUBBLICO, UNA GARA DI LIKE E POST”
E’ un giudizio spietato quello di Giovanni Favia, ex consigliere regionale 5 stelle, sull’evoluzione del
movimento dopo la morte di Gianroberto Casaleggio.
“Davanti ad un giudice finalmente dovranno essere trasparenti e comunicare i bilanci” afferma a piazzale Clodio.
Favia è in Tribunale a Roma per la querela ricevuta dalla Casaleggio Associati due anni fa, per un editoriale sui bilanci opachi del blog di Beppe Grillo.
“Il movimento è stato scippato da quattro carrieristi, yes man, è in mano ad un direttorio star system, quattro persone senza merito che hanno fatto un corso di comunicazione con i soldi del gruppo parlamentare, ormai è un reality, una truffa, tutto cambia per non cambiare, la sua evoluzione verso il modello del partito tradizionale è evidente a tutti, tranne agli esaltati che si aggrappano a poche banalità per fingere che la rivoluzione vada avanti” sostiene l’ex pupillo del movimento in Emilia Romagna.
“Noi eravamo puliti, credevamo davvero in un movimento di cittadini informati, la cacciata di Pizzarotti era già scritta, noi abbiamo costruito il movimento quando non c’erano soldi, nè prospettive di carriera, adesso parlano alla pancia del Paese, con colpi bassi, vanno da Vespa pur di conquistare un voto in più” aggiunge.
“Davide Casaleggio è interessato all’azienda, non alla politica, è un uomo destinato a rimanere nell’ombra, Gianroberto era la mente, è insostituibile, Grillo fa scena come sempre, è un narcisista, la politica non gli interessa, è un battitore libero, come Casaleggio lo influenzava in passato, così oggi si fa influenzare da questi ragazzi, Di Maio e altri non sono pronti nè culturalmente ma anche a livello di nervi, tutto gli scoppierà in mano prima o poi” è la sua analisi.
Secondo Favia adesso il M5s non è più il motore della rivoluzione, ma la causa dello stallo: “Hanno bloccato il Paese e il vero cambiamento che molti vorrebbero, favorito dalla crisi di rappresentanza ed economica, non è permesso a causa di questa truffa, non è democrazia dal basso, ma democrazia del pubblico, una gara di like e post su Facebook, adesso rimane da vedere quale corrente, chi dei quattro ragazzi carismatici l’avrà vinta”
Irene Buscemi
(da “il Fatto Quotiddiano”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
“NON SI TRATTA DEL GOVERNO MA DEL MERITO DELLA RIFORMA”…CL NON SI ESPONE MA PRECISA: “SERVE MAGGIORE STABILITA’ DEL SISTEMA POLITICO”
L’Udc si ribella in Sicilia. Forza Italia si rende libera dalla linea nazionale a Pomigliano d’Arco, in provincia di Napoli.
Qui i berlusconiani invitano a votare “Si” al referendum costituzionale del 4 dicembre, al contrario di quanto sostengono i vertici del partito, compreso Silvio Berlusconi.
La decisione è stata presa da un’assemblea cittadina degli iscritti, alla quale ha preso parte anche il sindaco Lello Russo, rieletto nel 2015 con una coalizione di centrodestra.
Andando, quindi, controcorrente rispetto alla posizione nazionale del Partito azzurro schierato, invece, con il “No”.
“Non si tratta di schieramenti politici, ideologie o di uno sterile dibattito pro o contro il governo — dice il sindaco Russo — ma di una Riforma e dei suoi contenuti: dalla riduzione del numero dei parlamentari al superamento del bicameralismo paritario, ad una maggiore efficienza del procedimento legislativo”.
A Pomigliano nei mesi scorsi era nato anche un comitato per il “Sì”, creato da un esponente di Fi. Si rispecchia in toto, invece, la posizione del Pd locale, spaccato tra sostenitori del “Sì” e del “No” che stanno svolgendo la campagna referendaria soprattutto sui social.
La verità è che come è spaccato il Pd, lo è anche il centrodestra.
Di Alfano e Verdini è noto il sostegno da subito alle riforme istituzionali di Renzi, ma Renato Schifani — che ha votato la riforma in Parlamento e ora è presidente di un comitato del No — ora vuole mostrare che tra i vecchi azzurri c’è anche chi si batte contro la riforma di Renzi.
