Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
IL PREMIER NON SI FIDA PIU’, L’OMBRA DI LOTTI
Governo e corazzata del Sì hanno una profonda quanto vistosa crepa.
La meno prevedibile: tra il gran capo Matteo Renzi e l’ormai ex pupilla Maria Elena Boschi. Un’immagine imprime alla perfezione lo stato dei rapporti tra i due, è quella scattata alla Camera la mattina di mercoledì 12 ottobre durante l’intervento in aula del premier sul Consiglio europeo.
Boschi non siede al fianco di Renzi, ma al lato estremo dei banchi. Una scena mai vista. Lontana, in disparte. E dopo appena dieci minuti dal suo arrivo si alza e se ne va, nonostante il premier stesse ancora parlando.
Un comportamento notato da alcuni dei (pochi) deputati presenti in aula. Non sarà certo il segnale dell’epilogo, nè la caduta del petalo fino a pochi mesi fa ritenuto il più prezioso e forte del Giglio magico. Ma è evidente che sia appassito.
Boschi non sarebbe il primo fedelissimo eliminato da Renzi. Di precedenti ce ne sono molti. A Firenze come a Roma. Il premier ha mostrato il suo carattere. Quando qualcuno crea problemi, chiunque sia, viene lentamente allontanato ed escluso.
In un momento delicato come questo, con il referendum alle porte, nessuna debolezza è accettabile. Tanto meno gli errori.
Lo ha detto chiaramente ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori e amici fidati. Con un messaggio lo scorso 5 ottobre si lamentava: “Non so più come fare”. E chi lo conosce riferisce che la sua non è rabbia ma sconforto, quasi rassegnazione.
L’accusa di lei: “Non mi difendi
Il conflitto tra i due è iniziato prima dell’estate quando l’allora (ancora) pupilla ha accusato Renzi di averla abbandonata a difendersi dalle polemiche scaturite dalla vicenda Etruria che ha coinvolto il padre, Pier Luigi Boschi, ex vicepresidente dell’istituto di credito e indagato per bancarotta fraudolenta.
Fonti vicine a entrambi raccontano (e confermano) di uno sfogo da parte della ministra nella stanza di Renzi a Palazzo Chigi. Lui inchiodato sulla sedia. Lei in piedi, dall’altra parte della scrivania.
Sfogo durante il quale lei ha snocciolato al Capo tutto il malessere covato nei mesi, partendo dal rinfacciargli di non essersi schierato al suo fianco durante la Leopolda nel dicembre del 2015, quando fu travolta dallo scandalo del padre e costretta a rimandare la sua presenza di un giorno alla Medjugorje renziana.
Da quell’11 dicembre, quando lei si nascose a Laterina a casa dei genitori, invece di essere alla stazione fiorentina; e Renzi non la chiamò nè cercò direttamente, ma la fece avvisare dai suoi lanzichenecchi. “Ditele che sono arrabbiato, sta sbagliando”, era il messaggio trasmesso per interposta persona.
Da allora i rapporti si sono fatti più freddi. E spesso sono stati mediati da un altro fedelissimo, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Luca Lotti.
L’ex capo gabinetto di Palazzo Vecchio nel tempo ha preso il sopravvento, commissariando Boschi e frapponendosi tra lei e Renzi.
La necessità di lavorare pancia a terra per la propaganda al Sì in vista del referendum ha allontanato ancora di più i due. E quando a metà settembre il premier ha approvato il tour all’estero di Boschi dettandole dei paletti comportamentali, lei ha sbottato nuovamente rivendicando una autonomia pari a quella ormai raggiunta da Lotti. Senza ottenerla. Perchè le raccomandazioni ricevute da Renzi sono cadute nel nulla.
Una, in particolare: “Non concedere interviste specifiche sulla riforma”.
A Buenos Aires “per cambiare l’Italia
Il premier le aveva chiesto di camuffare il tour di campagna elettorale all’estero per il Sì in una missione istituzionale. E invece Boschi si è concessa alla stampa, caldeggiando la necessità della riforma.
Su quotidiani e tv argentine è rimbalzato anche quanto dichiarato la sera del 27 settembre al teatro Coliseo di Buenos Aires, dove ha incontrato la comunità degli italiani residenti in Argentina. Oltre mille persone (e voti) presenti. E l’ambasciatore Teresa Castaldo a fare gli onori di casa. Il ministro ha scandito dal palco: “Questo è un referendum decisivo, potete decidere se cambiare il nostro Paese votando il Sì, o se lasciare le cose come stanno votando No”.
