Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
MANDA UNA DIFFIDA A REPORT… LA GABANELLI: “ANDRA’ IN ONDA”
Un bagno chimico privato pagato 5600 euro da Poste italiane e le contestazioni sulla carriera nell’azienda.
Il fratello di Angelino Alfano vuole bloccare il servizio di Report su Rai3, in onda questa sera, in cui il giornalista Giorgio Mottola racconta del suo privilegio ottenuto nella direzione “Sud 2”.
Domenica 16 ottobre Alessandro Alfano, il parente del ministro dell’Interno ha inviato personalmente una diffida per chiedere che le sue dichiarazioni, “ottenute contro la mia volontà e da una persona che non si è qualificata come giornalista”, non siano trasmesse:
“Vi ricordo”, ha aggiunto, “che compito del servizio pubblico nazionale è quello di informare, non creare tesi diffamatorie“. La conduttrice Milena Gabanelli ha replicato: “Le assicuro che andrà in onda e avrà modo di sentire che il collega si è presentato con nome e cognome e qualifica”.
Al centro del servizio tv c’è la sua contestata carriera come dirigente delle Poste, ma non solo.
Nel pezzo, come racconta Repubblica che ha potuto vederlo in anteprima, si racconta di un bagno chimico che Alessandro Alfano si è fatto costruire ad hoc nel suo ufficio. Dopo aver valutato tubature e struttura, il dirigente responsabile ha dovuto accontentarsi di un bagno chimico e non in muratura.
La richiesta è costata, sempre secondo Report, 5600 euro all’azienda durante i lavori dell’adeguamento della sede del 2016.
L’intervista che Alfano si rifiuta venga mandata in onda è stata raccolta davanti al suo ufficio di dirigente responsabile.
Il giornalista ha chiesto spiegazioni ad Alfano junior anche in merito alla sua assunzione nel 2013, attualmente al vaglio della Corte dei conti come raccontato dal Fatto Quotidiano.
Nella relazione inviata dalla Procura di Roma si spiegano le tappe della sua carriera sulla base degli elementi emersi nell’inchiesta Labirinto che vede indagato l’uomo vicino ad Angelino Alfano Raffaele Pizza (arrestato il 6 luglio scorso).
Proprio lui, in una intercettazione del 2015, diceva al collaboratore del ministro Davide Tedesco di aver permesso l’assunzione di Alfano junior grazie ai suoi rapporti con l’ex amministratore di Poste Massimo Sarni: “Lui come massimo (di stipendio, ndr) poteva avere 170mila euro e io gli ho fatto avere 160mila. Tant’è che Sarmi stesso gliel’ha detto ad Angelino: ‘Io ho tolto 10 mila euro d’accordo con Lino’ (Pizza, ndr), per poi evitare. Adesso va dicendo che l’ho fottuto perchè non gli ho fatto dare i 170 mila”.
Ma non è la sola macchia nella carriera di Alfano: nel 2009 ha ottenuto la laurea triennale in Economia e commercio, ma nel 2011 finisce indagato insieme a trenta studenti con l’accusa di aver pagato un’impiegata della segreteria per far inserire nel database esami mai sostenuti.
La sua posizione verrà poi archiviata. Poi c’è la questione del concorso vinto per diventare segretario generale della Camera di Commercio di Trapani (mettendo nel curriculum una carica in Confindustria mai ricoperta), esito che era stato predetto da un esposto anonimo che lo costringerà alle dimissioni.
Anche di questo il giornalista di Report ha chiesto spiegazioni ad Alfano junior, che ora chiede sia bloccato il servizio.
“Non si tratta di una mia intervista”, ha detto in una nota, “ma di dichiarazioni che sono state registrate da un soggetto che non si è in alcun modo qualificato come giornalista e riprese da una telecamera inizialmente occultata. Metodologia che sicuramente non risponde ai canoni professionali del giornalista e, ancor più grave in questo caso, del servizio pubblico”.
Il fratello del ministro ha quindi chiesto “di non mandare in onda dette dichiarazioni poichè le stesse sono state ottenute contro la mia volontà e non sono accompagnate dal alcuna mia dichiarazione liberatoria. Qualora mi fosse stata richiesta un’intervista l’avrei senz’altro rifiutata in pieno ossequio alle direttive aziendali che regolano la comunicazione esterna dei dirigenti di Poste Italiane. Solo il rispetto di questi obblighi, quindi, mi impedisce di entrare nel merito, in questa sede, delle infamanti e non veritiere accuse che mi vengono mosse con il citato servizio televisivo”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
“NON HO FATTO L’ATTIVISTA DAL 2005 PER VEDERE IL MOVIMENTO TRASFORMARSI IN QUESTO MODO”
Incredibile: c’è vita su Marte. Nel Movimento cinque stelle è in corso la Rivolta contro Luigi Di Maio; la prima vera rivolta organizzata dentro il gruppo parlamentare, cioè con delle truppe, dei colonnelli, anche se di aree interne differenti, forse un po’ troppo tra loro, e un capo: Roberto Fico.