“Sono più di 120 gli ex parlamentari di centrodestra, la maggior parte di Forza Italia, che mi hanno assicurato personalmente il loro attivo coinvolgimento nella campagna per il “No” spiega l’ex presidente del Senato. Tra loro, anticipa, ci sono il presidente emerito della Corte Costituzionale Antonio Baldassarre, l’avvocato Giulia Buongiorno, Paolo Guzzanti, Alessandro Meluzzi, l’ex presidente del Senato Carlo Scognamiglio e l’ex ministro Antonio Guidi.
E un altro pezzo di centrodestra prende posizione, anche se sembra un po’ ambigua: Comunione e Liberazione.
“Il dibattito sulla riforma — si legge in un documento — è da mesi appesantito da forzature e strumentalizzazioni, che hanno condotto le formazioni politiche a una forte polarizzazione e a trasformare il referendum in un test sull’attuale governo e sul premier in particolare”.
Rispetto alle posizioni di “sterile indifferenza” e “cinico disimpegno” o alla “logica dello schieramento a priori” sottolinea:
“Entrambe le posizioni ci appaiono umanamente e politicamente aride e improduttive, se non addirittura dannose, anche per chi le sostiene”.
Cl sottolinea in ogni caso che “la vera urgenza del momento” è “la necessità di una maggiore stabilità ed efficienza del sistema politico a favore di migliori condizioni di vita per ogni cittadino e per il Paese, in vista dell’obiettivo fondamentale di sempre, vale a dire la promozione del bene comune”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
400 DIPENDENTI QUELLA DEL COMUNE, 700 QUELLA NAZIONALE… SOLO PER METTERE UNA BIGLIETTERIA AL CIRCO MASSIMO UNA DISCUSSIONE DURATA UN ANNO E MEZZO
Da novantuno anni, a Roma, ci sono i Fori Imperiali di destra e i Fori Imperiali di sinistra. Ma niente a
che vedere con la politica.
Il fatto è che dal 1925, un anno dopo l’avvio del progetto fascista di radere al suolo il quartiere Alessandrino per far posto alla via dell’Impero, l’immenso patrimonio archeologico della Capitale ha due padroni.
Un pezzo ce l’ha lo Stato e un pezzo il Comune. La fetta più grossa dei Fori, quella a sinistra della via che attraversa l’area andando dal Colosseo a piazza Venezia, è di proprietà statale.
Mentre la fettina che sta a destra è comunale.
E il Colosseo? È dello Stato, ma il selciato romano intorno è del Comune.
E la Domus Aurea, la strepitosa villa dei giochi di Nerone? Statale anch’essa. Però i resti delle terme fatte edificare dall’imperatore Traiano sopra la villa sono comunali. Come il mausoleo di Augusto. Invece le Terme di Caracalla sono dello Stato.
Un’assurda sovrapposizione, estesa su tutta la città .
Ragion per cui a Roma, da sempre, esistono due Soprintendenze: quella dello Stato, che fino a poco tempo fare era divisa in due fra archeologica e architettonica, e quella del Campidoglio.
Due eserciti sterminati: la Soprintendenza capitolina ha più di 400 persone e quella nazionale viaggia sulle 700. Ma non sempre schierate sullo stesso fronte
Lasciamo immaginare che cosa possa significare in una situazione nella quale è già complicato che un’amministrazione si metta d’accordo con se stessa.
I casi in cui si pestano i piedi le due Soprintendenze, che sulla carta avrebbero pure compiti diversi (alla nazionale la tutela, alla capitolina la valorizzazione e la gestione), sono all’ordine del giorno.
Ne sa qualcosa, per esempio, chi è alle prese con la ristrutturazione del grande palazzo di Fendi a picco sull’arco di Giano al Velabro, che dovrebbe diventare un centro per le arti.
Mentre la sola decisione di dove mettere la biglietteria di quella parte del Circo Massimo visitabile a pagamento ha fatto discutere per un anno e mezzo.
Va da sè che la cosa più sensata sarebbe quella di fondere le due strutture, ovviamente in quella nazionale.
Ma qui il buonsenso si scontra sempre con il nonsenso. E ha quasi sempre la peggio.
