Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
PRESENTE IN PARLAMENTO SOLO NEL 31,75%, ASSENTE NEL 12,48%, IN MISSIONE IN 10.884 VOTAZIONI… PERCHE’ NON DICE CHE LA MISSIONE E’ UN SISTEMA PER EVITARE LA DECURTAZIONE DI 206,58 EURO AL GIORNO?…PERCHE’ NON RIVELA CHE SI BASA SOLO SU UNA AUTOCERTIFICAZIONE?
Premettiamo che nella diatriba scoppiata tra Renzi e Di Maio sulle presenze in aula di quest’ultimo non parteggiamo per nessuno.
Semplicemente rappresentiamo quella fetta di opinione pubblica che pretende di non essere presa per il culo.
Veniamo ai fatti: i dati ufficiali di Open Polis certificano che aveva ragione Renzi quando dalla Annunziata ha affermato che su 19.515 votazioni elettroniche alla Camera il vicepresidente della stessa, Luigi Di Maio, è risultato presente solo il 31,75% dei casi, assente il 12,48%, “in missione” il 55,77%.
Di Maio ha ribattuto che è stato assente solo il 12,48%, non il 68,25%, in quanto “quando non voto, mi trovo o a presiedere o a svolgere un’altra serie di funzioni che mi vedono in missione”.
Nelle due Camere ci si può infatti far indicare in ‘missione’ come prevedono i loro Regolamenti.
Stando ad esempio a quello della Camera, articolo 46 comma 2, i deputati che non vi si trovino per espletare un incarico avuto dalla Camera stessa, così come quanti siano membri del Governo, vengano considerati presenti.
Insomma sono giustificati, contribuiscono a determinare il numero legale ed oltretutto non perdono la corposa diaria giornaliera di 206,58 euro.
Questa facoltà di ‘mettersi in missione’ spetta prioritariamente ai componenti dell’Ufficio di Presidenza, ai Presidenti delle Commissioni parlamentari, ai Capigruppo, oltre che ai membri del Governo.
Che possono farsi risultare in missione in pratica a propria discrezione, ma Di Maio questo non lo dice.
Basta infatti una comunicazione al Servizio assemblea con scritto qualcosa tipo «Egregio Presidente per impegni connessi al mio ufficio le sarei grato di considerarmi in missione per le sedute antimeridiane (pomeridiane ed eventuali notturne) dal (giorno iniziale) al (giorno finale)».
La richiesta viene inviata abitualmente il lunedì mattina per tutte le date previste, eventualmente ulteriormente integrata all’occorrenza.
Mettersi in missione è dunque anche il modo migliore per garantirsi la diaria senza l’obbligo di essere presenti. Per fare questo basta l’autocertificazione, nessun controllo se si sia davvero inviati dalla Camera a ‘rappresentarla’ (o dal Senato, le cui dinamiche sono assolutamente analoghe).
O se invece ci si trovi in ufficio oppure anche impegnati in attività , politiche o meno, che con le istituzioni non hanno nulla a che fare.
In passato ci furono casi eclatanti come la Vezzali che figurava in missione mentre gareggiava in Ungheria, ma il fenomeno è esteso a tutti.
Non a caso le polemiche sui 100.000 euro spesi da Di Maio in rimborsi certifica l’abitudine dell’esponente grillino a un presenzialismo esterno non per “rappresentare le istituzioni” ma piuttosto il partito e se stesso.
Cosa pienamente legittima, ma non a nostre spese.
Libero di essere assente, ma allora rinunci alla diaria giornaliera di 206,58 eurini.
Troppo comodo definirsi “in missione” per non perdere i quattrini, soprattutto se su 5.000 euro della voce stipendio (a parte gli altri 11.000 sotto altre voci) in base alle reali presenze gliene spetterebbero un terzo.
Faccia pure il candidato premier, ma abbia il buon gusto di farlo a spese sue o del suo partito, non con i soldi dei contribuenti.
Prima di fare le pulci agli altri, impari a farle a casa sua, potrebbe essere un buon inizio di trasparenza vera, non quella taroccata.
argomento: Grillo | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
DIMEZZARE LO STIPENDIO AI PARLAMENTARI E’ UNA PAGLIACCIATA, PENSINO AD AUMENTARNE LA QUALITA’, LA SERIETA’ E L’INTEGRITA’… SE UNO APPROVA LEGGI IGNOBILI SAI CHE SODDISFAZIONE AVERLO PAGATO LA META’
La proposta dei cinquestelle di dimezzare gli stipendi dei parlamentari è pura demagogia.
Si sceglie di punire la politica intesa oramai come sinonimo di ladrocinio organizzato, di magna magna eccetera eccetera, invece che affrontare il veleno che deturpa l’immagine della classe dirigente: la prevalente assenza di qualità , di competenza, di integrità di chi è chiamato ad assolvere un mandato elettivo.
Il monte dei parlamentari espulsi dal Movimento avrebbe dovuto suggerire a Beppe Grillo di lasciare l’indennità dove sta e approfondire e forse cambiare i criteri di selezione dei suoi portavoce, molti, troppi dei quali dimostratisi non all’altezza.
Ma sarebbe stato un lavoro più faticoso e forse anche impietoso nei confronti dei suoi compagni di viaggio.