Dichiarazione riportata anche in Italia dall’Ansa. Il giorno successivo il Fatto ha smascherato il bluff della missione istituzionale. E Palazzo Chigi si è affrettato a smentire: “Non è in programma nessuna iniziativa di partito”.
Ma poche ore dopo, la conferma è arrivata da Boschi che ha pubblicato su Twitter e Facebook le foto del comizio al Coliseo accompagnate da un sintetico status: “A Buenos Aires per raccontare come stiamo cambiando il nostro Paese. Per un’Italia più semplice basta un Sì”.
Il messaggio era fin troppo chiaro. A Palazzo Chigi però è risuonato come un allarme. Renzi ha accettato lo scontro e deciso di investire ancora di più Lotti nel “controllo” del petalo appassito. Diminuendone ulteriormente l’autonomia. E così anche i suoi interventi televisivi nei comodi (e accomodanti) talk italiani sono dovuti passare al vaglio del commissario.
Il 5 ottobre c’è il salotto di Porta a Porta. Maria Elena è invitata a confrontarsi con Stefano Parisi, il leader a metà del centrodestra, investito da Silvio Berlusconi e osteggiato dai forzisti doc capitanati da Renato Brunetta. Parisi è un moderato e soprattutto, per quanto si sia timidamente schierato per il No (invitando Renzi a rimanere al suo posto), rappresenta una fascia di elettorato cui il premier guarda con bramosia. A Boschi viene dato il via libera a partecipare con il suggerimento di occhieggiare a Parisi per accattivarsi il suo seguito. E che fa la Boschi? Aggredisce Parisi. Lo pressa. Fino a spingerlo ad ammettere: “Forza Italia non è il mio partito”. La performance non piace a Palazzo Chigi.
Renzi ha deciso di fare da solo. Almeno per ora. Almeno in tv. Lei rimane il volto della riforma, ha presentato il libro Perchè Sì e va in giro per l’Italia a fare campagna elettorale ma le è stato vietato — a oggi — di parlare con la stampa.
I rapporti idilliaci con il capo sono ormai un ricordo. C’è chi già dà per certo che il ruolo di Maria Elena sarà ulteriormente ridimensionato. Gira, con insistenza, lo scoramento del capo: “Non so più come fare”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
L’ITALIA HA RINUNCIATO A COMBATTERLA, NON BASTA STANZIARE 1 MILIARDO QUANDO NE SERVIREBBERO 18
Domani, 17 ottobre, è la giornata mondiale per l’eliminazione della povertà , istituita nel 1993 dalle Nazioni Unite. Povertà e disuguaglianze sono oggi i principali problemi del nostro Paese e del nostro continente. Ma quel che è ancor più grave, è che ogni anno per noi italiani è sempre peggio.
Gli ultimi dati Istat, Eurostat, Svimez, Censis denunciano una vera e propria emergenza sociale e democratica. «Un sistema di protezione sociale tra quelli europei meno efficace ed incapace di far fronte all’aumento di diseguaglianze e povertà », queste le parole pronunciate lo scorso 20 maggio alla Camera dal presidente dell’Istat, Giovanni Alleva, durante la presentazione dell’ultimo rapporto 2016 sulla situazione del Paese
Disuguaglianze e povertà aumentano, nonostante la crescita economica.
I dati sono drammatici ed al tempo stesso inequivocabili: l’indice Gini sulle diseguaglianze di reddito è aumentato da 0,40 a 0,51, dal 1990 al 2011, portando il nostro Paese ad essere quello con l’incremento peggiore d’Europa dopo la Gran Bretagna, in cui si registra un indice dello 0,52; il 28,3% della popolazione è a rischio povertà , in particolar modo al sud; altissimo il numero della povertà assoluta, che colpisce quasi 5 milioni di italiani, triplicati negli ultimi 8 anni, così come il numero dei miliardari, arrivati a 342, a dimostrazione che la ricchezza c’è ma il sistema la ridistribuisce verso l’alto.