Che tra i due, il napoletano e il giovane di Pomigliano d’Arco, le distanze politiche fossero ormai enormi era chiaro, ma i contenuti, i personaggi, le frasi sprezzanti, e tantissimi dettagli inediti della rivolta in corso sono adesso rivelati nel terzo e ultimo capitolo di lancio di Supernova.
Come è stato ucciso il Movimento cinque stelle (il libro di Nicola Biondo e Marco Canestrari, il primo per un anno e mezzo capo della comunicazione M5S alla Camera, e assai stimato da Gianroberto Casaleggio, il secondo web developer che ha lavorato 4 anni in Casaleggio, e era l’uomo che accompagnava fisicamente Grillo nei primi Vday. Il libro uscirà tra due mesi e si finanzia in crowdfunding sul sito www.supernova5stelle.it).
Insomma, per la prima volta è in corso un’operazione politica che vorrebbe riportare il Movimento a qualcosa dei suoi esordi e della sue premesse.
L’apparente ritorno in campo di Grillo – dalla kermesse di Palermo in poi – è stato solo una recita, che provava a ricompattare truppe ormai molto divise. Sono tante, le facce della rivolta, anche di aree politiche molto diverse e quasi incompatibili, all’apparenza; da Fico, il leader integro, alle ex talebane Paola Taverna e Roberta Lombardi, messe da parte e accantonate, alla pasionaria Carla Ruocco, di fatto una portavoce informale di Grillo, molto delusa per gli andazzi e i comportamenti del giro Di Maio.
Soprattutto, la Rivolta anima tanti parlamentari del nord, alcuni tra i più seri militanti e tra i parlamentari più competenti. Il punto debole è la loro eterogeneità : cosa li tiene insieme? Hanno un disegno?
Processo a Di Maio
Secondo Biondo e Canestrari, Grillo è ormai «solo una statuina di questo presepe, ma la trinità è un’altra». Ossia: Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista (che, nonostante l’apparente differenza caratteriale da Di Maio, opera ormai in simbiosi totale con lui) e Davide Casaleggio, il figlio di Gianroberto che ha ereditato le chiavi dell’azienda e, soprattutto, fonda (a suo nome) e gestisce l’Associazione Rousseau, alla quale è intestato il blogdellestelle (che non è più, neanche terminologicamente, il blog di Beppe Grillo).
Di fronte a questa triade e alla sua smania di potere, scrivono i due autori, «per la prima volta succede che nel Movimento vengono a galla malumori. E non sono lamentele solitarie.
Molti parlamentari, anche agli antipodi tra loro, cominciano a vedersi e a riunirsi, scoprendo di avere in comune un malessere che non può essere più taciuto».
Il «Gallo Cedrone»
Nell’ex direttorio, Roberto Fico, Carla Ruocco e Carlo Sibilia praticamente non si parlano più con Di Maio e Di Battista (che, leggiamo in Supernova, si conquista il soprannome di Gallo Cedrone da parte dei suoi colleghi parlamentari).
Nel mirino finiscono gli incontri di Di Maio con ambasciatori, direttori, lobby. «“Io vorrei sapere – accusa un deputato del nord – una cosa: Luigi ha mai informato qualcuno dei suoi incontri? Li organizza a titolo personale? Chi lo aiuta? Questo non è il Movimento, è diventato un trampolino di lancio personale…”».
Un altro parlamentare si sfoga, raccontando che ormai imbarazza anche il gruppo parlamentare il livello di acquiescenza di tanti media verso i cinque stelle: «Ma è possibile che prima avevamo tutti i giornalisti che ci criticavano e adesso nessuno dice niente di fronte certe cose?».
Il caso Spadafora
Il riferimento, spiegano gli autori, è al caso clamoroso di Vincenzo Spadafora, uno degli uomini per cui Di Maio è più attaccato: «Ma chi è questo Spadafora, chi lo ha portato qui? L’avete letta l’intercettazione che lo riguarda? In altri tempi Grillo questi personaggi qui li prendeva per il culo sul palco e adesso invece ce li prendiamo noi…», sbottano i rivoltosi.
Spadafora era spuntato intercettato, anche se non indagato, anche con Balducci ai tempi delle indagini sulla Cricca.
E Di Maio che fa? Lo prende e ne fa uno degli uomini più potenti del suo staff.
Nella Rivolta c’è chi critica i soldi usati dal vicepresidente della Camera, apprendiamo dal libro: «E i centomila euro in tre anni rendicontati da Luigi come “eventi sul territorio”? Questa è costruzione di una corrente altro che attività politica, e pure con i soldi pubblici…”».