E così ci si incammina verso la via breve, la furbata del dimezzamento dello stipendio per ridurre all’onestà per decreto i parlamentari forse spendaccioni e forse inetti.
La battaglia per il No al referendum ha tra i suoi cardini il giudizio di irrilevanza della riduzione dei costi del nuovo Senato se comparati alla qualità e al curriculum dei nuovi senatori, figure raccolte nel sottobosco della pratica clientelare regionale.
Ed infatti è così. Non serve a nulla risparmiare pochi milioni di euro (cinquanta al massimo) se poi si affidano le sorti della Repubblica a rappresentanti dalle mani bucate, dai profili personali inguardabili, dalle pratiche quotidiane offensive.
La reputazione della politica si recupera rendendo trasparenti e rigorosi i criteri di selezione della classe dirigente, individuando le mele marce senza attendere l’arrivo dei carabinieri o l’inchiesta della Procura, affermando come inviolabile il principio di lealtà verso l’elettore e facendolo rispettare.
Questa proposta non tiene conto del cortocircuito logico che scatena.
E alla demagogia grillina fa da controcanto quella di Matteo Renzi, populista che dichiara di voler combattere il populismo ma che alla prova dei fatti è pari al suo avversario.
Renzi, per puro calcolo elettorale (sa che sulla questione il sentimento popolare è furiosamente contro), propone la risibile idea di allineare lo stipendio alle presenze in Aula.
Come se oggi già non fosse così. Dobbiamo aspettarci allora di vedere i tornelli a Montecitorio?
Non ci rendiamo conto che se il tema resta lo stipendio e non la qualità , la serietà , l’integrità di chi svolge un mandato elettivo, riduciamo la politica a una fornace in cui solo i peggiori sono chiamati e indichiamo ai tanti militanti che è tutto tempo perso. La politica è solo fogna e chi viene eletto — naturalmente uno sfaccendato perchè altrimenti avrebbe impegni assai più seri da attendere — è malandrino per principio.
E se è un malandrino la prima cosa che dobbiamo fare è tagliargli almeno lo stipendio. Certo forse ruberà su tutto il resto, forse contribuirà ad approvare leggi ignobili, a fare da scendiletto a leader sconsiderati, a stare in compagnia di farabutti, però almeno metà dello stipendio glielo abbiamo tolto di mano.
Vuoi mettere la soddisfazione?
Antonello Caporale
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Grillo | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
COSI’ GRILLO PERDE PEZZI IN CASA…. PUTTI LASCIA: “NON MI RICONOSCO PIU’ NEL MOVIMENTO”
“Siamo diventati come il Pd”, sbuffa dalle ultime file un grillino genovese della prima ora.
Giovedì sera, è in corso l’assemblea plenaria, quella che dovrebbe decidere il candidato sindaco alle comunali di Genova del 2017.
L’appuntamento è nella stessa sala del Porto dove si ritrovò il Partito Democratico dopo la disfatta delle Regionali perse da Raffaella Paita nel 2015.
Ma le analogie, secondo qualcuno, non finiscono qui: “Sono divisi in mille correnti: i grillini in Regione in lotta tra loro, poi contro quelli in Comune; i gruppi genovesi contro i savonesi. E tutti insieme contro gli spezzini”, sorride beffardo Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità .
Uno che da anni si batte contro le infiltrazioni mafiose in Liguria. Aveva tentato anche lui di fondare un meet up, anni fa, ma finì a carte bollate con un altro gruppo genovese per chi era il rappresentante doc del Movimento.
Non hanno mai avuto vita facile i Cinque Stelle nella patria di Beppe Grillo. Colpa del caratteraccio dei genovesi, dirà qualcuno. Ma non solo.
E adesso, come si vede nella sala, nei volti paonazzi della gente, la situazione rischia di deflagrare in vista delle comunali di Genova.
“Che il Movimento potrebbe vincere… e forse il guaio è proprio questo. Si comincia a sentire odore di potere”, conclude Abbondanza.
Così, cercando di disinnescare la bomba, venerdì è arrivato il messaggio di Grillo. Appena un post scriptum di due righe: “Per Genova nelle prossime settimane si raccoglieranno le candidature on line per le amministrative del 2017”. Un colpo di spugna sulla decisione dei gruppi genovesi di procedere per acclamazione, come a Torino. Tutto da rifare.
Ma chissà se basterà la voce del grande capo, perchè la frittata sembra già fatta.
A cominciare dall’abbandono di Paolo Putti che nel 2012 era stato il candidato M5S alle elezioni vinte da Marco Doria. “Putti ha fatto un’opposizione anche dura, senza sconti. Ma è una persona di ideali, corretta, uno che ha a cuore la città ”, sostiene Enrico Pignone, consigliere comunale della Lista Doria che pure lo ha avuto come avversario.
Ma il rapporto di Putti con i vertici del Movimento si è incrinato da tempo. Grillo gli ha preferito Alice Salvatore, candidata sconfitta alle regionali del 2015.
Salvatore molto più ortodossa, vicina a Grillo e al Direttorio. Putti in buoni rapporti con Federico Pizzarotti. Una storia già vista.
