Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
IL DELIRIO DELLA MINISTRA DEGLI INTERNI AMBER RUDD METTE IN PERICOLO ANCHE I LAVORATORI E GLI STUDENTI ITALIANI IN GRAN BRETAGNA… LA CONFINDUSTRIA INGLESE:”SENZA STRANIERI L’ECONOMIA BRITANNICA SALTA PER ARIA”
Liste di proscrizione per lavoratori stranieri nella Gran Bretagna cosmopolita, multietnica e globalizzata del ventunesimo secolo.
Potrebbe sembrare uno scenario di fantapolitica, invece è una proposta della ministra degli Interni Amber Rudd: così clamorosa che ha scatenato un’ondata di polemiche, finendo per oscurare o almeno far passare in secondo piano quello che doveva essere il principale argomento politico della giornata, il discorso della premier Theresa May a conclusione dell’annuale congresso del partito conservatore.
Le parole della ministra Rudd sono state anticipate questa mattina dal Times di Londra, che ha aperto la prima pagina con un titolo allarmante: “Firms must list foreign workers”, le aziende dovranno fare liste dei lavoratori stranieri.
Un’idea che Rudd ha precisato al congresso dei Tories: “Ci sono troppi lavoratori stranieri in Gran Bretagna”, ha detto, aggiungendo subito dopo che sono troppi anche gli studenti stranieri.
Gli uni e gli altri tolgono posti, spazio e risorse ai cittadini britannici, sostiene la ministra. Per invertire la tendenza non basta, evidentemente, porre limiti all’immigrazione, come il Regno Unito si appresta a fare con Brexit, ovvero uscendo dall’Unione Europea e mettendo fine alla libertà di movimento dei lavoratori, anche pagando il prezzo dell’uscita dal mercato comne.
Occore qualcosa di più: “Svergognare” le aziende che, perlomeno nella visione del governo, privilegiano le assunzioni di stranieri.
Per questo, l’obbligo di pubblicare “liste” per nazionalità , in modo che l’opinione pubblica sappia quanti britannici e quanti non britannici vi lavorano: una pressione che, nelle intenzioni di Amber Rudd, spingerebbe le imprese ad assumere più britannici.
“Xenofobia pericolosa”, accusa il partito laburista. “Non sono razzista”, si difende la ministra – che forse, avendo preso il posto occupato per sei anni da Theresa May prima di conquistare Downing street, pensa di dover farsi notare per favorire il resto della sua carriera.
Ma la Confindustria britannica e la City segnalano scontento, commentando che, senza gli stranieri, l’economia nazionale andrebbe in tilt.
E sui social network esplode lo sdegno, anche da parte di molti italiani di Londra, increduli all’idea di poter finire in una “lista”, identificati come diversi: un’iniziativa che risveglia i peggiori fantasmi del passato europeo.
Del resto Liam Fox, uno dei tre “ministri per Brexit” nominati da Theresa May, afferma tranquillamente che gli europei residenti in Gran Bretagna, 3 milioni di persone, potrebbero essere usati “tatticamente” come merce di scambio al tavolo della trattativa fra governo britannico e Ue sui termini del divorzio.
Anche questa una proposta che suscita proteste e indignazione, peraltro smentita dalla premier May secondo cui i diritti degli europei residenti nel Regno Unito saranno protetti finchè lei è a capo del governo, seppure aggiunga subito “a patto che i britannici ricevano protezione analoga in Europa”.
Insomma, per quanto appaia incredibile, il grido che si insinua nella capitale multietnica, cosmopolita e globalizzata d’Inghilterra è “non passa lo straniero”.
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
“CHIEDERE SCUSA? CHIEDANO SCUSA A STEFANO”
“Io non potrei essere più soddisfatta”, perchè la perizia “per la prima volta, dopo sette anni, riconosce le due fratture alla colonna vertebrale. Quelle che secondo noi, non curate, hanno causato la morte di Stefano. Per me è un riconoscimento importantissimo”.
Così Ilaria Cucchi, intervistata da Repubblica, commenta la perizia degli esperti nominati dal gip di Roma nell’ambito dell’inchiesta Cucchi-bis.
“Finalmente vengono riconosciute quelle ferite”, spiega, che nel primo processo “non erano state prese in alcuna considerazione”.
“È vero che fanno un riferimento all’epilessia, ma dicono che, comunque, non è documentabile come causa della morte. Diverso è per le fratture alla colonna vertebrale, che vengono riconosciute come recenti, e per il danno al globo vescicale non curato”.
“Non erano lesioni mortali, questo è certo. Ma altrettanto certo è che quelle fratture non curate possono aver causato la morte di mio fratello”.
I sanitari del Pertini che lo ebbero in cura, rileva, “sono stati assolti con sentenza passata in giudicato. E quindi non si può tornare indietro”.
“Ora gli indagati sono i carabinieri che quelle fratture le hanno causate a suon di botte. E vedremo come andrà a finire”.
“Ora sappiamo che finalmente abbiamo ottime possibilità di vedere processati gli indagati per omicidio preterintenzionale”, dice in un’intervista alla Stampa.