Cene e riunioni
Cene, riunioni quasi assembleari ma anche al chiuso delle stanze dei rivoltosi. Dentro il gruppo parlamentare M5S Di Maio è in un momento di massima debolezza. Leggiamo nel libro: «Troppe bugie, troppe fughe in avanti per continuare a fare da semplici comparse. Luigi che non condivide nulla dei suoi incontri e delle sue conoscenze. Luigi che non affronta i problemi territoriali, da Quarto a Pizzarotti. Luigi con una struttura di comunicazione parallela e uno staff personale. Ecco perchè il Direttorio va in frantumi. Perchè quando arrivano le difficoltà , quelle vere, il patto del silenzio viene meno e i nodi vengono al pettine».
Tutti guardano a Roberto Fico, perchè lui è il Movimento originario, è uomo disinteressato, un militante vero, antico, e con un rapporto diretto con Grillo.
Ma Fico è scorato, perchè già si è rivolto a Grillo, ma ottenendo questo magrissimo e elusivo contentino: «Sapete cosa mi ha risposto Beppe? – confessa agli amici più cari – Ci riuniamo in una stanza tu io e Luigi, voi vi dite le cose che vi stanno sullo stomaco e poi riprendiamo a lavorare».
Eppure Roberto è deciso ad andare avanti, scrive Supernova. Non vuole vedere il Movimento trasformarsi in quello che diceva di non essere: un partito, e nelle mani di comportamenti arrivisti e gruppi di pressione esterni, e opachi.
È così che il presidente della Vigilanza Rai, in una delle riunioni della Rivolta, si spinge a dire: «Comunque vada, non mi ricandido. Non ho fatto l’attivista dal 2005 per vedere il Movimento trasformarsi in questo modo. Devo fare il possibile…», confessa ai suoi.
E in ogni caso, chiarisce, «qui dopo due mandati andiamo tutti a casa». Segno che c’è stato eccome – scrivono Biondo e Canestrari – chi ha pensato e tentato di mettere in discussione quella regola, che è il totem del Movimento.
Grillo diventa ago della Bilancia. Certo, le foto in cui si mostra al funerale di Dario Fo accanto solo alla triade Di Maio-Davide Casaleggio-Di Battista non sembrano un viatico incoraggiante per i rivoltosi M5S.
Il capitolo si chiude così: «Fino a che prezzo Grillo è disposto a tollerare questa “rivoluzione a metà ”, per usare le parole di Fico? Quanto è prigioniero della leadership di Luigi Di Maio? Da quale parte si schiererà ?»
Jacopo Iacoboni
(da “La Stampa“)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
POI SOSTIENE CHE SI SENTE “LA PUZZA DEL CESSO”, MA FORSE ERA IN RELAZIONE AI VISITATORI
Una ronda via Facebook in un condominio di Monza. Alla ricerca dei profughi ospitati sulla base di un intervento della prefettura.
Protagonista il segretario della Lega Matteo Salvini che, impugnato il telefono, guida un gruppo di militanti del Carroccio.
Inquadrature fugaci verso tutte le persone di colore che passano.
Tutto regolare e allora si passa alle tipiche sue considerazioni: “Messo bene, questo – uno dei commenti – scarpe Nike, bella maglietta. E noi paghiamo”.
Anche perchè quelli “messi male” sono affogati nel Mediterraneo, ma questo per lui non ha rilevanza.
Per un ex comunista padano prevale l’invidia sulle scarpe e sulle magliette che ai tempi in cui frequentava i centro sociali erano out.
Che siamo taroccate lo sa, ma ovviamente fa finta di nulla, serve far passare il messaggio che i profughi sono ricchi, qualche coglione che ci crede lo si trova ancora.
Un giovane si ferma e spiega educatamente di essere nigeriano. Un altro non si ferma. “Guarda quanti sono”, i commenti degli accompagnatori del leader della Lega. Incursioni abusive negli appartamenti.
Il blitz del leader del Carroccio però non regala particolari sorprese.
Entrando in uno degli appartamenti “contestati” Salvini trova alcuni migranti a un tavolo e un appartamento relativamente in ordine.
Le condizioni degli spazi comuni sono buone, le immagini si rivelano un autogol.
E allora Salvini punta sull’olfatto che non si può verificare:” la puzza del cesso si sentiva fino dalle scale”.
Qua possiamo anche crederci, ma probabilmente dipendeva dai visitatori.
(da agenzie)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
SINDACO SOMMERSO DAI PROBLEMI CON UNA GIUNTA PRECARIA E BASE IN RIVOLTA
“Risolvo problemi”. In un’intervista all’Espresso del 18 luglio 2014 Filippo Nogarin si presenta così, citando Mr Wolf di Pulp Fiction. Questo poco dopo essere stato eletto sindaco di Livorno l’8 giugno del 2014 vincendo con il 53% dei voti il ballottaggio contro Marco Ruggeri del Pd.
Un risultato incredibile: basti pensare che a Livorno viene fondato il Partito comunista italiano e nel dopoguerra non c’è mai stato alla guida della città un sindaco non legato al partitone rosso e ai suoi eredi.