Alla fine si è arrivati alla rottura: “Non mi ricandido. Non mi riconosco più in quello che è diventato questo Movimento”, così Putti ha chiuso la sua esperienza di cinque anni in consiglio comunale.
In parecchi pensavano che potesse candidarsi. I più preoccupati sembravano proprio i suoi avversari nel Movimento. E anche in questo il Movimento Cinque Stelle Ligure somiglia il Pd: le vecchie guardie lasciano piuttosto polemicamente.
Del resto Movimento e Pd ligure hanno avuto un percorso per molti versi simile: erano i due schieramenti favoriti alle elezioni per la Regione Liguria del 2015 e per le comunali di Savona del 2016.
Pareva una corsa a due. Ma entrambi scossi da faide interne hanno finito per perdere, lasciando la vittoria a un centrodestra che nemmeno ci credeva.
Basta ricordare l’espressione del viso del leghista Edoardo Rixi — oggi assessore della giunta di Giovanni Toti — mezz’ora prima delle elezioni. Cupo, sguardo basso.
Poi ecco i primi sondaggi: “Vittoria, non ci credevo nemmeno io”, sorrise. “Merito di Toti, ma anche dei nostri avversari Pd e Cinque Stelle, ci hanno regalato la Liguria”, si lasciò scappare uno dei suoi collaboratori.
Già , il Pd in quei giorni era diviso tra renziani ed eretici. Proprio come il Cinque Stelle genovese oggi.
Ma le somiglianze non finiscono: il primo candidato del Pd alle prossime primarie è proprio quel Simone Regazzoni che faceva da braccio destro della sconfitta Raffaella Paita in campagna elettorale.
Il primo nome che si sente pronunciare per i candidati Cinque Stelle è Luca Pirondini, musicista, ma soprattutto stretto collaboratore di Alice Salvatore alle regionali perdute contro Giovanni Toti.
“Si fanno votazioni online o primarie per far votare la gente. Ma pare che le tessere e le fedeltà contino più dei curricula”, sussurra Nicola che segue il Movimento dal 2007, da quel Vaffa Day di Bologna.
Anche chi è vicino a Putti si lascia scappare una battuta: “Se continuiamo a candidare i fedelissimi che vengono alle assemblee, gente che non si sa chi sia, facciamo la fine dei vecchi partiti con i loro apparati. Dobbiamo aprirci”.
E adesso si devono scegliere i candidati. Dopo Torino e Roma c’è aria di vittoria, anche per il tracollo del Pd travolto da polemiche e scandali.
Ma la battaglia è incandescente, basta vedere com’è andata a La Spezia (dove si vota in primavera, come a Genova). L’assemblea cittadina aveva scelto come candidato Marco Grondacci, un avvocato ambientalista.
Era passato ottenendo quasi l’unanimità dei voti. Era l’apertura agli esterni, alla società civile (anche se aveva un passato nel centrosinistra cittadino).
Passano poche ore e da Genova e Savona arrivano le prime frecciate. Infine ecco il post di Grillo: il candidato non rispetta il regolamento interno. Bocciato.
Adesso tocca a Genova. Che ha 600mila abitanti, è una città metropolitana. E ha un valore simbolico perchè qui è la patria del padre del Movimento.
Ma lo spettro di Roma si allunga. Luca Paravicini è un cliente abituale della trattoria “A Lanterna”. Proprio quella di don Gallo, a due passi dalla sala dove Pd e Cinque Stelle si sono incontrati.
Racconta: “Ero seduto al tavolo accanto ad alcuni di loro. Li ho sentiti parlare tutta la sera delle correnti, di chi era più forte. Nemmeno un cenno sui programmi, nemmeno una parola d’amore per questa nostra benedetta città ”.
Difficile, quasi impossibile, chiedere un parere alla gente del Movimento. Pochi accettano di rilasciare una dichiarazione con nome e cognome. Ma qualcuno dice: “Non possiamo fare come a Roma”.
Siete come il Pd? “Macchè, loro candidano sempre le stesse persone. Gente fin troppo nota”. Ma voi? “Noi rischiamo di fare l’errore opposto, di puntare su persone senza un passato. Senza garanzie. È molto diverso da essere nuovi. Bisogna stare attenti, perchè il potere ti trasforma. E per amministrare una città ci vuole gente in gamba”.
Ferruccio Sansa
(da “il Fatto Quotidiano“)
argomento: Grillo | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
CHISSA’ CHE FASTIDIO DARANNO 11 DONNE E 8 BAMBINI ASSEGNATI AD UN OSTELLO… SE FOSSERO STATI BLOCCHI DI ALTRI MOVIMENTI LI AVREBBERO GIA’ PRESI A MANGANELLATE
La Lega Nord di Ferrara l’aveva annunciato fin dal mese di agosto: contro i profughi, alzeremo le barricate. Ed è accaduto questa sera, a Gorino, frazione del Comune di Goro, affacciato sul Delta del Po.
Al prefetto di Ferrara, Michele Tortora, che ha requisito parzialmente l’ostello di Gorino “Amore Natura” per ospitare undici donne e otto bambini, cinque camere in tutto, qualche decina di facinorosi ha risposto costruendo barricate e bloccando le strade, per impedire il passaggio del pullman scortato dalle forze dell’ordine.