“Io non devo chiedere scusa a nessuno. Qui l’unico che aspetta delle scuse è mio fratello. Nessun pubblico ufficiale ha compiuto il proprio dovere, almeno di umana pietà . Si sono tutti voltati dall’altra parte. Stefano è morto di giustizia e di indifferenza. Come è possibile trovarsi di fronte a una persona in quelle condizioni e non fare nulla?”.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
GIRAVOLTE E VELENI INVECE CHE CHIARIRE INGARBUGLIANO ANCORA DI PIU’…. FIRMATE DA UN DOCENTE CHIACCHIERATO
Le 205 pagine della perizia di ufficio firmata dal collegio di professori presieduto da Francesco Introna sono un italianissimo capolavoro di ipocrisia che lascia il caso Cucchi in un guado dove è possibile sostenere tutto e il suo contrario.
Un guazzabuglio della logica, un monumento al «ma anche», che consente, legittimamente, di far dire ai difensori dei carabinieri indagati per il pestaggio di Stefano che l’inchiesta “bis” della Procura è pronta per essere sepolta da una pietra tombale. E, altrettanto legittimamente, a Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo, legale della famiglia, che «finalmente sarà possibile celebrare un processo per omicidio».
Impossibile, si dirà . Eppure, prevedibile.
Chiamato dopo sette anni a rispondere una volta per tutte alla Domanda del caso Cucchi – di cosa è morto? – perchè dalla risposta dipende il futuro di un nuovo processo agli autori del pestaggio, il collegio peritale nasce infatti nel gennaio scorso sotto i peggiori auspici.
Perchè a presiederlo viene chiamato un luminare barese, Francesco Introna, massone in sonno e uomo di destra, legato da rapporti di stima e colleganza con almeno due dei professori e medici legali (Paolo Arbarello e Cristina Cattaneo) di cui dovrebbe giudicare il lavoro.
Perchè, nel tempo, uno quale perito del pm (Arbarello), l’altra quale consulente di ufficio della Corte di Assise nel processo di primo grado (Cattaneo) hanno categoricamente escluso che le lesioni subite alla schiena durante il pestaggio da Cucchi (due fratture vertebrali) abbiano qualcosa a che vedere con le cause del suo decesso.
Concludendo in un caso (Arbarello) che Stefano è morto per un «arresto cardiocircolatorio provocato da un grave squilibrio metabolico ».
Nell’altro (Cattaneo), di «fame e di sete», come un suicida.
Di più. Il professor Introna è diviso da profonda inimicizia da Vittorio Fineschi, storico consulente della famiglia Cucchi che da sette anni predica nel deserto sostenendo che nella morte di Stefano hanno avuto un peso decisivo le sue fratture vertebrali e l’effetto che hanno prodotto sui riflessi vagali che governano il battito del cuore.
La posta in gioco per Introna e il suo collegio è dunque alta.
Concludere che le fratture vertebrali non sono state nè causa, nè “con-causa” della morte di Cucchi significa condannare l’inchiesta bis sui carabinieri a un’imputazione modesta di lesioni e dunque a sicura prescrizione visto il tempo trascorso.
Sostenere il contrario, significa aprire la strada a un’imputazione di omicidio preterintenzionale e umiliare il lavoro di Arbarello e della Cattaneo, dando ragione all’odiato Fineschi e violando il fairplay degli uomini di scienza, in cui la regola vuole che cane non morda cane.
Per uscire dalla tenaglia, Introna impiega dieci mesi.
E, alla fine, sceglie la via del «ma anche». Tira fuori dal cilindro come «probabile causa di morte» il coniglio dell’epilessia, ma ammette che l’ipotesi, sebbene da lui privilegiata, non ha riscontri «oggettivi».
Quindi, sdogana quella avanzata dall’odiato Fineschi.
Ancorchè da lui scartata – argomenta infatti – esiste una seconda ipotesi plausibile: che le fratture alla schiena di Stefano (per la prima volta in sette anni riconosciute come recenti e dunque frutto del pestaggio) abbiano indotto un riflesso del nervo vagale che ha provocato la spaventosa dilatazione della vescica e, a cascata, una gravissima brachicardia che ha prodotto l’arresto del cuore. E tuttavia, aggiunge, quelle fratture (e dunque il pestaggio) non possono essere considerate causa del decesso, perchè sarebbe bastato che qualcuno avesse avuto cura di svuotarla quella vescica.
Insomma, colpa non dei carabinieri, ma degli infermieri del Pertini, dove Stefano fu ricoverato, e per giunta ormai assolti con sentenza passata in giudicato.
Nel gergo degli addetti, una “perizia suicida”.
Forse, e più semplicemente, solo l’ultima furbizia di una storia che continua a pretendere soltanto la verità .
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
IN 14 ANNI 2.835 ENTI, AL NORD AUMENTO DEL 27%… ATTUALMENTE SONO SCIOLTI 82 COMUNI, IL 16% PER INFILTRAZIONI CRIMINALI IL DOPPIO RISPETTO AI DIECI ANNI PRECEDENTI
Da Africo, in Calabria, a Villa d’Adda, in Lombardia. Passando per Corleone (Sicilia), Molfetta (Puglia), Sabaudia (Lazio), Brescello (Emilia-Romagna), Abano Terme (Veneto), Lavagna (Liguria) e Carezzano (Piemonte).