Il fatto è che una Soprintendenza unica presupporrebbe un unico padrone. Il che, dicono, non è praticabile: per cedere il proprio patrimonio al demanio statale, il Comune dovrebbe ricevere dei soldi in cambio. Svariati miliardi.
Qualcuno aveva anche ipotizzato, in passato, che lo Stato si accollasse i debiti del Campidoglio. Un’ipotesi, appunto. Quindi irrealizzabile
Finchè un bel giorno il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini e il sindaco di Roma Ignazio Marino hanno un’idea.
Creare un consorzio fra le due Soprintendenze, almeno per un pezzo del patrimonio, dai Fori alla Domus Aurea.
Il progetto viene presentato il 21 aprile 2015: giorno simbolico, perchè anniversario del Natale di Roma.
Deve essere una mossa per sperimentare finalmente l’unità d’intenti, ma subito le cose non filano lisce.
Prima le discussioni sulle quote del consorzio: quanto al Comune e quanto allo Stato? Poi gli equilibri di potere: se il presidente spetta alla Soprintendenza nazionale, perchè quella capitolina non può esprimere il direttore generale?
Le trattative durano mesi, ma quando si arriva al dunque ecco le dimissioni di Marino. E il consorzio finisce su un binario morto.
Il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca ha ben altre rogne, e si deve occupare dell’ordinaria amministrazione. Nè la sindaca Virginia Raggi si adopera per sbloccare la situazione
Gli accordi fra Marino e Franceschini prevedono la data limite del 31 dicembre 2015 per l’approvazione dello statuto.
Siamo oltre metà di ottobre 2016 e non c’è una riga. Segno evidente che il progetto si può considerare morto e sepolto. Qualcuno potrà giudicarlo perfino un bene. Il consorzio avrebbe forse finito per rappresentare addirittura una terza Soprintendenza. Follia bis
Non che quello che sta accadendo, in ogni caso, sia accettabile.
In un Paese serio le cose non sarebbero andate così. Questo inconcepibile dualismo non ci sarebbe mai stato.
E in caso contrario l’avrebbero curato da un pezzo
Sergio Rizzo
(da “il Corriere della Sera“)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
LE MISURE DELLA FINANZIARIA NON AIUTANO LA LOTTA ALL’EVASIONE… IN 15 ANNI SU DEBITI FISCALI ACCERTATI DI 1.058 MILIARDI SONO REALMENTE RISCUOTIBILI SOLO 51 MILIARDI
Sostiene Matteo Renzi: «Accusare questo governo di favorire l’evasione fiscale è come dire a quelli del Real Madrid che non sanno cos’è la Champions League». Ha ragione il premier.
Rispetto al Ventennio berlusconiano (quello della depenalizzazione del falso in bilancio, dei condoni e degli scudi fiscali) persino il biennio renziano sembra il Terrore di Robespierre.
Ma deve esserci un residuo di cattiva coscienza, se il presidente del Consiglio sente il bisogno di ricorrere a questa ardita metafora calcistica nel giorno in cui vara questa manovra economica, i cui punti qualificanti, dal lato delle entrate, sono la rottamazione di Equitalia (che sulla carta vale 4 miliardi) e la riedizione della “volontary disclosure” sui capitali all’estero (che vale 2 miliardi).
Dal punto di vista tecnico non si possono definire un “colpo di spugna”. Ma dal punto di vista etico non si possono considerare un incentivo alla fedeltà fiscale.
E allora, molto banalmente, sarebbe opportuno porre un paio di domande al presidente del Consiglio.
La prima domanda è: la stiamo giocando davvero, la Coppa dei campioni dell’evasione?
La risposta, purtroppo, non è confortante.
Secondo l’Istat nel 2014 il valore aggiunto delle attività sfuggite al fisco e agli enti di previdenza ha raggiunto i 211 miliardi (il 13% del Pil). Secondo la Commissione Giovannini tra il 2010 e il 2014 il “tax gap” (cioè la differenza tra quello che l’Erario avrebbe incamerato se tutti i contribuenti avessero versato il dovuto, e quello che ha effettivamente messo in cassa) ha superato gli 88 miliardi. Di questi, solo 39,5 riguardano l’Iva
Se questi sono i dati, siamo in serie B. È evidente che in questi devastanti otto anni di crisi globale si è venuta a creare anche una forma di “evasione di sopravvivenza” di categorie più deboli, che non può essere giudicata e trattata allo stesso modo.