Insomma, un risultato che rievoca il successo clamoroso di Giorgio Guazzaloca a Bologna nel 1999. Il macellaio bolognese, alla guida di una lista civica, sconfisse infatti al secondo turno Silvia Bartolini, candidata della sinistra. Sinistra (prima Pci, poi Pds) che sotto le Due torri regnava da sempre incontrastata. Una vittoria talmente eclatante che vide arrivare a Bologna le tv di tutto il mondo per documentare l’incredibile evento.
Lo stesso si può dire in un certo qual modo di Livorno.
Prima di tutto per la storia e le caratteristiche della città . Centro portuale per eccellenza, il porto di Livorno è il più grande della Toscana e uno dei più importanti d’Italia e del Mare Mediterraneo.
Dopo la liberazione del Paese nel 1945, il Partito comunista domina la politica cittadina grazie anche all’appoggio di una solida base operaia in gran parte impiegata nel porto.
La vittoria del Movimento 5 stelle è quindi clamorosa. Un po’ perchè è la seconda vittoria in un comune importante (prima c’era stata la conquista di Parma). E poi perchè va a prendersi una delle roccaforti rosse che mai, almeno nell’immaginario della sinistra, si pensava potesse cambiare colore.
“Risolvo problemi” dunque e mai frase sembra più profetica. Perchè per Nogarin i problemi non mancano e l’ultimo è arrivato soltanto la scorsa settimana, quando sul suo profilo Facebook ha annunciato di essere indagato per abuso di ufficio
E fin dal suo insediamento le grane che deve affrontare ricordano quelle che ha affrontato la giunta di Roma guidata da Virginia Raggi.
Subito si presenta il nodo della nomina degli assessori che vengono selezionati attraverso un bando e una scrupolosa analisi dei curricula.
Ne arrivano quasi un migliaio, tanto che la squadra di Nogarin non viene presentata tutta insieme il 30 luglio come promesso.
Quel giorno in una conferenza stampa vengono svelati solo due nomi dei sette previsti (alla fine saranno dieci). Sono Alessandro Aurigi all’Urbanistica e Simona Corradini alla Mobilità . Il colpo di scena arriva nemmeno 48 ore dopo: Corradini viene cacciata perchè già candidata a un’altra tornata elettorale in una lista civica tradendo così uno dei cardini del regolamento dei 5 stelle.
Fosse stato solo per il sindaco, probabilmente Corradini sarebbe ancora al suo posto. Ma sono la base e il gruppo consiliare che sostiene la giunta ad andare su tutte le furie e a far tornare sui propri passi il primo cittadino.
Addirittura l’assessore al Bilancio sarà nominato solo dopo Ferragosto. È solo la prima puntata delle frizioni tra Nogarin e il il gruppo M5s, che a tratti creano una situazione di assemblearismo permanente che non sempre si sposa con i tempi del governo della città
Ma oltre ai problemi di poltrone – che si ripresentano tra un rimpasto in giunta e dimissioni o cacciate nel gruppo di maggioranza che diventa sempre più risicata – ci sono anche quelli della città .
Prima di tutto il porto di Livorno, simbolo e prima industria della città dove il cantautore anarchico Piero Ciampi in una celebre canzone aveva lasciato il cuore. Dopo 60 anni è pronto il piano regolatore. Inizialmente Nogarin non vuole firmarlo e la maggioranza che lo sostiene è con lui.
Poi, “per responsabilità istituzionale”, la firma arriva con voto in aula del sindaco e del Pd. Contrario il MoVimento 5 stelle.
Non mancano poi i contrasti con il Pd che in regione continua a governare incontrastato con il presidente Enrico Rossi e che comunque per quasi 60 anni (con differenti nomi) è stato nella stanza dei bottoni del palazzo comunale.
Per esempio il no alla costruzione di un nuovo ospedale (266 milioni in project financing). Tra gli altri obiettivi cari ai 5 stelle, la giunta ha consentito la libera balneazione all’interno degli stabilimenti.
Un altro punto importante per Nogarin è il trasporto pubblico gratuito. Un traguardo ambizioso che inizia a essere sperimentato nelle corse serali dell’orario estivo 2016 e che potrebbe essere prorogato anche per la nuova stagione.
Ma il nodo più spinoso che deve affrontare Nogarin è quello della gestione dei rifiuti. Una questione che fa traballare la sedia del sindaco e che lo mette ancora una volta in contrasto con i suoi uomini.
I guai per il sindaco Nogarin iniziano il 7 maggio del 2016, quando il primo cittadino riceve un avviso di garanzia dalla procura di Livorno, nell’ambito dell’inchiesta su Aamps, l’azienda controllata al 100% dal Comune che gestisce la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti del capoluogo toscano.
Nogarin diventa così il primo sindaco a Cinque Stelle di una grande città a entrare nel registro degli indagati. Soltanto cinque giorni più tardi, la stessa sorte toccherà anche a Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, risultato sotto inchiesta della procura di Parma per le nomine al teatro regio. Indagine che poi verrà archiviata.