A oggi sono ben 82 i Comuni italiani che ‘viaggiano’ senza sindaco nè consiglio comunale. Ottantadue municipalità commissariate per mafia, dissesto finanziario, dimissioni dei consiglieri o incapacità di approvare il bilancio.
Dalla Sicilia al Trentino Alto-Adige, infatti, lo scioglimento è un’evidenza spalmata lungo tutto il Paese e va a colpire giunte di ogni colore politico, come raccontano i numeri analizzati da Openpolis per Repubblica.it.
Un dato su tutti: tra il 2001 e il 2014 sono stati commissariati 2.385 Comuni, con un aumento al Nord del 27,5% e un calo al Sud pari al 24,3 per cento.
Tradotto: in media, ogni anno sono 2,5 milioni gli italiani che rimangono privi di amministrazione eletta.
E privo di amministrazione eletta rischia di rimanere (ancora una volta) anche il Comune di Nicotera, in Calabria, dove soltanto poche settimane fa una coppia di sposi è atterrata in elicottero nel centro del paese: a coordinare le manovre, tra gli altri, c’era pure il pilota dei Casamonica.
E dove – secondo la prefettura di Vibo Valentia – a questo punto sarebbe necessario procedere con un altro scioglimento a causa delle infiltrazioni della criminalità organizzata (dopo le esperienze già vissute nel 2005 e nel 2010). L’indicazione, inviata di recente al Viminale, è netta: l’ente non è più in grado di resistere alle pressioni della ‘ndrangheta.
Per collusioni con ambienti in odor di mafia è stato sciolto – non più di un mese e mezzo fa – il Comune di Corleone, la cittadina che diede i natali ai boss Bernardo Provenzano e Totò Riina e dove proprio in questi giorni è stata scalfita la roccaforte dell’omertà con otto imprenditori che hanno denunciato il pizzo.
E sempre per mafia, qualche mese fa, è stato sciolto pure il Comune di Tropea, in Calabria.
Diverso, spostandosi al nord, è il caso di Abano Terme dove a giugno il sindaco è stato arrestato tre giorni dopo l’elezione con l’accusa di corruzione. In virtù della legge Severino, è scattata la transizione sotto la guida di un commissario: l’elettorato potrà tornare alle urne la prossima primavera nel tentativo di recuperare la ‘normalità ‘ amministrativa.
Ma quando si parla di commissari incaricati di ripristinare la legalità , la domanda più ricorrente è legata alla reale capacità del provvedimento di mettere fine o meno all’influenza della criminalità organizzata sulla politica locale.
Che la norma – soprattutto quando si tratta di mafia – sia risultata a volte inefficace, infatti, lo dimostrano i reiterati scioglimenti di Comuni come Lamezia Terme, Taurianova o Platì, tutti colpiti più volte.
Per gli analisti è la dimostrazione che non sempre mandare a casa un’amministrazione e tornare alle urne dopo un periodo stabilito sia davvero risolutivo. Ecco perchè in Parlamento è in corso d’esame una revisione della legge.
Nel frattempo, sul versante economico, a marzo di quest’anno il governo ha stanziato 40 milioni di euro (validi sul 2015) a favore di 32 enti commissariati, a fronte di una richiesta complessiva avanzata che ammontava a oltre 203 milioni.
Si tratta di un’anticipazione di liquidità per garantire il rispetto dei tempi di pagamento alle imprese con tanto di restituzione secondo un piano di ammortamento trentennale a rate costanti.
A Reggio Calabria, sciolto per mafia nel 2012, e ad Augusta le quote più consistenti: 7,8 milioni ciascuno. Entrambi oggi hanno di nuovo un sindaco: il primo in quota Pd (Giuseppe Falcomatà ), il secondo M5s (Maria Concetta Di Pietro).
Di certo c’è che le cause che possono portare allo scioglimento di un consiglio comunale sono varie. Le principali, infatti, sono riconducibili a due macrocategorie: le questioni politiche (come le dimissioni dei consiglieri o del sindaco oppure le mozioni di sfiducia); e la cattiva gestione del Comune o gli errori amministrativi (infiltrazioni mafiose, mancata approvazione del bilancio e decadenza del sindaco).
La grande maggioranza dei casi registrati in Italia rientra in questi due tipi di cause.
E’ soltanto di qualche giorno fa, tuttavia, l’avvertimento lanciato dal ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, che si è detto “molto preoccupato” per la gestione dei fondi dedicati a depurazione e bonifiche di siti di interesse non nazionale: Le risorse ci sono – ha sottolineato -, dal 4 agosto abbiamo avuto a disposizione 1,6 miliardi. Parliamo di mare, di salute dei cittadini e di infrazioni Ue. Coloro i quali non spenderanno quei soldi per la depurazione verranno commissariati. Ho già mandato le lettere di diffida ai Comuni che non rispetteranno i tempi, anche se il commissariamento in campo ambientale deve essere l’extrema ratio”.
Popolazione coinvolta.
Vero è che grazie ai dati del ministero dell’Interno è possibile monitorare l’evoluzione del fenomeno dal 2001 al 2014.