Bancali di legno sono stati posizionati in tre punti d’accesso a Gorino, che conta in tutto 600 residenti, e sarebbe in corso una mediazione con le decine di manifestanti aggregati ai blocchi.
L’arrivo era annunciato nell’ambito dell’accoglienza nazionale.
Goro è un comune di meno di 4000 abitanti ed è amministrato da una lista civica, e il sindaco, dal 2011, è Diego Viviani.
La decisione di requisire parzialmente l’ostello bar Amore-Natura, “tenuto conto della saturazione delle strutture già funzionanti”, ha spiegato la Prefettura con una nota ufficiale, è per ospitare 11 donne, “gruppo di migranti assegnato alla provincia di Ferrara”. Il prefetto ha precisato che la requisizione “ha carattere eccezionale straordinario”, rivolgendo un appello “ad amministrazioni pubbliche, associazioni di volontariato e strutture ecclesiastiche affinchè offrano ogni collaborazione”, anche per “ulteriori esigenze”, verosimili “anche a breve”.
(da agenzie)
argomento: denuncia | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
CENSIS: COME SONO CAMBIATE LE ABITUDINI ALIMENTARI DEGLI ITALIANI
Simona lavora in fabbrica e la bistecca per tutta la famiglia non se la può permettere. Fiorella, contabile in pensione, coltiva l’orto, fa il pane in casa e al ristorante non ci va mai. Ina, moglie di un funzionario di banca, compra solo frutta di stagione e il pesce azzurro che costa meno.
Hanno storie, età e finanze diverse ma una cosa in comune: tutte si sono ritrovate a fare i conti con la spesa, i soldi che non bastano.
Costrette a ridurre carne e pesce, frutta e verdura, ma anche pasta sulle loro tavole. A lavorare di fantasia, caccia agli sconti e riutilizzo degli avanzi per garantire qualità del cibo in famiglia.
Le loro storie sono il simbolo di un paese che cambia, dove il 12% delle famiglie ha tagliato la spesa alimentare, dove il pranzo che una volta univa gli italiani, ora torna a dividerli per classi sociali: è arrivato il food social gap, racconta un’indagine del Censis.
Perchè a causa della crisi operai e pensionati hanno ridotto gli acquisti molto di più delle famiglie benestanti.
Cosi pranzi e cene diventano metro del divario che si approfondisce sempre di più tra nuclei a basso e ad alto reddito. Lo confermano le statistiche: fotografano una crisi che da Nord a Sud ha cambiato i menù con gravi rischi per la salute.
Nell’ultimo anno, 16,6 milioni di italiani hanno ridotto il consumo di carne, 10,6 milioni quello di pesce, 9,8 milioni la pasta, 3,6 milioni la frutta, 3,5 milioni la verdura.
E meno si guadagna più si risparmia nella scelta del cibo: negli ultimi 7 anni la spesa alimentare è diminuita in media del 12,2% ma nelle famiglie operaie è crollata del 19,4 e tra i disoccupati del 28,4%.
Se si guarda nel frigorifero la disparità sociale è confermata da ogni tipo di cibo: hanno tagliato il consumo di carne il 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% dei benestanti, sul pesce il 35,8% dei meno abbienti contro il 12,6% dei più ricchi.
Per la verdura, il consumo familiare è diminuito del 15,9% tra chi ha basso reddito rispetto al 4,4% dei benestanti.
Per la frutta, la riduzione tocca il 16,3% dei meno abbienti e solo il 2,6% delle famiglie più ricche. Senza contare che in media poi il 21% degli italiani ha comprato meno pasta.
“Questo significa che molti non possono permettersi i cibi base della dieta mediterranea. La tavola diventa così luogo di iniquità sociale che produrrà rilevanti costi sociali: sempre più gente malata o obesa”, sottolinea Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis.
Anche perchè peggio si mangia più ci si ammala. Il taglio di proteine e vitamine aumenta il rischio di patologie, dicono gli esperti.
Il tasso di obesità , racconta l’indagine, è più alto nelle regioni dove i redditi sono più bassi e la spesa alimentare in picchiata.
Come al Sud dove negli ultimi sette anni la spesa è crollata del 16,6 % e il reddito in media è di un quarto inferiore alla media nazionale: qui obesi e sovrappeso sono il 49,3%, quasi metà della popolazione.
Attraverso la tavola si può leggere la storia del nostro paese dal boom economico, con il benessere che cancella malattie come pellagra e scorbuto dovute all’assenza di frutta e al nuovo millennio dove cresce la voglia di cibo genuino.
Ora la crisi cambia lo scenario: non mangia carne l’8% delle famiglie benestanti e il 15 di quelle a basso reddito, sottolinea il Censis.
Lo conferma Simona Marchesi, operaia perugina che ha tagliato del 10% della spesa a cui dedicava 400 euro. “A casa carne poca, quella con i nervetti per i bambini che devono crescere, per noi adulti ho riscoperto i legumi come fonte di proteine. Ma io sono fortunata, ho l’orto per la verdura mentre di frutta ne compro poca e di stagione. Il pesce, solo azzurro o con le lische che costa meno come lo sgombro. Biscotti aboliti, faccio io una torta per la mattina. E comunque preferisco rinunciare ad un vestito che togliere qualità dai piatti”.