Nel pasticcio livornese in cui sprofonda il primo cittadino le colpe risalgono però prevalentemente alla gestione precedente dell’azienda, i cui vertici erano stati nominati dalle amministrazioni di Centrosinistra.
La società chiude infatti i bilanci 2014, anno dell’insediamento a giugno del sindaco pentastellato, con un rosso pesantissimo di oltre 20 milioni di euro. Abbastanza per gettare un’ombra anche sui conti precedenti, visto che l’esercizio precedente si era chiuso con un utile di 84 mila euro. Cosa è successo in un solo anno per fare sprofondare così i conti?
Nogarin c’entra poco o nulla. O meglio non riesce a riportare in carreggiata un’azienda i cui conti avevano cominciato a sbandare pericolosamente prima del suo arrivo.
Quando si insedia, punta su Marco di Gennaro, ingegnere informatico senza esperienza nel settore, e lo nomina amministratore unico. “Sarà il nostro Steve Jobs”, assicura il sindaco nell’agosto 2014. Durerà soltanto sette mesi, declassato prima a membro del nuovo cda per poi essere silurato definitivamente un anno più tardi nel pieno della tempesta sulla municipalizzata.
I conti, si diceva.
I problemi iniziano già a novembre 2015, quando il collegio dei revisori dà parere negativo all’approvazione del bilancio 2014, per cui il cda stimava una perdita di 21,3 milioni di euro.
Un quadro definito dai revisori “non veritiero”. Sullo stato di salute finanziario dell’azienda pesano però come un macigno almeno 11 milioni di crediti non riscossi relativi alla ex Tia, ora Tari. In pratica, bollette di rifiuti mai pagate e che l’azienda negli anni non era stata in grado di riscuotere.
Anzichè colmare le perdite di esercizio con nuove risorse fresche, Nogarin a luglio aveva deciso di spalmare sulla nuova Tari quanto non incassato in precedenza, con un aumento per tre anni della tassa sui rifiuti.
Intanto però la situazione precipita. Nogarin dà il via libera definitivo al Bilancio dell’anno passato dopo essersi scontrato alcune settimane prima con il voto contrario della sua stessa maggioranza e a fine mese, dopo avere prima prospettato l’ipotesi di una maxi ricapitalizzazione, ottiene invece dall’assemblea con un solo voto di vantaggio il via libera a presentarsi all’assemblea dei soci di Aamps con la richiesta di un concordato preventivo in continuità aziendale..
Una prospettiva che gela i lavoratori i lavoratori della municipalizzata che iniziano così un pesante braccio di ferro con l’amministrazione e che verrà definitivamente accolta dal tribunale fallimentare nel luglio di quest’anno, con la nomina anche del commercialista Fabio Serini come commissario giudiziale.
Nel frattempo il sindaco autorizza la stabilizzazione di 33 precari all’interno dell’azienda. Sarebbe proprio questo atto al centro delle contestazioni mosse dai magistrati al primo cittadino, che con un post su Facebook ammette pubblicamente di essere stato raggiunto da un avviso di garanzia che configura l’ipotesi di reato, quella per bancarotta fraudolenta.
Secondo il Tirreno però il primo cittadino sarebbe iscritto nel registro degli indagati per altre due ipotesi di reato, Falso in Bilancio e abuso d’ufficio. Reato, questo, per cui effettivamente il sindaco ha dichiarato di essere indagato soltanto la scorsa settimana insieme all’assessore Gianni Lemmetti.
Dai tempi della giustizia, purtroppo non sempre rapidi in Italia, e dai rigidi regolamenti del Movimento 5 stelle, è a questo punto legato il futuro di Nogarin che nella primavera del 2017 arriverà al giro di boa del suo primo mandato. Forse.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
DOVEVA ESSERE UNA BRILLANTE OPERAZIONE ANTIDROGA, MA LA COCA NON VENNE TROVATA, DI QUI LE BOTTE… L’IPOTESI SU CUI STA LAVORANDO LA PROCURA DI ROMA… IL PROF FINESCHI: “MORTE PER CEDIMENTO CARDIACO CONNESSO CON LE ENTITA’ TRAUMATICHE RICEVUTE”
Nel caso Cucchi due sole sono le cose certe: i segni del pestaggio e la morte.
Tutto il resto è stato avvelenato da bugie, depistaggi, verità di comodo.
Tuttavia, tra le carte e le testimonianze finora raccolte dagli inquirenti, concentrati sull’inchiesta bis sulla morte del ragazzo, c’è qualche indizio sulla genesi di quella violenza e in particolare sulla condotta dei carabinieri che hanno avuto in custodia Stefano la sera dell’arresto.
La procura della Capitale indaga infatti su cinque militari dell’Arma e ha raccolto testimonianze decisive per delineare il contesto in cui è maturata la violenza.