Ma è altrettanto evidente che l’evasione cresce comunque, e le strategie di contrasto si rivelano insufficienti
Renzi rivendica un “bottino” di 15 miliardi recuperati. Ma i dati del Nens dimostrano che «il recupero di gettito derivante dall’attività di accertamento “sostanziale” rappresenta solo poco più della metà del totale, mentre l’altro 50% deriva dalla semplice correzione di irregolarità formali (errori di calcolo, versamenti non tempestivi…)».
E la Corte dei conti aggiunge che nell’ultimo anno sono calati i controlli ed è sceso il “ricavato medio” degli accertamenti, pari ad appena 1.550 euro
Dunque, non stiamo smascherando i veri ladri.
Quelli che, come ha denunciato il capo della Procura di Milano Francesco Greco, «hanno nascosto nei paradisi fiscali un tesoro da 200-300 miliardi, di cui almeno 150 liquidi».
Non stiamo facendo una lotta senza quartiere contro i disonesti che, non pagando niente, costringono gli onesti a pagare troppo.
Anzi, ai grandi evasori concediamo di riportare i soldi a casa, saldando imposte e sanzioni (e ci mancherebbe), ma senza pagare dazio penale (altrimenti si guarderebbero bene dal rimpatriare i capitali).
E a tutti gli altri evasori (medi e piccoli) concediamo altre “innocenti evasioni”, legate a un uso libero del contante fino a 3 mila euro, che fatalmente facilita transazioni in nero e riciclaggi di denaro sporco
Ora, a questa legislazione in fondo non già così severa, si aggiungerà la chiusura di Equitalia e la sanatoria delle relative cartelle. «Basta con le vessazioni», dice Renzi.
E qui arriviamo alla seconda domanda, che ha un risvolto quantitativo (sono credibili le cifre sul recupero di evasione del prossimo anno, che dovrebbero coprire una manovra da ben 27 miliardi?) e qualitativo (insieme all’acqua sporca, l’esattore cattivo, non rischiamo di buttar via il bambino, la fedeltà fiscale?).
Anche in questo caso, le risposte non sono rassicuranti.
Nella Nota di aggiornamento al Def il ministro Padoan prevede già da quest’anno una flessione, in valore assoluto, del ricavato dalla lotta ai furbetti delle tasse.
«La stima degli incassi le rimanenti attesi per il 2016», si legge nel testo, «ammonta a 12,4 miliardi». Molto meno dei 15 miliardi assicurati dal premier.
Con tutta evidenza, i numeri di questa manovra ballano. Per avere un quadro più chiaro occorrerà aspettare i testi. Certo, a quarantotto giorni dal referendum il decreto sulla rottamazione di Equitalia è una mossa di facile suggestione elettorale, ma di difficile giustificazione sociale.
Molti italiani saranno contenti, perchè tra imposte, tributi e multe, non c’è un normale cittadino che in questi anni non sia incappato nelle maglie di Equitalia, dei suoi metodi in molti casi “sbrigativi” e dei suoi aggi in qualche caso proibitivi.
Ma gli italiani devono anche sapere che le tasse devono pagarle tutti, perchè altrimenti continueremo a pagarne troppe.
E qualcuno dovrà pur continuare a riscuoterle, qualunque sia la sua ragione sociale
Chiudiamo pure Equitalia, dunque. Ma non prima di aver abbattuto un Moloch intollerabile.
Tra il 2000 e il 2015 i debiti fiscali cumulati dai contribuenti (tra tributi mai versati, ritardati pagamenti, errori formali e così via) hanno raggiunto la cifra monstre di 1.058 miliardi.
Di questa spaventosa montagna di denaro Equitalia considera realisticamente “riscuotibili” appena 51 miliardi.
Non solo perchè molti contribuenti debitori nel frattempo sono spariti, falliti o periti. Ma anche per le leggi di favore, le esenzioni, le sanatorie, gli sgravi e i contenziosi infiniti di tutti questi anni.