L’analisi raccoglie i numeri dei casi anno per anno e ne evidenzia le cause e il rispettivo peso. Lo scioglimento dei consigli comunali ha avuto un’incidenza minima ma costante sulla popolazione italiana. In media ogni anno sono 2,5 milioni (circa il 4%) i cittadini interessati dalla questione perchè residenti in Comuni commissariati. Il livello minimo è del 2003 con 1,3 milioni di cittadini coinvolti, mentre quello massimo è stato raggiunto nel 2001 con 6,8 milioni.
Valori importanti, infatti, sono stati toccati con lo scioglimento dei consigli di Roma – nel 2001 prima e nel 2008 poi, senza contare l’arrivo di Francesco Paolo Tronca nel 2015 – e di Reggio Calabria quattro anni fa. Il fenomeno da sempre riguarda per lo più i Comuni sotto i 3mila abitanti (circa il 35% del totale), ma dal 2010 al 2014 aumenta la percentuale di città coinvolte con più di 10mila abitanti: queste passano dal 33,1% del periodo precedente al 36,2 per cento.
Nel complesso, va rilevato che è dal 2007 che non si scende sotto quota 2 milioni. Ed è in aumento la percentuale di Comuni sciolti con più di 10mila abitanti.
Quanti sono i Comuni commissariati.
A oggi i commissariamenti attivi in tutta la penisola sono 82. Un numero tutto sommato contenuto grazie alle recenti elezioni tenute in 1.300 municipalità del Belpaese.
Ma, a ben guardare, i dati rivelano alcuni aspetti da non sottovalutare.
Di questi 82 Comuni, infatti, il 20% è in amministrazione straordinaria da oltre 400 giorni, e il 5% addirittura da più di 600. I consigli comunali sciolti per mafia sono il 15,85% (13 città ), percentuale ben superiore alla media del periodo 2001-2014, quando rappresentava il 7,17 per cento. Inoltre, diverse città hanno avuto difficoltà a portare a termine le consultazioni elettorali.
In 4 Comuni non è stato raggiunto il quorum, in altri 3 non sono state presentate le liste dei candidati (come a San Luca, nella Locride) e in uno le operazioni elettorali sono state persino annullate.
La durata del commissariamento.
I commissariamenti per mafia hanno di solito una durata superiore agli altri tipi di scioglimento. Per legge, infatti, vanno dai 12 ai 18 mesi e sono prorogabili fino a un massimo di 24.
Non sorprende quindi che dei 13 Comuni in amministrazione straordinaria da più di un anno, il 46,15% sia stato sciolto per infiltrazioni o condizionamenti di tipo mafioso.
L’interruzione dell’ordinaria vita istituzionale dura invece da meno di 200 giorni nel 66,67% delle città ancora commissariate.
Evoluzione del fenomeno negli anni.
Dal 2001 al 2014 sono stati sciolti 2.385 consigli comunali. I picchi sono stati raggiunti nel 2005 e nel 2013 con – rispettivamente – 213 e 199 commissariamenti. Il 2014 è l’anno con il minor numero di amministrazioni sciolte, 142: il 28,64% di casi in meno rispetto all’anno precedente.
Perchè vengono sciolti i Comuni.
Sempre dal 2001 al 2014, la metà dei commissariamenti è dovuta alle dimissioni della maggioranza dei consiglieri comunali, ben 1.195 casi su 2.385.
A prevalere sono dunque le cause politiche: basti pensare che, se si aggiungono anche le dimissioni del sindaco e le mozioni di sfiducia, si arriva al 71,90% dei decreti di scioglimento. Altra frequente motivazione è la cattiva gestione del Comune o un comportamento sbagliato da parte degli amministratori.
Di contro, i commissariamenti per mafia, quelli per mancata approvazione del bilancio e per decadenza del sindaco sono il 13,46% dei casi.
L’analisi regionale.
I commissariamenti sono senza dubbio un fenomeno nazionale.
Dal 2001 al 2014 è stato registrato almeno uno scioglimento in ben 18 delle 20 regioni italiane. Ma è anche vero che sei regioni da sole collezionano il 70,36% dei casi. Nell’ordine sono: Campania (18,28%), Lombardia (13,46%), Calabria (12,29%), Puglia (9,39%), Piemonte (8,39%) e Lazio (8,01%).
Certo, nel tempo le differenze macroterritoriali si sono assottigliate. Tanto che i Comuni commissariati al nord sono passati dal 28,70% al 36,60% del totale nazionale, mentre al sud sono scesi dal 60,50% al 45,80 per cento.
Anche la fetta del centro è cresciuta sensibilmente, passando dal 10,80% al 17,60 per cento.
Ma è comunque da sottolineare che il fenomeno è più consistente al sud. La vera differenza infatti non è tanto il numero assoluto di commissariamenti, ma la loro incidenza sul territorio.
Per esempio, la Lombardia è al secondo posto per numero totale di amministrazioni sciolte, ma è all’undicesimo se il dato si mette in rapporto al numero di Comuni della regione: si vede così che è coinvolto l’8,70% di tutte le municipalità lombarde.
Stesso discorso per la regione Piemonte, che risulta quinta per numero assoluto di casi, ma è quindicesima per percentuale di Comuni interessati, che sono il 6,30% del totale regionale.