Il pestaggio più grave, infatti, andrebbe collocato subito dopo la perquisizione, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. E il movente, peraltro suggerito già nella sentenza di primo grado, è da rintracciarsi nella delusione per un’operazione non riuscita, con i carabinieri “infastiditi” dall’atteggiamento del giovane poco collaborativo.
L’ipotesi probabile insomma è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo
È questo lo scenario che emerge dalle informative in mano ai pm che da più di un anno lavorano alla nuova indagine.
E che gli stessi magistrati hanno tentato di approfondire durante gli interrogatori. Una dinamica di questo tipo spiegherebbe anche perchè non è mai stato fatto il fotosegnalamento, obbligatorio in caso di arresto. Foto e impronte mancanti, per nascondere i segni sul volto del ragazzo, già picchiato. Altro tassello mancante in una storia torbida di giustizia negata, dove persino una perizia, l’ultima, sul corpo di Cucchi genera ulteriori polemiche sulla probabile causa di morte.
Un esercizio di equilibrismo compiuto dai periti, in cui riconoscono le fratture delle vertebre, ma sostengono che Stefano potrebbe essere morto di epilessia
L’ipotesi probabile è che i carabinieri fossero convinti, nel fermare Cucchi, di trovare grossi quantitativi di droga nella sua abitazione: sarebbe stato questo mancato rinvenimento a provocare il pestaggio del ragazzo.
«LA COSA E’ ANDATA TROPPO OLTRE»
Il movente, dicevamo. Tracce del lavoro di ricostruzione dei pm ricorrono nel verbale dell’interrogatorio di un testimone chiave, l’appuntato Riccardo Casamassima.
Sarà lui ad accusare Roberto Mandolini (indagato per falsa testimonianza), all’epoca comandante della stazione Appia, quella da cui partirono i militari per arrestare Cucchi. Mandolini sapeva, sostiene il teste. Tanto da confessargli: «È successo un casino i ragazzi hanno massacrato di botte un arrestato».
E Casamassima, nel verbale del 30 giugno 2015, si spinge oltre: «Sembrerebbe una cosa preparata prima, cioè che i carabinieri sapevano che Cucchi aveva un quantitativo importante e lo cercavano a casa dei genitori, non trovando nulla per estorcergli hanno cominciato a menarlo».
Gli inquirenti insistono, gli chiedono di spiegarsi meglio: «Dottore è inusuale, quando io faccio più di un arresto durante l’anno per me diventa una cosa di routine, invece gente che non è abituata a fare questo tipo di attività si sono esaltati e può essere scattato qualcosa nella loro testa».
Infine, prima di chiudere il colloquio con il pm Giovanni Musarò, Casamassima aggiunge: «Il pestaggio di Cucchi era finalizzato a farsi dire dove era custodita la droga che i colleghi pensavano di trovare all’interno dell’abitazione».
Dichiarazioni che potrebbero diradare la nebbia di silenzi che avvolge il mistero della morte di Cucchi. E in effetti la droga Stefano ce l’aveva, ma non a casa dei genitori. La custodiva nell’appartamento a Morena. Un quantitativo importante, acquistato da poco
A consegnare i 900 grammi e passa di hashish e un etto di cocaina alla magistratura saranno i genitori del geometra romano venti giorni dopo la sua morte.
Dopo, cioè, essere stati nell’abitazione per recuperare gli effetti personali del figlio. Che qualche anomalia ci sia stata nell’operazione Cucchi, lo rivelano anche le contraddizioni nelle deposizioni dei carabinieri al centro dell’inchiesta della procura capitolina. P
ubblicamente escludono che l’arresto sia stato propiziato da confidenti. Privatamente, così emerge dai dialoghi intercettati, questa possibilità invece emerge.
Per esempio, Roberto Mandolini racconta di un esposto dei genitori delle scuole Appio Claudio in cui segnalavano un «giovanotto magro col cane che spacciava». Dice anche, Mandolini, che grazie a Cucchi, in passato, avevano fatto altri arresti fornendogli nomi di altri pusher. L’ex comandante fu sentito quale testimone nel primo processo. E sotto giuramento raccontò la sua versione: «C’era un clima particolarmente disteso e l’arrestato era persona tranquilla e spiritosa».
Tale idillio però è, secondo gli investigatori, in palese contrasto con quanto davvero accadde nei momenti successivi al fermo di Cucchi.
Il carabiniere scelto Stefano Mollica, in servizio alla stazione Casilina – dove Stefano Cucchi avrebbe dovuto fare il fotosegnalamento come da prassi – dice tutt’altro. Mollica è uno dei due militari incaricati di accompagnare Cucchi dalla caserma di Tor Sapienza, dove aveva trascorso la notte in cella, al tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. Ai giudici ha raccontato, ma lo ha ribadito di recente davanti ai pm di Roma, che «il rossore del viso di Stefano Cucchi faceva impressione, io non ho mai visto niente del genere in vita mia… camminava a fatica, era claudicante, stava malissimo era molto sofferente».