Stessa filosofia, grandi abilità in cucina e inventiva a casa di Fiorella Villa, che abita col marito anche lui pensionato ad Orsenigo e spende 400 euro al mese per garantire cibo e dolcezze anche a figli e nipoti di passaggio.
“Pane, pizza, dolci li faccio a casa, gli avanzi non esistono, tutto si può riciclare. Frutta solo di stagione, verdura dell’orto, carne sì ma non bistecche, piuttosto brasati. E poi bresaola, salmone, formaggi affumicati da mio marito”.
Benestante, Ina Marrella vive a Siena col marito funzionario di banca. Lei non ha tagliato la spesa ma ricicla, sceglie e impasta. “Il pesce? Solo azzurro, i figli vorrebbero i bastoncini ma sono cari cosi compro le sogliole e le faccio impanate. Riciclo gli avanzi: la pasta il giorno dopo diventa frittata, i formaggi vanno al forno, faccio conserve, marmellata, biscotti e torte”.
A rileggere le loro storie viene da dare ragione a Simona quando dice: “La crisi la pagano e la risolvono soprattutto le donne che fanno superlavoro a casa e fuori per far quadrare i conti. E miracoli in cucina”.
Caterina Pasolini
(da “la Repubblica“)
argomento: denuncia | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
UN DEPUTATO IN ITALIA INCASSA CIRCA 16.000 EURO AL MESE, SUDDIVISI IN PIU’ VOCI… IL BLUFF DEL M5S CHE HA RINUNCIATO NON ALLA META’ COME DICE, MA SOLO A 2.500 EURO AL MESE
Quanto ci costa la “casta”? A noi italiani sicuramente di più rispetto ai cittadini degli altri paesi europei. I parlamentari di casa nostra, infatti, hanno gli stipendi più alti d’Europa.
Un dato confermato da diversi studi condotti negli ultimi anni, dalla relazione della commissione Giovannini, presieduta dall’allora presidente dell’Istat, al dossier Ocse-Eurostat, a uno studio più recente dell’Economist basato su dati del Fondo Monetario Internazionale (Fmi).
Più in dettaglio, un onorevole italiano guadagna in media sei volte e mezzo più di un elettore e porta a casa uno stipendio lordo mensile che, tra indennità parlamentare, diaria e rimborso di trasporto, supera i 16mila euro: il 60% in più rispetto alle media Ue. E anche i vitalizi fanno la differenza: da noi sono il triplo che altrove.
Altri dati in sterline arrivano dalla Independent parliamentary standards authority (Ipsa), in un confronto che prende in considerazione anche Paesi extrauropei: gli italiani guidano la classifica con un salario di 120.546 sterline, seguiti da Australia (117.805), Stati Uniti (114.660), Canada (100.166) e Norvegia (87.964).
Nella seconda parte della classifica ci sono invece Irlanda (79.556), Germania (78.979), Nuova Zelanda (74.154), Svezia (69.017).
Infine gli ultimi tre sono Regno Unito (66.396), Francia (56.815) e Spagna (28.969). Su questi dodici paesi la media è di 82.918 euro. L’Italia la supera del 45%.
Il ddl sul dimezzamento degli stipendi dei parlamentari proposto dal M5s, del quale oggi comincia la discussione nell’Aula di Montecitorio, riaccende dunque i riflettori sull’annoso tema del taglio dei costi della politica.
Vediamo allora quanto guadagnano i politici italiani rispetto ai loro colleghi europei (inclusi i britannici) sulla base dei dati dello studio comparato della commissione Giovannini. Ad eccezione dell’Italia, negli altri casi prendiamo in considerazione solo i deputati, o meglio i membri della “”camera bassa”.
ITALIA
La Camera ha 630 deputati. L’indennità parlamentare è di 11.703,64 euro lordi, che diventano 5.486,58 al netto di ritenute fiscali e previdenziali.
Il rimborso spese per il soggiorno è di 4.003 euro. A questa somma vengono detratte 206 euro per ogni giorno di assenza quando si svolgono votazioni elettroniche.
I deputati viaggiano gratis in autostrada, treno (prima classe), nave e aereo sul territorio nazionale.
Per i trasferimenti in aeroporto c’è un rimborso: da 1.107 a 1.331 euro al mese.
In più, 4.190 euro per il rapporto eletto-elettore, utilizzabile per lo stipendio dei collaboratori. 258 per le telefonate. 2.500 (per legislatura) di spese informatiche. Assegno di fine mandato: 46.814 euro per una legislatura, 140.443 per tre.
Il vitalizio: 2.486 euro al mese dai 65 anni con un mandato, 4.973 euro dai 60 anni con due, 7.460 euro con tre.
Il Senato ha 315 senatori, che ricevono importi simili a quelli dei deputati. Un senatore ogni mese riceve 11.555 euro di indennità , 3.500 di diaria, 1.650 euro per i trasporti e 4.180 euro per le spese di rappresentanza.
FRANCIA
L’Assemblèe nationale ha 577 deputati. L’indennità lorda è di 7.100 euro, 5.677 tolte le ritenute previdenziali, ma il netto varia in base all’imposta sul reddito.