Dunque, in queste regioni il fenomeno è presente, ma ha un peso più basso rispetto ad altre zone del Paese. In Puglia è stato commissariato il 30,60% dei Comuni, in Calabria il 27,10%, e in Campania il 25,80 per cento.
Ci sono anche altri ‘eventi’ più frequenti al sud: si tratta delle ricorrenze, vale a dire quei Comuni commissariati più di una volta.
In Italia il 7,10% degli enti commissariati fra il 2010 e il 2014 è stato sciolto ben due volte. In Campania questa percentuale aumenta e diventa più del doppio (il 15,50 per cento). E degli 852 Comuni sciolti tra il 2010 e il 2014, due sono stati commissariati addirittura tre volte: uno si trova in Campania, l’altro in Calabria.
Non da ultimo: solo Friuli-Venezia Giulia e Valle-d’Aosta non hanno avuto amministrazioni sciolte negli anni esaminati.
E poi: il record di commissariamenti in un singolo anno spetta alla Campania, dove nel solo 2009 ci sono stati ben 43 consigli comunali sciolti.
Infiltrazioni mafiose.
Gli enti sciolti per infiltrazioni e condizionamenti di tipo mafioso meritano un capitolo a parte. Il provvedimento, dal notevole peso politico, segue un iter che è diverso rispetto agli altri.
Per accertare la sussistenza delle accuse, il prefetto nomina una commissione d’indagine che entro tre mesi (rinnovabili per altri tre) deve effettuare le dovute verifiche e consegnare le proprie conclusioni al prefetto.
Entro 45 giorni, il prefetto invia al Viminale una relazione. A decretare lo scioglimento è poi il presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’Interno.
L’intervento conserva i suoi effetti per un periodo che va da 12 a 18 mesi. In casi eccezionali, sono prorogabili a un massimo di 24 mesi. Contro il decreto di scioglimento si può ricorrere in prima battuta dinanzi al Tar e in appello dinanzi al Consiglio di Stato.
Un’altra particolarità è che il commissariamento per mafia può essere determinato non solo dalla condotta degli organi politici – giunta e consiglio – ma anche da altri incaricati come il segretario comunale, il direttore generale, i dirigenti e i dipendenti dell’ente locale.
Effetto Monti.
Dal 1991, anno in cui l’istituto è stato introdotto, al 2014 sono stati sciolti per mafia 258 Comuni.
Il dibattito sulla materia è sempre molto acceso, specie per il suo notevole peso sulle dinamiche politiche dell’ente locale.
Particolarmente significativo è stato l’arrivo del governo tecnico guidato da Mario Monti nel 2012, quando i decreti di scioglimento per infiltrazioni mafiose sono aumentati del 380 per cento rispetto al 2011 (ultimo anno del governo guidato da Silvio Berlusconi).
Nel 2013, invece, l’incremento ha fatto segnare un +220 per cento. Per molti tale balzo è legato proprio alla presenza di ‘tecnici’ al Viminale, slegati dalle possibili mediazioni politiche con gli enti interessati.
Non a caso, nel report annuale di Avviso pubblico del 2012, Raffaele Cantone analizzava così le percentuali: “Questo dato potrebbe in parte avere una spiegazione “politica”; la presenza al Viminale di un ministro tecnico, di provenienza prefettizia, che ha raccolto gli input che venivano dalle prefetture ma soprattutto che ha evitato estenuanti “mediazioni” politiche sugli scioglimenti, come purtroppo ci aveva abituato la prassi (deteriore) degli ultimi anni”.
Quando un ente ci ricasca.
I commissariamenti per mafia, dunque, sottolineano ancora di più le forti differenze fra nord e sud.
Dei 171 casi registrati fra il 2001 e il 2014, il 97,08% è avvenuto nel Mezzogiorno. Il fenomeno nel periodo analizzato ha coinvolto 8 regioni: Puglia, Lombardia, Liguria, Lazio, Piemonte, Sicilia, Campania e Calabria.
Le ultime due, da sole, hanno collezionato oltre il 71% dei casi. Ed è in questi territori che si trovano 8 dei 9 Comuni che dal 1991 a oggi sono stati commissariati 3 volte per mafia.
Si tratta di Casapesenna (2.160 giorni di commissariamento per mafia), Casal di Principe (1.800 giorni), Grazzanise (1.980 giorni), San Cipriano d’Aversa (1.800 giorni, tutti e quattro in provincia di Caserta), Melito di Porto Salvo (1.980 giorni), Roccaforte del Greco (2.160 giorni), San Ferdinando (2.160 giorni) e Taurianova (1.980 giorni, in provincia di Reggio Calabria). A questi se ne affianca un altro: Misilmeri (1.980 giorni), in Sicilia, provincia di Palermo.
Attenzione particolare merita Casal di Principe, che oltre a 3 provvedimenti per mafia e 2 proroghe, nello stesso periodo è stato sciolto altre 6 volte per altri motivi.
Ricorsi e rimborsi.
Per 188 dei 258 Comuni sciolti per mafia (il 72,87%) è stato fatto ricorso all’autorità giurisdizionale. Ebbene, 20 dei 188 ricorsi (il 10,64%) sono stati accolti, annullando lo scioglimento dell’ente.