Resta immutato all’11,5% l’indice di grave deprivazione materiale che colpisce le famiglie. L’Istat denuncia come il sistema di trasferimenti italiano (escludendo le pensioni) non sia in grado di contrastare la dinamica di costante impoverimento, che colpisce soprattutto donne, minori, famiglie monoparentali, migranti già residenti.
Il progressivo deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha contribuito in maniera determinante all’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, colpendo soprattutto giovani e donne
Instabilità lavorativa e precarietà sono tra i principali fattori che generano i maggiori svantaggi distributivi
Questo spiega la crescita dei Neet, gli under 30 che non sono occupati, non studiano ed hanno smesso di cercare lavoro.
Nel 2015 erano oltre 2,3 milioni, in grande aumento rispetto al 2008 ma in leggero calo rispetto al 2014 (-2,7%).
A conferma di una situazione che vede i giovani del nostro Paese tra i più discriminati del continente, i dati del rapporto Istat sulla mobilità sociale e sugli effetti occupazionali del percorso di studi testimoniano un sistema sociale bloccato e/o altamente selettivo, nel quale l’accesso ad un buon lavoro è possibile solo per chi ha condizioni di partenza migliori
Il nostro sistema di protezione sociale è sottofinanziato ed inadeguato.
L’Istat fa l’esempio di altri Paesi europei che nonostante le politiche di austerità imposte dalla governance hanno garantito e finanziato sistemi di welfare in grado di evitare o contenere l’aumento della povertà .
Il rapporto dimostra che si poteva e doveva fare decisamente molto di più per evitare il disastro sociale. Il problema non è certo di assenza di risorse, ma di priorità scelte dalla politica.
Dal rapporto emerge infatti come nel 2014 il tasso delle persone a rischio di povertà si riduceva, dopo i trasferimenti, di 5,3 punti (dal 24,7 al 19,4%) a fronte di una riduzione media nell’Ue a 27 Paesi di 8,9 punti.
Le disparità all’interno dell’Unione sono notevoli.
L’Irlanda è il Paese europeo con il sistema di trasferimenti sociali più efficace, in grado di ridurre l’indicatore di rischio di povertà di 21,6 punti; segue la Danimarca (14,8 punti di riduzione). Soltanto in Grecia (dove il valore dell’indicatore si riduce di 3,9 punti) il sistema di trasferimenti sociali è meno efficace di quello italiano
Questo stato di cose spiega perchè anche in presenza di una crescita del Pil non vi sia un miglioramento delle condizioni di vita per chi è in difficoltà , anzi il divario come abbiamo visto aumenta.
Così come è stato ampiamente dimostrato che non vi è nessuna relazione tra aumento del debito pubblico e spesa pubblica.
La nostra spesa sociale è tra le più basse d’Europa e, nonostante i tagli, il debito continua a crescere. La fotografia scattata dall’Istat è la conseguenza di una politica assente da anni nella lotta alle diseguaglianze, rassegnata all’idea che non sia obbligo della Repubblica combatterle e rimuoverne le cause, sempre più preoccupata a convincerci che il welfare rappresenti ormai un lusso che non possiamo più permetterci.
Universalismo selettivo, darwinismo sociale e istituzionalizzazione della povertà sono conseguenze di una cultura politica che rinnega universalismo, solidarietà e cooperazione sociale come strumenti fondanti della democrazia a garanzia della Dignità
L’impianto normativo adottato e le scelte fatte nel corso di questi ultimi otto anni di crisi lo confermano: taglio del 66% del Fondo Nazionale per le politiche sociali, mancati trasferimenti ai Comuni per 19 miliardi a causa del patto di stabilità (dati Ifel), assenza di una misura di sostegno al reddito, già attiva in tutta Europa con la sola esclusione di Grecia e Italia, invocata da numerose risoluzioni europee a partire dal 1992 e dalle mobilitazioni e proposte di centinaia di migliaia di cittadini impegnati per introdurre un reddito di Dignità .
Per ultimo il Ddl povertà , che stanzia la miseria di poco più di un miliardo di euro per affrontare un’emergenza che ne richiederebbe 18 per garantire almeno la dignità .