Alcuni parlamentari hanno a disposizione uffici doppi dove dormire, altri alloggiano in un residence a tariffa agevolata.
Possono avere un prestito di 76mila euro al 2 per cento per comprare un appartamento. Libera circolazione ferroviaria, ma solo 40 viaggi aerei pagati fra il collegio e Parigi, e 6 fuori collegio. 6.400 euro al mese per spese relative al mandato. E 9.138 euro per la retribuzione di non più di cinque collaboratori, pagati dal deputato o direttamente dall’assemblea.
Non hanno un assegno di fine mandato ma un sussidio di reinserimento, se disoccupati, per al massimo tre anni. Vitalizio di 1.200 euro per un mandato a partire dai 60 anni ora (e da 62 nel 2018), 2.400 per due.
GERMANIA
Il Bundestag ha 620 parlamentari. Indennità lorda di 7.668 euro, il netto varia in base all’imposta sul reddito. Non ci sono ritenute previdenziali.
Contributo mensile di 3.984 euro per l’esercizio del mandato, con trattenute da 50 a 100 euro per i giorni di assenza (20 euro per malattia, nessuna trattenuta per maternità o figli malati).
Libera circolazione ferroviaria, rimborso dei viaggi aerei nazionali nell’esercizio delle funzioni e con giustificativi di spesa. Tutti hanno un ufficio arredato nei palazzi del Bundestag, e la possibilità di spendere 1.000 euro al mese per gestirlo.
Ogni deputato può assumere collaboratori a carico del Parlamento per un massimo di 14.712 euro. Nessun assegno di fine mandato ma un’indennità provvisoria per 18 mesi. Vitalizio a 67 anni, 961 euro lordi per 5 anni, 1.917 per dieci.
GRAN BRETAGNA
L’House of Commons ha 650 membri. L’indennità mensile lorda è di 6.350 euro, il netto varia, così come il contributo previdenziale.
Come diaria si può richiedere un rimborso massimo mensile di 1.922 euro, di cui 1.680 per rimborso locazione.
Chi preferisce l’albergo può spendere fino a 150 euro a notte. Sono rimborsati gli spostamenti in taxi e metropolitana (taxi solo dopo le 23) e i viaggi per l’esercizio delle funzioni solo in classe economica. 1.232 euro di rimborso per l’ufficio nel collegio, 1.004 euro per le spese.
I collaboratori li paga un’agenzia per conto del Parlamento, fino a un massimo di 10.500 euro al mese. Al termine del mandato possono chiedere un rimborso di 47mila euro per spese connesse al completamento delle funzioni. Il vitalizio, dai 65 anni, varia in base ai contributi versati: 530 euro lordi per un mandato con il minimo, 794 euro con il massimo.
PAESI BASSI
La Tweede Kamer (o Camera Bassa) è composta da 150 deputati.
L’indennità mensile lorda è di 8.503 euro, la diaria prevede un massimo mensile di 1.636. Libera circolazione sui treni in prima classe.
Se il parlamentare sceglie l’auto gli vengono rimborsati 37 centesimi al Km se non esistono mezzi pubblici alternativi. Se invece esistono, il rimborso sarà solo di 9 centesimi di euro al Km. Per le spese di segreteria e rappresentanza ha diritto ad altri 203 euro mensili.
BELGIO
La Camera dei rappresentanti conta 150 membri. L’indennità parlamentare mensile lorda è pari a 7.374 ma non è prevista nessuna diaria. Libera circolazione su treni, aerei, navi e in autostrada. Per le spese di rappresentanza è previsto un rimborso di 1.892 euro, che comprende però anche le spese telefoniche e la dotazione informatica. I collaboratori dei deputati sono dipendenti della Camera.
AUSTRIA
Il Consiglio nazionale austriaco ha 183 membri. L’indennità mensile è di 8.160 euro, più 489 euro di spese di rappresentanza che comprendono anche la diaria, le spese per i viaggi e per il telefono. I collaboratori sono dipendenti della Camera e guadagnano al massimo 2.387 lordi.
SPAGNA
Lo Congreso de los diputatos è composto da 350 membri. Gli onorevoli spagnoli sono all’ultimo posto nella classifica europea con un’indennità mensile lorda di 2.813 euro. L’indennità di residenza è di 1.832 euro per gli eletti fuori Madrid, 870 euro per gli eletti di Madrid. I rimborsi spese per i viaggi sono pari a 150 euro al giorno per l’estero e 120 euro per gli spostamenti interni.
PARLAMENTO EUROPEO
Il Parlamento europeo ha 736 deputati. L’indennità netta è di 6.200 euro, l’indennità di soggiorno di 304 euro ogni presenza. Documentandoli, i deputati possono farsi rimborsare i viaggi effettuati per raggiungere le sedi parlamentari. Ci sono anche indennità fisse basate su distanza e durata del viaggio. E 354 euro al mese di rimborso per viaggi al di fuori dello Stato di elezione per motivi diversi dalle riunioni ufficiali. Ci sono 4.299 euro mensili di rimborso spese generali (ufficio, telefono, informatica). E collaboratori pagati dal parlamento per un importo massimo di 19.709 euro.