Le sentenze di annullamento includono anche il risarcimento del danno per le amministrazioni coinvolte.
Per esempio, il Tar della Calabria, con sentenza numero 343 del 2012, ha condannato il ministero dell’Interno a risarcire con oltre 2 milioni di euro il comune di Amantea (Cosenza).
Data journalism
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
FUGA VERSO LA PENSIONE, CHI SE NE VA NON VIENE RIMPIAZZATO DALLE GIOVANI LEVE… ENTRO IL 2023 SARANNO 16.000 IN MENO
Addio caro, vecchio medico di famiglia.
Entro sette anni 20 milioni di italiani potrebbero rimanere senza il proprio dottore di fiducia. Perchè tra numeri troppo chiusi per i giovani che vogliono aprirsi uno studio di medicina generale e vecchi camici bianchi in fuga da una professione strangolata dalla burocrazia che non li soddisfa più, entro il 2023 verranno a mancare 16 mila medici di famiglia.
Calcolando che mediamente ognuno di loro segue oggi 1200 pazienti, vuol dire che un assistito su tre rimarrà senza medico.
Un fenomeno diffuso in tutta Italia, anche se i numeri sono più allarmanti a Nord.
In Piemonte, ad esempio, nei prossimi sette anni lasceranno lo studio 1173 medici di famiglia, in Lombardia 2776, in Veneto 1600, in Liguria 527.
Considerando la popolazione, non sono pochi. E il problema è per ogni quattro dottori che lasciano, ce n’è solo uno pronto a subentrare se le regioni continueranno, come fanno oggi, a elargire con il contagocce le borse di studio per accedere alla professione.
I numeri della bomba demografica medica, diffusi al congresso nazionale della Fimmg, la Federazione dei medici di famiglia, sono quelli dell’Enpam, il solido ente previdenziale dei camici banchi, che col perdurare di questa fuga dalla professione qualche problema potrebbe cominciare ad averlo.
I dati parlano chiaro.
Da oggi al 2023 andranno in quiescenza 21.700 medici di famiglia, che se prima appendevano il camice al chiodo verso i 70 anni «ora si ritirano intorno ai 67.
O anche prima, se hanno raggiunto i 35 anni di contribuzione» spiega Vincenzo Pomo, coordinatore della Sisac, l’organismo che per la parte pubblica contratta i rinnovi delle convenzioni mediche. «Bisogna aumentare i posti nelle scuole post-laurea di medicina generale, altrimenti sul territorio rimarranno solo i pazienti», denuncia il presidente dell’Enpam, Alberto Oliveti.
I dati diffusi dalla Fimmg gli danno ragione: le Regioni che programmano l’accesso alla professione non vanno oltre i 900 borsisti l’anno, mentre le uscite marciano al ritmo più che triplo: oltre tremila camici bianchi ogni dodici mesi.
«E non è che poi i giovani vengano tanto incentivati a intraprendere la formazione in medicina generale, visto che – puntualizza il vicesegretario nazionale vicario della Fimmg, Silvestro Scotti – i giovani che scelgono la specialistica, come chirurgia od ortopedia, possono contare su una retribuzione mensile di 1700 euro. I borsisti che aspirano a diventare medici di famiglia a malapena raggiungono gli 800 euro».
Ma a parte la questione economica a spiegare il vuoto c’è anche e soprattutto il fatto che la formazione dei giovani specialisti la fa l’università , che per questo riceve lauti finanziamenti e che, nonostante il numero chiuso, ha tutto l’interesse a mantenere più cattedre possibili.
Quella dei futuri medici di famiglia è invece a carico delle Regioni. Che da un lato tirano i cordoni della borsa, dall’altro – insieme al governo centrale – pensano a un nuovo modello di assistenza per il futuro dove il primo punto di contatto per il cittadino sul territorio non sarà più il medico di base ma infermieri e tecnici della riabilitazione, con alle spalle èquipe mediche pronte a intervenire alla bisogna.
Un sistema che si pensa possa far limitare le prescrizioni e, quindi, produrre risparmi. «Qualcuno nella stanza dei bottoni – ipotizza Scotti – vuole un modello di cure territoriali senza medici di famiglia?».
I numeri sembrano dire che il sospetto è più che fondato.
Paolo Russo
(da “La Stampa”)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
CONDANNATO PER MALVERSAZIONE A UNA PENA SUPERIORE A DUE ANNI E’ UNO SEI PARLAMENTARI A CUI E’ STATO REVOCATO IL VITALIZIO
Pronto, onorevole Luigi Sidoti, la Camera ha revocato il vitalizio a lei, Toni Negri, Previti e altri tre ex deputati condannati
“Non avevano niente da fare”.
Se lo aspettava?
“No, belle notizie mi dà “.
Lei quanto prendeva?
“Duemila euro. Una miseria “.
Una miseria?
“Rispetto ad altre pensioni certo, comunque non voglio fare lo spocchioso”.
Ha anche una pensione Inps?
“Sì, di 600 euro. Ora come farò?”
Perchè è stato condannato per malversazione?
“Dovevo costruire un albergo, un appalto da quattro milioni per cui mi chiesero anche il pizzo, invece è finita con una condanna costruita. Non hanno voluto vedere le carte”.