Giuseppe De Marzo
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
L’IVA L’IMPOSTA PIU’ EVASA CON UN AMMANCO DI 40 MILIARDI… MA E’ L’IRPEF DA LAVORO AUTONOMO QUELLA CHE PESA DI PIU’: EVADE IL 60%
Mentre il governo si appresta a varare un nuovo condono non disdegnando i probabili proventi di reato, dalla relazione annuale sull’evasione fiscale e contributiva, emerge che in Italia la differenza tra le imposte che dovrebbero essere versate e quelle effettivamente pagate (il cosiddetto tax gap) si attesta su una media annua di 108,7 miliardi di euro, dei quali 98,3 miliardi sarebbero dovuti ai principali tributi, 10,4 ai contributi.
La relazione evidenzia anche che tra il 2012 e il 2013 l’incremento delle mancate entrate tributarie è salito di 2,5 miliardi. Il confronto non avviene con il 2014 perchè manca ancora il dato del lavoro dipendente irregolare.
Dal documento allegato alla Nota di aggiornamento del Def e riferito agli anni 2010-2014, emerge che l’imposta più evasa è l’Iva con un ”tax gap” medio che nel 2012-13 era a 39,9 miliardi, per poi salire a 40,2 miliardi nel 2014.
Segue l’Irpef che vale complessivamente 31 miliardi.
Ma di questi 27,2 miliardi, che salgono 30,7 miliardi nel 2014, sono relativi al solo Irpef del lavoro autonomo e d’impresa, area in cui la ”propensione al gap” è al 59,5 per cento.
Il tax gap relativo all’imposta sui redditi delle società , l’Ires, vede invece valori medi pari a 14 miliari del 2012-13, che calano a 10 miliardi nel 2014.
L’Irpef sui dipendenti mostra un “gap” di circa 3,9 miliardi che è ovviamente superato sia dall’Irap (8,5 miliardi) sia dall’Imu (4,6 miliardi).
Invece gli errori fatti ma anche le tasse dichiarate e non versate ammontano complessivamente a 12,4 miliardi per le principali imposte (Irpef, Ires, Iva e Irap).
La stima non tiene conto delle altre imposte (come l’Imu) e i contributi.
Questa quota vale in media 1,5 miliardi nell’Irpef dei lavoratori autonomi, 1,3 miliardi nell’Ires, 8,0 miliardi nell’Iva e 1,6 miliardi nell’Irap.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
L’OLIMPIONICA SENZA GAMBE E BRACCIA: “LA COMPASSIONE E’ PEGGIO DELL’INDIFFERENZA”
«Non chiamatemi poverina: la compassione può essere peggiore dell’indifferenza. Noi amputati non siamo inutili. Anzi, possiamo esservi d’aiuto. Se vi svegliate che fa freddo, piove e c’è traffico, non pensate: che giornata del cavolo. Una giornata del cavolo è svegliarsi con le gambe gonfie, non poter mettere le gambe artificiali e dover uscire in carrozzina».
Una mattina con Bebe Vio è in effetti di grande aiuto. Da lei abbiamo molto da imparare. Ad esempio a vaccinare i nostri figli.
«Quando vado in tv o parlo al telegiornale dico sempre che sono contenta così, che la malattia non mi ha sconfitta, eccetera. Però, quando accade un trauma del genere, non accade solo a te. Accade ai tuoi genitori, alla tua famiglia. E hai il dovere di evitare che accada. Se a casa non avessimo dato retta all’Asl, che ci diceva “tanto c’è tempo”, e se dopo la vaccinazione contro la meningite A avessi fatto anche quella contro la C, non mi sarei ammalata. Qui in Veneto ad esempio le vaccinazioni non sono obbligatorie; ed è sbagliato, infatti ci sono dei focolai. Non tutti hanno un paese che ti sostiene come ha fatto Mogliano con me, non tutti hanno una famiglia forte come la mia. Altri genitori non reggono al colpo: spesso uno dei due se ne va. Quasi sempre l’uomo, il padre. I ragazzi della nostra associazione, che consente agli amputati di fare sport, sono quasi tutti figli di genitori separati. La madre è quella che resta».