Dice, poi, che giunti al tribunale di piazzale Clodio, incontrano il collega Stefano Tedesco, uno degli autori dell’arresto e ora indagato nell’inchiesta bis.
Tedesco si è lasciato sfuggire un particolare – sostiene un altro appuntato quel giorno in compagnia di Mollica – cioè che Cucchi «era stato poco collaborativo al momento del fotosegnalamento». E sempre il collega di Mollica ha aggiunto: «Era evidente che aveva subito un pestaggio».
Il fotosegnalamento, come si diceva, non verrà mai eseguito: eppure nel verbale di arresto si legge «identificato a mezzo rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici».
Perchè Cucchi non viene fotografato? Nessuno risponde a questa domanda. Ma una delle ipotesi più probabili, al vaglio anche dei magistrati, è che Stefano era già stato picchiato violentemente. Per questo sarebbe stato meglio evitare foto che potevano diventare prove.
L’ipotesi che il movente del pestaggio sia da ricercare nella delusione dei militari per non aver trovato la grande quantità di droga che si aspettavano ha anche un sostegno giudiziario nella prima sentenza emessa sulla morte di Cucchi, quella che ha assolto gli agenti penitenziari.
I giudici della Corte d’Assise sono stati infatti i primi a ipotizzare, seppur quasi di passaggio, che «il Cucchi sia stato malmenato dagli operanti al ritorno dalla perquisizione domiciliare atteso l’esito negativo della stessa laddove essi si sarebbero aspettati di trovare qualcosa – l’operazione dell’arresto era stata propiziata da una fonte confidenziale – mentre il giovane aveva mantenuto una comprensibile reticenza circa il luogo dove realmente egli abitava». Ed è seguendo questo filo rosso che ora si stanno muovendo gli inquirenti che hanno messo sotto indagine i carabinieri.
QUELLE VERTEBRE FRATTURATE
Insomma, ci sono verità che il corpo livido e senza vita di Stefano Cucchi non potrà mai rivelare. Di quella drammatica notte del 15 ottobre 2009 molte cose restano ancora da chiarire. È in quelle ore che matura la fine di Cucchi.
Sono passate da poco le 23, in via Lemonia, periferia sudest di Roma. Stefano è arrivato da poco, ha appuntamento con Emanuele Mancini. Qui viene fermato mentre gli cede, per 20 euro, un pezzo di hashish.
Il verbale di arresto racconta di 20 grammi di fumo sequestrati, due dosi di cocaina e 2 pasticche di ecstasy. In realtà queste ultime non sono pasticche di droga, ma Rivotril per la cura dell’epilessia.
A quel punto gli agenti, su ordine del loro superiore maresciallo Roberto Mandolini, procedono alla perquisizione dell’abitazione dei genitori di Stefano, il cui indirizzo è segnato sul documento di identità del ragazzo. Lì sono convinti di trovare il resto della droga. Che, invece, non troveranno.
Ciò che accadrà dopo è un intricato castello di ipotesi e sospetti. L’unica certezza, da quel momento in poi, è che Cucchi viene picchiato.
Lo dicono i giudici, lo confermano almeno quattro carabinieri, lo dice anche l’ultima perizia tanto contestata che parla dell’epilessia.
Già , la perizia firmata Francesco Introna: frutto di dieci mesi di lavoro e che trascina dietro di sè non poche polemiche.
Il legale della famiglia Cucchi aveva chiesto persino l’incompatibilità del professor Introna per la sua passata appartenenza alla massoneria. Alla fine però la “fratellanza” di Introna è stata considerata un’affiliazione datata e ormai non più significativa. Superato questo ostacolo, il lavoro dei periti è proseguito e due settimane fa hanno consegnato i risultati: nessuna causa certa ma due ipotesi, una considerata più probabile dell’altra.
La prima: l’epilessia, che gli stessi professori del collegio peritale però definiscono «non documentabile, priva di riscontri oggettivi, ma supportata solo da rilievi clinico-scientifici»; la seconda: la frattura delle vertebra S4, «comunque indotta che avrebbe provocato l’insorgenza della vescica neurogenica», cioè di una disfunzione dell’apparato urinario.
E proprio questo punto che la difesa della famiglia Cucchi utilizzerà nelle prossime fasi. A partire dalla prossima udienza di incidente probatorio, il 18 ottobre.
Mai nessuna perizia prima, infatti, aveva certificato la frattura che avrebbe poi compromesso la vita di Stefano. L’avvocato Fabio Anselmo ha da tempo chiamato a collaborare il professore Vittorio Fineschi, ordinario di Medicina legale alla Sapienza, lo stesso che ha svolto l’autopsia, per conto dei magistrati, sul corpo di Giulio Regeni. E che già un anno dopo la morte di Stefano aveva prodotto un’analisi secondo cui Cucchi è morto «per cedimento cardiaco connesso con le entità traumatiche ricevute». In pratica le fratture avrebbero innescato quel processo che poi ha portato al decesso del giovane romano.