Sarebbe doveroso sciogliere questo colossale grumo di malcostume e di malaffare. Non è solo questione di legalità , ma anche di equità .
Un valore che dovrebbe stare molto a cuore alla sinistra. Persino a quella “moderna” e post-ideologica che Renzi vuole incarnare.
Se non facciamo questo, non sapremo mai cos’è la Champions.
Massimo Giannini
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
DONNA DI AFFARI INTERPELLA ALTA CORTE, SENZA IL VOTO DEL PARLAMENTO NON E’ VALIDA, ORA LA LEGGE RISCHIA
Gina Miller è abituata alle missioni impossibili. 
Insieme al marito ha creato uno dei fondi di investimento più ricchi di Gran Bretagna, poi ha fatto causa all’industria dei fondi di investimento sostenendo che certe speculazioni sono troppo opache.
Abbandonati i fondi si è impegnata a tempo pieno nella beneficenza, poi ha fatto causa al settore della beneficenza affermando che spende troppi soldi per funzionari e uffici, non abbastanza per aiutare i poveri.
E una volta che si è stufata di tutto, ha cambiato radicalmente vita, girovagando tre anni con consorte e figli per l’America Latina.
Ma la sua più grande sfida è l’ultima: nei giorni scorsi la 51enne businesswoman britannica di origini sudamericana (è nata in Guyana) ha presentato ricorso all’Alta Corte di Londra contro la decisione del primo ministro Theresa May di invocare l’articolo 50 del trattato europeo nel marzo prossimo, il meccanismo che metterà in moto la secessione del Regno Unito dall’Unione Europea, senza sottoporre il procedimento a un voto del Parlamento.
Se il ricorso verrà accolto dai giudici, la premier dovrà affrontare una votazione alla camera dei Comuni e a quella dei Lord, spiegando che tipo di Brexit vuole realizzare, e potrebbe verosimilmente essere sconfitta.
A quel punto il governo dovrebbe cambiare strategia e tutto sarebbe possibile: un Brexit meno “hard”, per esempio restando dentro al mercato comune (e dunque mantenendo la libertà di immigrazione), un nuovo referendum, elezioni anticipate. Magari, in ultima analisi, niente più Brexit.
La sfida di una donna fino a ieri relativamente poco conosciuta alla donna più conosciuta del regno (a parte la regina) ha qualcosa di eroico, quasi cinematografico, alla Davide contro Golia.
“Mi sono svegliata la mattina dopo il referendum del giugno scorso come dentro un incubo”, racconta Gina Miller, che aveva votato perchè il suo paese rimanesse nella Ue.
E l’incubo è peggiorato, dal suo punto di vista, quando si è resa conto che la nuova premier May ha deciso praticamente da sola, insieme a un pugno di ministri radicalmente euroscettici, non soltanto di portare la Gran Bretagna fuori dalla Ue ma anche fuori dal mercato comune europeo, promettendo di ristabilire la totale “indipendenza e sovranità parlamentare” britannica, a suo parere violata fino ad ora dalle leggi europee che vi si sovrappongono.
Sono in tanti a criticare la scelta di Downing street: parlamentari dell’opposizione e dello stesso partito conservatore, finanziari e banchieri della City, commentatori sui giornali.
Nessuno, tuttavia, ha avuto l’idea di mettere un ostacolo concreto, sulla strada di Theresa May: una sentenza dell’Alta Corte.
Ci ha pensato Gina Miller, rivolgendosi a uno dei più prestigiosi studi legali della capitale. Le sue argomentazioni sono di due tipi.
Una prettamente legale: il governo sostiene di non avere bisogno di un voto del parlamento, nonostante il referendum fosse sulla carta soltanto “consultivo”, in virtù di un’antica “royal prerogative”, un diritto reale di agire senza necessità di approvazione parlamentare.
Insostenibile, a suo parere, nel caso di una decisione storicamente importante come quella di portare il Regno Unito fuori dalla Ue.
La seconda argomentazione è più politica, o se vogliamo etica: sarebbe ben strano voler ristabilire la “sovranità parlamentare” britannica, rifiutandosi però di ascoltare l’opinione in materia del Parlamento.