L’infanzia e la ginnastica artistica
Da piccola Bebe faceva ginnastica artistica. «Alla fine del primo anno mi dissero che c’era il saggio. Chiesi: cosa si vince? Mi risposero che non si vinceva niente; bisognava solo far vedere a mamma e papà quanto si era brave. Capii che non era lo sport per me. Provai con la pallavolo, ma mi fermai alla prima lezione: c’erano ragazze che palleggiavano contro un muro. Mi annoiai e presi l’uscita. Per fortuna non portava fuori ma in un’altra palestra. Dove si tirava di scherma»
La meningite fulminante
A undici anni Bebe era una promessa, aveva già vinto le prime gare. Meningite fulminante. Necrosi degli arti. Braccia amputate all’altezza del gomito, gambe sotto il ginocchio. 104 giorni di ospedale. «Della malattia non ho brutti ricordi. Sono i trucchi del cervello: cancella le cose orribili, che i miei genitori purtroppo ricordano benissimo; e salva le cose belle. Le visite dei miei fratelli, Nicolò e Maria Sole. I sabati sera con gli amici che venivano a trovarmi, portavano la pizza, mettevano su un film».
Il ritorno alla scherma
«Datemi le gambe e riprendo a tirare di scherma». È stata la prima cosa che ho detto, appena uscita. Ma non avevo più le tre dita con cui si impugna il fioretto, e le protesi non andavano bene. Abbiamo provato a fissare l’arma con lo scotch, ma non funzionava. Poi hanno inventato un guanto di plastica che riesce a reggere la lama. Per le gambe non c’era problema: quelle artificiali vanno benissimo; però la scherma paralimpica si fa in carrozzina, e ho dovuto adeguarmi. Tanto, il fioretto è al 70% testa; anche se ora proverò la sciabola, che è più impetuosa. Al primo allenamento non volevo più scendere dalla pedana: “Chi vince regna!” dicevo, e continuavo a battere le avversarie, fino a quando non sono crollata dalla stanchezza. Devo molto a Elisa e Arianna, che per me sono sorelle maggiori, e a Valentina, che è come una zia».
L’aiuto delle altre campionesse
Elisa è Elisa Di Francisca, la prima atleta nella storia olimpica a mostrare la bandiera europea. Arianna è Arianna Errigo, argento a Londra 2012, che ora – come Bebe – vuole provare la sciabola. Valentina è Valentina Vezzali, la più grande atleta italiana di tutti i tempi. «Neppure per un momento mi hanno fatto sentire una poverina; sempre una di loro. Ai Mondiali sono stata buttata fuori al primo turno, e mi sono chiusa in bagno a piangere. Mamma mi ha inseguita, mi ha parlato, ha cercato di consolarmi, e io l’ho mandata via. Poi è arrivata Valentina, che mi ha ripetuto le stesse cose. Per me era come se parlasse l’oracolo di Delfi, la Sibilla cumana. Così mi sono rimessa in pista, a inseguire il mio sogno: le Olimpiadi».
L’esperienza di Rio
«La medaglia più preziosa a Rio non è stata l’oro nell’individuale, ma il bronzo a squadre. Con Loredana Trigilia e Andreea Mogos, che è di origine romena, siamo molto legate: dopo siamo partite insieme per una vacanza a Ilha Grande; mare caraibico, caldo anche d’inverno. I brasiliani sono speciali: dove non arrivano con le strutture, arrivano con il cuore; se c’erano i gradini e mancava l’ascensore, ci prendevano in braccio. La Rai questa volta ha fatto conoscere lo sport paralimpico; il resto l’hanno fatto i social. Credo che gli italiani abbiano capito. Prima non mi conosceva nessuno, adesso…».
In due ore di conversazione, nel bar davanti alla stazione di Mestre, almeno dieci persone verranno a dire a Bebe la loro ammirazione.
La vita privata e il futuro
«Lo so che ormai è arrivata per me l’età dell’amore. Ma non sono cose di cui parlare con i giornalisti. Quest’anno ho finito le superiori: arti grafiche e comunicazioni, dai salesiani. Ora mi sono iscritta all’università , allo Iulm di Milano. La prossima settimana comincio uno stage a Fabrica, dai Benetton. Ho già fatto uno stage a Sky come grafico; ma stare nove ore al giorno dietro il computer non fa per me. Tornerò a Sky dopo il 2024, per fare il capo dello sport».
Davvero? «L’ho già detto al capo di adesso, Giovanni Bruno – sorride Bebe –. Ogni tanto mi siedo alla sua scrivania, per fare le prove».