È giusto togliere il vitalizio a chi ha una condanna sopra i due anni?
“Provo rabbia. Il pm aveva chiesto due anni, così mi sarei salvato. Ma i giudici poi mi hanno condannato a 2 anni e 6 mesi”.
Che farà ?
“Quello che è fatto è fatto, purtroppo. Sentirò l’avvocato. Faccio notare che il regolamento di Montecitorio è stato varato nel 2015, un anno dopo la mia condanna, quindi sconto anche la beffa dell’effetto retroattivo”.
Anche a Berlusconi avevano tolto il vitalizi
“Ma a quello gli fa un baffo, per me è la vita”.
Lei era missino?
“Orgogliosamente. Venticinque anni di consiglio comunale a Catania, sempre all’opposizione, poi entrai in Parlamento con An: due anni tra il ’94 e il ’96. Non avevo i requisiti per l’assegno mensile, ma ho pagato la differenza”.
Per quanti anni l’ha preso?
“Vent’anni”
E ora?
“Ho la sospensione della pena, la non menzione nel casellario, però sono senza vitalizio. Che presa in giro”.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
“DI MARTEDI” GUADAGNA E ARRIVA AL 7%… LA7 QUARTA RETE NAZIONALE
Nella tradizionale giornata dello scontro tra talk politici, prosegue la corsa di Giovanni Floris che con il suo diMartedì ha ottenuto 1 milione 297 mila spettatori con il 7.02% di share su La7, lasciando ancora una volta al tappeto il rivale Semprini alla guida di Politics — Tutto è politica su Rai3, che si è fermato a 627 mila spettatori con il 2.52%
E’ la quarta settimana di fila di ascolti in calo sia in spettatori che in share per il programma voluto da Daria Bignardi al posto di Ballarò e con un conduttore nuovo arrivato da Sky Tg24 al posto di Massimo Giannini.
Per contro, ascolti sempre in crescita per Floris, in numeri assoluti nei quattro confronti a distanza, mentre in share c’è stata una leggera flessione nella seconda puntata sulla prima (5,93 rispetto a 6,05) ma risultando comunque ampiamente sopra il programma di Semprini.
Che è partito dal 5,48% dell’esordio ed è via via scivolato fino a dimezzare e oltre quel risultato iniziale.
La pessima prestazione del talk di Raitre aveva causato, la scorsa settimana anche la reazione del deputato del Partito democratico e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, che aveva chiesto conto del danno al servizio pubblico causato dalla scelta compiuta dalla dirigenza di Rai3.
Prime time.
L’informazione.
Nella sfida tra i tg prevale il Tg1 con 5 milioni 420 mila spettatori pari al 24.29% di share; segue il Tg5 con 3 milioni 779 mila (16.75%) e quindi il TgLa7 con 1 milione 370 mila (6.11%).
(da agenzie)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
“NON FANNO CERTO EMERGERE IL LAVORO NERO”… “SONO UN GIRONE INFERNALE, MEGLIO ABOLIRLI”
I voucher da 10 euro destinati sulla carta a remunerare le prestazioni di lavoro occasionale non fanno emergere il sommerso.
Ma servono piuttosto a inquadrare una forma di lavoro precario e a basso costo, costringendo chi viene pagato in questo modo in un vero “girone infernale” da cui è difficile uscire.
Lo scrive nero su bianco l’Inps nel suo recente Quaderno di ricerche sul lavoro accessorio. “Una delle (irrealistiche) aspettative del legislatore era che il voucher servisse per l’emersione dal nero”, si legge nello studio firmato da Bruno Anastasia, Saverio Bombelli e Stefania Maschio.
“Prove statistiche affidabili di un tale passaggio non sono state ottenute, nè lo possono essere se non in via del tutto indiziaria”.
E, ad ogni modo, si tratterebbe comunque di una “componente irrisoria”, come rivela l’analisi dell’ente previdenziale, che il presidente Inps Tito Boeri ha annunciato via Twitter presentandola come un compendio di “tutto (o quasi) quello che vorreste sapere sui voucher e non avete mai osato chiedere“.
Ma non finisce qui.
Numeri alla mano, il sistema dei voucher mostra tutte le sue debolezze dando ragione al presidente Boeri, che lo ha definito “la nuova frontiera del precariato”.
Tanto per cominciare, il voucher non è affatto un grande “successo”: certo i numeri sono in crescita esponenziale, ma “i valori assoluti del fenomeno in esame rimangono modesti, rispetto alla dimensione complessiva della domanda di lavoro”.
Passando poi all’identikit di chi li riceve, per l’Inps non si tratta di persone che hanno già un impiego fisso e tentano di arrotondare, ma piuttosto di lavoratori precari che non riescono a sbarcare il lunario.
“Chi pensa che il lavoro accessorio sia rilevante come secondo lavoro di soggetti già ben presenti e inseriti nel mercato del lavoro, con un rapporto di impiego ben strutturato, non trova certo conforto nei numeri — spiega l’Inps -. Possiamo anzi sostenere tranquillamente che è fuori strada: ovviamente la fattispecie esiste — con riferimento sia a dipendenti pubblici che privati — ma è lungi dall’essere quella dominante o anche, semplicemente, maggioritaria”.