A fine mandato indennità (non cumulabile con pensioni o stipendi) da 6 a 24 mesi. Il vitalizio scatta a 63 anni, 1.392 euro per un mandato, 2.784 per due, 5.569 euro dai 20 anni in poi.
(da “La Repubblica”)
argomento: la casta | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
PARAGONA LA RIVOLTA DEL ’56 CONTRO IL COMUNISMO ALLA SUA CONTRO L’EUROPA: IL LEADER XENOFOBO SOMMERSO DA UN OCEANO DI FISCHI, COMINCIA IL CONTO ALLA ROVESCIA ANCHE PER LUI
Viktor Orban, il popolare premier nazionalconservatore ungherese, fischiato in piazza. Non era mai accaduto prima da quando nell’aprile 2010 è tornato al potere, riconfermato dopo quattro anni.
E’ accaduto ieri sera domenica, nella circostanza peggiore per il leader magiaro: fischi, contestazioni, proteste contro il suo stile di governo autocratico e l’amicizia spregiudicata con Putin, proprio mentre egli pronunciava il solenne discorso di commemorazione del sessantesimo anniversario dell’eroica rivoluzione ungherese del 1956.
Quando cioè il paese magiaro guidato dai leader politici e militari comunisti-riformatori difese con le armi fino all’ultimo sacrificio la sua voglia di rinnovamento democratico, indipendenza e libertà .
E’ uno schiaffo, poco dopo lo smacco del quorum mancato al referendum anti-quote di ripartizione di migranti imposte dalla Ue, che indebolisce Orbà n sulla scena europea e globale.
E’ avvenuto a Kossuth tèr, piazza Kossuth (dal nome di un’eroe delle lotte magiare per l’indipendenza del 19mo secolo, un Mazzini o un Cavour di Budapest), il magnifico monumentale spazio attorno all’enorme Orszaghà z, il maestoso parlamento neogotico ungherese.
Orbà n ha cominciato subito a parlare ricordando a modo suo eroi e martiri del 1956. Senza troppo attaccare l’invasore russo di allora per non infastidire il suo amico Putin, ha parlato di lotta per la libertà della nazione.
Paragonandola alla sua lotta di oggi contro l’Unione europea, contro la Commissione di Bruxelles che critica e attacca il governo ungherese per gli attacchi ai valori costitutivi della Ue.
Per il Muro antimigranti e la mancanza di solidarietà con i paesi donatori (senza cui aiuti i conti sovrani ungheresi non sarebbero così sani). Per le pesanti limitazioni alla libertà di stampa e alla separazione tra poteri esecutivo legislativo e giudiziario. Per gli ultimi strappi come la chiusura del maggiore media critico Nèpszabadsà g, storico quotidiano comprato e chiuso appunto da un oligarca amico del premier, Loerinc Mèszaroes.
“Noi non ci lasceremo sovietizzare da Bruxelles e dalla Ue, noi resteremo nazione sovrana, lo vogliamo oggi come lo volemmo nel ’56”, ha detto Orbà n.
E allora è partita a sorpresa una marea di fischi e urla di contestazione della folla.
Il premier ripreso dalle telecamere di tutto il mondo è apparso visibilmente nervoso sorpreso e indispettito.
Gli uomini di mano del suo partito, la Fidesz (membro del Partito popolare europeo a livello Ue) sono passati all’azione con attacchi violenti contro i contestatori. Non pochi i feriti trasportati in ospedale, tra cui ad esempio l’autorevole storico Krisztian Ungvary, pestato a sangue.
La polizia ha cercato di dividere i due campi, ma i feriti sono stati non pochi
E’ il secondo smacco in un giorno per Orbà n, dopo la clamorosa grande assenza dei leader del mondo libero. Che per la prima volta dalla fine del comunismo — cioè da quando l’anniversario della rivoluzione ungherese è festa nazionale — hanno declinato tutti l’invito.
Tutti, tranne il capo dello Stato polacco Andrzej Duda, uomo di fiducia dello storico, fortissimo leader nazionalconservatore ed euroscettico polacco Jaroslaw Kaczynski. Per Merkel e Renzi, per Hollande o per il premier svedese Stefan Loefvèn, una foto di famiglia in pubblico con Orbà n che rilegge la storia riabilitando il dittatore Miklos Horthy non è proprio l’evento pubblico più desiderabile.
Isolato dal mondo civile e ora anche contestato dal suo popolo: per Orban il momento del giudizio sta arrivando.
(da agenzie)
argomento: Razzismo | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
IL CECATO SVUOTO’ 147 CASSETTE, COLPENDO MAGISTRATI, AVVOCATI, FUNZIONARI DELLA GIUSTIZIA, CONNESSI AI GRANDI MISTERI D’ITALIA
La genesi di “mafia Capitale” si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica.
Stragi, terrorismo e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista.
Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del “governo tecnico”:
D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita.
L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom.
Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura.
Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio.
L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La “città giudiziaria” è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti.
A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri.
«Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il “Cecato”.
Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione.
Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi.
Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo».
Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro.
Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate.
Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti.
Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico.
Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante.
I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi».
Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perchè «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa»
Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perchè appartenevano a cittadini qualunque.
Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18».
Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati.
Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale.
Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone.