Perchè dopo il 2024? «Perchè prima voglio vincere l’oro alle Paralimpiadi di Roma». Ma a Roma non si faranno nè Paralimpiadi nè Olimpiadi. «Non è detta l’ultima parola. Purtroppo la Raggi non ha ancora voluto incontrarmi. Vorrei dirle che i Giochi sarebbero una splendida opportunità di attrezzare la capitale per i disabili, eliminare le barriere; Milano è cambiata grazie all’Expo. E anche per far crescere le persone normodotate, far capire che non siamo sfortunati da commiserare».
L’autoironia sulla disabilità
«Tra noi ci prendiamo in giro: “Handicappato, ti muovi?”. Ci ridiamo su. L’autoironia ci fa bene. Disabile è chi si sente disabile, chi passa la giornata sul divano perchè pensa di non saper fare più nulla. Definirebbe disabile un grande italiano come Alex Zanardi? Si è preso a cuore la mia storia quand’ero un mezzo cadavere, e nessuno credeva in me. È stato importante anche l’incontro con Oscar Pistorius. Ha fatto una cosa terribile, ed è giusto che paghi. Ma io spero che dopo aver espiato possa tornare ad aiutare gli altri, come ha fatto con me».
Al suo cellulare arrivano di continuo messaggi. Lei si toglie la protesi e digita i numeri con il moncherino. «Non ho paura della fisicità . Come non mi dispiacciono le cicatrici che ho sul viso. Quando vado in tv, al trucco insistono per coprirle. Sono stata a Parigi alla sfilata di Dior ispirata alla scherma, e anche lì volevano mascherarle. Ma anche quelle fanno parte di me. Come gli occhi verdi che ho preso da mamma».
Aldo Cazzulo
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
DURANTE LA MARCIA IN MEMORIA DELLA DEPORTAZIONE DEGLI EBREI A ROMA, LA SINDACA RIMEDIA L’ENNESIMA BRUTTA FIGURA
La sindaca stellonauta colleziona una bella figuraccia prima di ritirarsi in campagna. Questa dinamica è un po’ come la caccia ai Pokemon e i grillini ne stanno catturando davvero molti, peccato che nei fatti si tratti di giganti gaffe.
La prima cittadina ha pensato bene di dilungarsi in chiacchiere durante la marcia silenziosa in memoria della deportazione degli ebrei di Roma del 16 ottobre 1943.
Da qui è emerso un singolare fuori programma tra il fondatore della comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.
Nel corso del corteo la prima cittadina si è soffermata a parlare con alcune persone e quando Riccardi le ha chiesto che fine avesse fatto, la stessa ha ammesso di essersi dilungata in chiacchiere.
“Una marcia del silenzio è l’occasione per chiacchierare?”, le ha detto l’ex ministro forse con ironia.
In effetti a certe cerimonie o non ci si va o si mantiene un profilo di serietà istituzionale.
Alla fine la sindaca si è ritirata vicino ad Anguillara Sabazia per un un week end per fare squadra, in un agriturismo alle porte di Roma.
Pensavamo che nel proprio ambiente non avrebbe fatto danni, ma col video “in allegria” di cui parliamo in altro post, ci siamo dovuti ricredere.
(da agenzie)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
INTERVISTATO DA LUCIA ANNUNZIATA: “BANCHE, PSE, MERKEL E USA SI FACCIANO GLI AFFARI LORO”
“Una finanziaria abbastanza elettorale che dà tantissimo agli industriali schierati per il Sì”. “Le modifiche all’Italicum? Gli impegni che assume Renzi hanno una credibilità limitata”. “Il parere favorevole alla riforma della Costituzione di Confindustria, Jp Morgan, Pse e Merkel? Si facciano gli affari loro”.
Massimo D’Alema si conferma il protagonista della lotta contro l’esecutivo in vista del referendum del 4 dicembre prossimo.
Intervistato da Lucia Annunziata su Rai3 ha ribadito di non sentirsi particolarmente coinvolto dalle dinamiche interne al Pd, ma di volersi battere contro una “legge pasticciata e confusa”.
E agli attacchi del sottosegretario Luca Lotti che lo ha accusato di essere “accecato dall’odio per non aver avuto la poltroncina di consolazione” ha ribattuto: “Io non ho insultato nessuno, ma sono oggetto di insulti. Il presidente del Consiglio è circondato da un certo numero di uomini di mano. Del resto, ognuno ha i suoi bravi“
La prima critica di D’Alema è stata per la manovra approvata dall’esecutivo nelle scorse ore: “Lascia molto perplessi”, ha detto.