Adesso la premier afferma che perlomeno lo “ascolterà ”, avendo accettato, dopo un iniziale rifiuto, un dibattito su Brexit ai Comuni: ma dovrà essere un dibattito senza un voto, secondo Downing street.
E così le due donne finiranno per affrontarsi simbolicamente all’Alta Corte, ciascuna rappresentata da uno stuolo di avvocati:
Gina Miller contro Theresa May. In una nazione in cui la separazione dei poteri è ben netta, e dove anche un comune cittadino può sfidare le più alte cariche dello stato, in teoria è possibile che la businesswoman della Guyana sconfigga la premier conservatrice
Non è l’unico ostacolo sulla strada di Brexit per Theresa May.
In verità se ne aggiungono di nuovi tutti i giorni. Un altro è il calo della sterlina, che punisce i consumatori e farà aumentare l’inflazione, prevede la Banca d’Inghilterra. Un altro ancora è venuto fuori stamane: il premier irlandese Enda Kenny ammonisce sui “gravi danni” economici e politici che verrebbero causati da un “hard Brexit”, ovvero dall’uscita della Gran Bretagna da Ue e mercato comune.
Dagli accordi di pace del 1996, sull’Isola di Smeraldo non c’è più un confine fra repubblica irlandese e “provincia” britannica dell’Irlanda del Nord: ma il confine, se l’Irlanda del Nord, in quanto parte della Gran Bretagna, si ritrovasse completamente fuori dall’Europa, verosimilmente tornerebbe a esistere, creando complicazioni non soltanto commerciali.
Il pericolo maggiore sarebbe la recrudescenza del conflitto fra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord. Nella quale, non a caso, proprio ieri Gerry Adams, leader dello Sinn Fein, il partito cattolico secessionista che vuole la ricongiunzione dell’Irlanda del Nord con l’Irlanda, ha chiesto formalmente che l’Irlanda del Nord (in cui, nel referendum su Brexit, un’ampia maggioranza ha votato per restare nella Ue) possa restare almeno dentro al mercato comune europeo.
La stessa richiesta fatta nei giorni scorsi da un’altra regione autonoma britannica che nel referendum ha votato per restare nella Ue: la Scozia, che in caso contrario medita di organizzare un nuovo referendum sull’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Uno scenario che vedrebbe Scozia e Irlanda del Nord nel mercato comune ma non nella Ue (come la Norvegia), mentre Inghilterra e Galles sarebbero fuori da tutto. Ammesso che Bruxelles sia d’accordo, ma anche questo è difficile se non impossibile: la Spagna già minaccia di mettere il veto, per non creare precedenti in cui la Catalonia possa raggiungere accordi separati per contro proprio.
In questo calderone di ipotesi si inserisce pure la rivelazione di oggi del Financial Times, secondo cui il governo May, contrariamente a quanto promesso dai “brexitiani” nella campagna referendaria, continuerebbe a versare miliardi di sterline al budget della Ue per mantenere l’accesso al mercato comune soltanto in certi settori chiave dell’economia, come la finanza e l’automobile.
Una sorta di mercato comune “alla carta”, questo piatto sì e quest’altro no, su cui è da tutto da vedere cosa pensi Bruxelles.
Se fosse realizzato, Brexit sarebbe un puzzle ancora più contraddittorio e confuso: la City e la città di Sunderland (la città in cui tutto dipende dalla locale fabbrica della Reanult/Nissan) dentro il mercato comune europeo, il resto dell’economia nazionale fuori.
Un situazione da far girare la testa. E la trattativa su Brexit non è neanche ancora cominciata.
Nemmeno comincerà , probabilmente, se Gina Miller batte Theresa May all’Alta Corte.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
GLI EX VENDOLIANI STEFANO E URAS LANCIANO LA PROVOCAZIONE, RIVOLGENDOSI ALLA SINISTRA INCERTA
E nasce anche il “libero comitato del So”.
Dario Stefà no e Luciano Uras, senatori eletti nelle file vendoliane di Sel (ma ora nel gruppo mistro), hanno lanciato la provocazione in vista del referendum costituzionale del 4 dicembre: “Sulla costituzione dei comitati del Sì e del No di ispirazione partitica ci siamo espressi senza riserve, convinti come siamo che non aiuteranno la discussione con e tra i cittadini, all’interno delle nostre comunità territoriali. Siamo favorevoli invece — permettete il gioco di parole — ai liberi comitati del So, perchè lo spazio pubblico di questo appuntamento elettorale non deve e non può essere esclusivo appannaggio dei partiti e dei movimenti politici o dei loro rispettivi rappresentanti”.