Adesso “l’Espresso” ha recuperato le copie degli atti più importanti , da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime.
Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati.
Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione.
La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto».
Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia.
Per i giudici amici era “Nembo Sic”, l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici.
I detrattori invece lo chiamavano “Rubamazzo”, da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi.
Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale.
Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia.
Contattato dall’Espresso , il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perchè in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione».
Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale.
«Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete… Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele…». Giosuè Naso è il difensore di Carminati.
Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi».
Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove»
I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalentge in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno.
Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione.
Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite.
Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell'”eroe borghese” Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti.
Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia.
Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza.
Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia.
Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra.
Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati.
Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati.
Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale».
Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto
Tutte le sentenze meritano rispetto perchè il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede.
La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti.
Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi.
Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata.
A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri.
Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!».
La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.
Lirio Abbate e Paolo Biondani
(da “L’Espresso”)
argomento: Giustizia | Commenta »
Ottobre 24th, 2016 Riccardo Fucile
LA LETTERA DI RICHIAMO INVIATA ANCHE AD ALTRI PAESI…RICHIESTA DI INFORMAZIONI E SUGGERIMENTI
Arriverà a Roma tra oggi pomeriggio e domani mattina la lettera di richiamo sulla manovra firmata dalla Commissione europea.
Una richiesta di informazioni sulle falle della legge di bilancio che implicitamente suggerirà le modifiche richieste al governo per chiudere la partita sui conti: le eccessive coperture una tantum che non garantiscono la tenuta del bilancio e lo sconto sul deficit per circostanze eccezionali che per Bruxelles il governo ha quantificato in modo troppo generoso.
La Commissione è pronta a riconoscere l’aumento delle spese sui migranti per il prossimo anno rispetto al 2016, mentre sul sisma accetta di scorporare dal deficit la ricostruzione delle zone colpite il 24 agosto ma non il piano per mettere in sicurezza tutte le zone a rischio catastrofe del Paese.
Questo impongono le norme Ue, modificabili solo con il consenso di tutti i governi. Con la conseguenza che la Commissione non approva il deficit 2017 al 2,3% previsto dalla finanziaria.
Chiede che venga limato di un decimale. Uno sforzo di appena 1,6 miliardi quello richiesto da Bruxelles che lo scorso anno ha concesso all’Italia 19 miliardi di flessibilità e quest’anno già forzando le regole sarebbe pronta a dare altri 15 miliardi di bonus sul risanamento.
Matteo Renzi ieri ha sminuito l’arrivo della missiva definendola “fisiologica, il problema non è lo 0,1%”.
Quindi ha chiesto sostegno nella sfida per ridiscutere nel 2017 il Fiscal Compact e ha ribadito che i paesi dell’Est che non accettano i rifugiati dovranno essere penalizzati nel prossimo bilancio europeo.
E comunque il premier quello 0,1% di deficit, così come la composizione della manovra non intende cambiarla.
A questo punto Bruxelles si attiene al calendario stilato la scorsa settimana: prima la lettera che terrà aperta la porta a una bocciatura della manovra che tuttavia, nonostante le regole lo permetterebbero, non sarà rigettata già il 31 ottobre. Il 9 novembre la presentazione delle previsioni economiche, a metà mese l’opinione (negativa ma non irreversibile) sulla finanziaria e solo dopo Natale l’eventuale bocciatura definitiva con apertura di procedura di infrazione sui conti.
Nelle prossime ore non sarà solo l’Italia a ricevere la missiva europea, ma anche Francia, Olanda, Belgio, Spagna e Portogallo.
Ma il caso italiano preoccupa particolarmente Bruxelles, dove ieri hanno letto l’intervista a Repubblica di Pier Carlo Padoan con una certo disappunto.
Ufficialmente la Commissione non ha commentato le sue parole, ma ai piani alti del Berlaymont l’intervista è stata ritenuta ingiustamente dura verso i vertici comunitari. D’altra parte in Commissione spiegano che il tentativo è proprio quello di evitare uno scontro con l’Italia e di non influire sulla campagna per il referendum, a maggior ragione con l’Europa spaccata tra Est e Ovest sui migranti e ancora sotto shock per Brexit. Tuttavia Juncker e il commissario agli Affari economici Pierre Moscovici devono avere un piccolo aiuto da Roma, visto che un ok all’attuale versione della manovra – di fatto troppo lontana dai parametri europei – verrebbe impallinato dagli altri governi all’Eurogruppo (ministri delle Finanze).
Con il risultato di inguaiare lo stesso l’Italia e di costare l’accusa di favoritismo ai vertici comunitari, che ne uscirebbero con la reputazione a pezzi.
Considerazioni che il governo per ora non ascolta, tanto che Renzi ha incaricato i suoi di recapitare a Bruxelles minacce di pesanti ritorsioni politiche in caso di bocciatura.
A Bruxelles sperano che dopo il referendum l’atteggiamento del premier cambi, ed è per questo che hanno allungato i tempi sperando che a dicembre il governo modifichi la manovra.
Altrimenti si andrà alla rottura e il timore è che a quel punto l’Italia lasci correre il deficit ben oltre il 2,3% , creando un problema a tutta la zona euro.
(da “La Repubblica“)
argomento: Europa | Commenta »