E quelle stesse fratture potrebbero essere state causate dalle botte prese da Cucchi perchè i carabinieri non avevano trovato la droga che si aspettavano. «Mio fratello non è morto di epilessia, era in ospedale per le botte ricevute», riflette la sorella Ilaria.
Poi fa una pausa, fissa il cartello con scritto via Lemonia: «Era nelle mani dello Stato, al sicuro, invece è stato massacrato».
Giovanni Tizian
(da “L’Espresso”)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
IL SORPASSO NEL 2015: IL 66% DI CHI HA CHIESTO AIUTO NEL MEZZOGIORNO E’ ITALIANO
Sono soprattutto gli stranieri a chiedere aiuto ai Centri di Ascolto della Caritas, ma per la prima volta, nel 2015, al Sud la percentuale degli italiani ha superato di gran lunga quella degli immigrati.
E’ una delle novità del Rapporto 2016 della Caritas sulla povertà .
Se a livello nazionale il peso degli stranieri continua a essere maggioritario (57,2%), nel Mezzogiorno gli italiani hanno fatto il ‘sorpasso’ e sono al 66,6%. I centri Caritas sono 1.649, dislocati su 173 diocesi.
Rispetto al genere, il 2015 segna un importante cambio di tendenza; per la prima volta risulta esserci una sostanziale parità di presenze tra uomini (49,9%) e donne (50,1%), a fronte di una lunga e consolidata prevalenza del genere femminile.
L’età media delle persone che si sono rivolte ai Centri Caritas è 44 anni.
Tra i beneficiari dell’ascolto e dell’accompagnamento prevalgono le persone coniugate (47,8%), seguite dai celibi o nubili (26,9%).
Il titolo di studio più diffuso è la licenza media inferiore (41,4%); a seguire, la licenza elementare (16,8%) e la licenza di scuola media superiore (16,5%).
I disoccupati e inoccupati insieme rappresentano il 60,8% del totale.
I bisogni più frequenti che hanno spinto a chiedere aiuto sono perlopiù di ordine materiale: spiccano i casi di povertà economica (76,9%) e di disagio occupazionale (57,2%), ma non sono trascurabili anche i problemi abitativi (25,0%) e familiari (13,0%).
E sono frequenti le situazioni in cui si cumulano due o più ambiti problematici.
Inoltre il rapporto svela che il vecchio modello italiano di povertà , che vedeva gli anziani più indigenti, non è più valido: oggi la povertà assoluta risulta inversamente proporzionale all’età , cioè diminuisce all’aumentare di quest’ultima.
La persistente crisi del lavoro ha infatti penalizzato e sta ancora penalizzando soprattutto i giovani e giovanissimi in cerca di di occupazione e gli adulti rimasti senza impiego.
(da agenzie)
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Ottobre 17th, 2016 Riccardo Fucile
CON RENZI UNA DELEGAZIONE DELLE ECCELLENZE ITALIANE
“Conosci Matteo Renzi, il Justin Trudeau d’Italia e il vincitore dell’ultima cena di Stato degli Obama?”.
Il Washington Post lancia la cena di Stato offerta dal presidente americano Barack Obama al premier Matteo Renzi, in programma martedì sera alla Casa Bianca, con un articolo-ritratto, dedicato al premier italiano, nella sezione lifestyle del giornale.
Nel ritratto si ricorda il suo nickname (‘il rottamatore, tradotto con “the scrapper”), il suo coraggio, la sua impazienza e la mancanza di timore di farsi nemici, nonchè l’elogio tessuto da Obama dopo averlo incontrato lo scorso anno negli Stati Uniti. Ma l’articolo ricorda anche che Renzi è stato paragonato sia al suo concittadino Machiavelli che al presidente Francis Underwood di ‘House of cards’.
Un ritratto, quello del Wt, dove nella voce “migliori amici” si mettono in evidenza “i buoni rapporti” con la Cancelliera tedesca Angela Merkel, il supporto a Hillary Clinton per la corsa alla Casa Bianca, e una profonda amicizia con il premier canadese Trudeau.
Tra le sue “ossessioni”, segnala il giornale americano, Twitter e gli altri social media, la Fiorentina, la bici e, se ha tempo, la maratona.
Renzi porterà con sè a Washington una delegazione delle eccellenze italiane: il premio Oscar Roberto Benigni, la campionessa paralimpica Bebe Vio, la direttrice del Cern Fabiola Gianotti, la sindaca di Lampedusa Giusi Nicolini, la curatrice del dipartimento di Architettura e Design del Moma Paola Antonelli, lo stilista Giorgio Armani, il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone e il regista Paolo Sorrentino. In programma anche un pranzo al Dipartimento di Stato offerto dal vicepresidente Joe Biden e dal capo della diplomazia americana, John Kerry.
(da “Huffingtonpost”)
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