Una provocazione accompagnata però da un documento, che sarà inviato alla sinistra ancora incerta.
A quelli che ormai sono chiamati l’armata del “forse”, soprattutto del “forse Sì” e che vede arruolati Fabrizio Barca, ex ministro della Coesione, e il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda.
Anche Giuliano Pisapia, leader della Sinistra ed ex sindaco di Milano, ha anticipato che “non sta dalla parte del No”.
La variabile “cambiamento dell’Italicum”, la legge elettorale, fa la differenza.
Però si è capito che eventuali modifiche dell’Italicum non ci saranno concretamente se non dopo il referendum.
La sinistra dem di Speranza, Cuperlo e Bersani sta trattando sulla legge elettorale per evitare un No al referendum già annunciato: tra oggi e domani ci sarà la riunione della commissione Guerini — quella insediata dopo la direzione del Pd del 10 ottobre — dove si confrontano i capigruppo Ettore Rosato e Luigi Zanda, il presidente del partito Matteo Orfini e Gianni Cuperlo.
Scetticismo su un patto politico che scongiuri la frattura nel Pd.
Il fronte politico del “forse”, a 48 giorni dal referendum, non si è assottigliato.
Stefà no è convinto che si va al contrario ingrossando e che a sinistra molti sono tentati dal Sì. Scrive nella lettera aperta: “Noi ci iscriviamo allo stesso partito di Giuliano Pisapia, quello che non accetta che il confronto sulla revisione costituzionale, si trasformi in uno scontro mortale tra le diverse anime del campo democratico e progressista, a danno della prospettiva di un governo avanzato del paese, nel più ampio interesse popolare”.
Barca in un blog di qualche settimana fa, non più aggiornato, usa la metafora dell’Elefante e del Cavaliere per parlare del conflitto tra sentimento e ragione.
Il Cavaliere “sa guardare lungo e intravede rischi e opportunità “. Nel caso specifico, della riforma costituzionale, esaminati uno a uno i pro e i contro, il saldo è pari, “”giudizio di invarianza””.
Conclusione: andate a votare, anche forse.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
L’ESITO DEI SEI REFERENDUM SULL’ACCORPAMENTO DEI PICCOLI COMUNI
Subisce una battuta d’arresto il processo di fusione tra i piccoli comuni dell’Emilia Romagna. Dopo che in
passato i precenti otto referendum avevano tutti dato esito positivo, le sei consultazioni popolari in calendario ieri sono state perlopiù bocciate dall’elettorato.
Il caso più “celebre” è quello di Bettola, nel piacentino: il paese natale di Pierluigi Bersani doveva fondersi con Farini e Ferriere, ma i cittadini a larghissima maggioranza (1.577 contro 807) hanno detto no, grazie.
E’ andata peggio a un altro protagonista della Seconda Repubblica: Gianfranco Fini, il padre di Alleanza Nazionale.
Mirabello, in provincia di Ferrara, dove ogni anno era solito radunare i suoi seguaci, cambierà nome e confluirà , insieme alla vicina Sant’Agostino, in un soggetto più grande ribattezzato Terre del Reno.
I voti sono stati 1.654 a 1.254 a favore del sì.
Cambieranno ragione sociale anche Mondaino, Saludecio e Montegridolfo, in provincia di Rimini, e si chiameranno Trecastelli di Romagna (1.256 sì e 824 no)
Mentre si sono ribellati al trend degli ultimi anni gli abitanti delle altre località destinate a fondersi: Fontanelice, Casalfiumanese e Borgo Tossignano nel bolognese (1.377 sì e 1.606 no); Vigolzone e Ponte dell’Olio, nel piacentino (1.436 sì e 2.121 no); e Sant’Ilario, Gattatico e Campegine, nel reggiano (3.705 sì e 4.594 no).
Ora, per diventare operative, le due fusioni approvate dovranno essere recepite da una apposita legge regionale
(da “La Repubblica”)
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