Ma, allora, da chi è composto esattamente il popolo dei voucher?
Su questo punto i ricercatori Inps non hanno dubbi: è il popolo degli eterni precari, che passano da un contratto all’altro senza grandi garanzie sul futuro.
“In definitiva il popolo dei voucher, al netto dei pensionati, nella stragrande maggioranza non è tanto un popolo “precipitato” nel girone infernale dei voucher dall’Olimpo dei contratti stabili e a tempo pieno (Olimpo a cui spesso non è mai salito) — prosegue il documento — ma un popolo che, quando è presente sul mercato del lavoro, si muove tra diversi contratti a termine o cerca di integrare i rapporti di lavoro a part time. Appunto: “Quando è presente”.
A conti fatti, per i ricercatori dell’Inps, l’introduzione dei voucher non ha portato grandi svolte nel mondo del lavoro.
Ha sostanzialmente solo sostituito altri contratti di lavoro parasubordinato già esistenti offrendo soluzioni più flessibili e meno costose per le aziende.
E soprattutto ha creato nuove sacche di precariato sfruttate dalle piccole aziende per abbattere il costo del lavoro con un sistema di pagamento che ha anche un basso costo burocratico-amministrativo. Con il “rischio continuo (…) — secondo l’Inps — di trasformare una domanda episodica di prestazioni accessorie (aggiuntive) in una domanda di lavoro continuativamente accessorio”.
Non a caso persino il governo si è recentemente visto costretto a correggere la mira sui voucher. Senza, tuttavia, recepire le istanze dei sindacati. Una storia già vista, secondo l’Inps, con i contratti di lavoro intermittente. Ma “se li abolissimo?” si chiedono provocatoriamente i ricercatori dell’ente previdenziale.
“Così come sono stati inventati, anche i voucher possono essere aboliti. Ma ciò che non può essere abolito è il problema sottostante: come si pagano le attività di breve durata?”.
In realtà , “le forze sociali che chiedono l’abolizione dei voucher ritengono che gli altri strumenti esistenti (lavoro a termine, lavoro somministrato) siano idonei e sufficienti a organizzare (e quindi pagare) anche le varie forme di lavoro accessorio. Il problema è che per andare in tale direzione occorre pagare dei prezzi“.
Su due fronti: “Possibile inabissamento in nero (ma non ci sembra questo il punto principale)” ma soprattutto “crescita delle attività burocratiche (di intermediazione e di gestione) e del costo complessivo del lavoro“.
Un grave rischio nell’ottica del governo, considerato che il ministero dello Sviluppo nella sua brochure per attirare gli investitori stranieri rivendica che in Italia “gli stipendi sono più bassi della media europea”.
Fiorina Capozzi
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 5th, 2016 Riccardo Fucile
LA VERGOGNA DI GENOVA: 17 CONDOMINI VOGLIONO IMPEDIRE LA FORNITURA D’ACQUA A UN APPARTAMENTO CHE OSPITA 11 PROFUGHI TRA CUI TRE DONNE INCINTE E DIVERSI BAMBINI
Una mobilitazione nata sui social network per opporsi alla decisione dei condomini del civico 11 di via XX Settembre di impedire la fornitura dell’acqua potabile all’appartamento che ospita i migranti : è prevista per oggi pomeriggio alle 18 la manifestazione in solidarietà dei nuovi inquilini del palazzo, alimentata da un tam-tam su Facebook che sta coinvolgendo diverse realtà genovesi, ma soprattutto semplici cittadini.
Il rifiuto è alla sistemazione di un tubo, come richiesto dalla Prefettura, perchè per l’appartamento al civico 11 dove sono accolti i profughi, che era una ex biblioteca universitaria, l’acqua diretta non c’è: arriva solo quella a caduta, dalla cisterna, ed è insufficiente.
«Ieri sera una assemblea di condominio, a maggioranza, ha negato la fornitura dell’acqua potabile ad un alloggio che ospita 11 persone fuggite da guerre, catastrofi, fame. Fra questi undici vi sono tre donne incinte e alcuni bambini – si legge sulla pagina Facebook dell’evento – Noi non ci riconosciamo in questa scelta crudele e disumana.Vogliamo restare umani, vogliamo credere che l’accoglienza sia un diritto. Vogliamo che l’accesso all’acqua sia un diritto. Sappiamo che il “diverso” può fare paura, ma crediamo che il dialogo e il confronto tra diversi sconfiggano la paura e che alla guerra tra più deboli si risponda con la mano tesa tra eguali. Nessun disagio può generare una reazione inumana per questo motivo proviamo vergogna per questa decisione. Vi invitiamo a portare simbolicamente una bottiglia d’acqua per affermare la nostra solidarietà a tutte le persone che fra mille pericoli attraversano il mare in cerca di un futuro migliore e la nostra rabbia ed indignazione per una scelta disumana».
L’appuntamento, dal titolo “Restiamo Umani: Genova non nega l’acqua agli assetati”, è fissato per oggi pomeriggio dalle ore 18.00 alla fermata Amt di via XX Settembre davanti al Mercato Orientale.
(da agenzie)
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