“E’ basata su previsioni di crescita che il governo ha fatto ma che sono incerte. Prevede tagli che non si capisce bene come e dove saranno fatti e prevede la distribuzioni di bonus. In alcuni casi sono giusti. Qualcosina va ai pensionati e tantissimo agli industriali. Del resto Confindustria si è già schierata per il Sì e quindi è pure giusto che avesse i suoi ritorni. Mi sembra una finanziaria abbastanza elettorale“.
E ha aggiunto: “Per la crescita più che bonus servono investimenti”.
L’ex presidente del Consiglio è in prima fila per il No insieme a un fronte variegato che va dal berlusconiano Renato Brunetta a Pippo Civati.
Una varietà che non scandalizza D’Alema: “Io non metto insieme nessuno. Penso che, come naturale, il No sia traversale. Ce ne saranno tanti anche con diverse motivazioni. Mi sembra più grave che si governi con chi ti è sempre stato contrario e muove da principi diversi dai tuoi”.
Tra chi la pensa come lui, ha detto, c’è anche la fascia più giovane della pololazione: “La maggior parte dei giovani voteranno per il No, quindi quando Renzi parla dei giovani non c’è riscontro statistico”.
Quindi al di là dei volti, D’Alema ha voluto porre l’attenzione sulle sue contestazioni alla legge Boschi: “Quello che voglio mettere in luce è che io mi oppongo a questa riforma perchè la ritengo sbagliata. Non si supera il Senato, non si supera il bicameralismo che rimane su molti temi fondamentali un bicameralismo perfetto. E’ una legge pasticciata e confusa che non renderà più snelle le nostre istituzioni. Inoltre c’è una vena accentratrice molto profonda approfondendo un divario irragionevole tra le regioni a statuto speciale e quelle a statuto ordinario”.
D’Alema ha anche detto di “non far parte di nessun fronte del No”, ma di condividere semplicemente la battaglia contro la legge Boschi con altre personalità : “Io ho preso l’iniziativa”, ha spiegato, “di promuovere e di chiamare a raccolta quei cittadini che si riuniscono nei valori del centrosinistra e per questo si oppongono a questa riforma”. Quindi a lei non importa cosa sta succedendo dentro il Pd?
“Non è il mio interesse principale. Io faccio i migliori auguri alla commissione per la riforma dell’Italicum“.
Su questo ha aggiunto: “Nessuno potrà cambiare prima del referendum la legge elettorale. Si tratta di capire quale credibilità hanno gli impegni assunti dal presidente del Consiglio. Secondo me la sua credibilità è limitata“.
L’ex presidente del Consiglio ha poi commentato l’endorsement di Pse, Jp Morgan e Merkel in favore della riforma: “Il Pse si è schierato per il Sì al referendum costituzionale, buon ultimo dopo l’ambasciatore americano, Jp Morgan, Confindustria e la signora Merkel. Tutti questi signori, compreso il Pse, dovrebbero farsi i fatti loro e rispettare il popolo italiano”.
Ha detto anche di “non sentirsi solo” nella sua battaglia. “Da una parte sono schierati molti poteri forti dall’altra molti cittadini. Negli ultimi mesi il Pd ha perso elettori. Chi sta consegnando l’Italia a Grillo è Renzi. Gli ha appena consegnato Roma. Il nostro sindaco Marino è stato cacciato come fosse un ladro di polli. E ci sono moltissimi militanti della sinistra che sono d’accordo con me. Il mio lavoro è rimettere insieme un popolo che è disperso”.
D’Alema ha poi illustrato la sua proposta di legge per la riforma della Costituzione: “Noi facciamo una proposta piccola che si può approvare in sei mesi con l’aiuto di tutto il Parlamento”.
Cosa succede se vince il Sì secondo D’Alema?
“Verdini ha detto che in quel caso entra al governo, quindi non solo avremo una cattiva Costituzione, ma anche si consoliderà quel processo politico che si chiama Partito della nazione e delinea il netto spostamento verso il centro del Pd e una separazione ancora più profonda rispetto alla tradizione e ai valori della sinistra italiana”.
Mentre, sempre secondo l’ex presidente del Consiglio se vince il No: “Non si potrà andare ad elezioni anticipate, Renzi dovrà rifare la legge elettorale anche perchè la Corte ha deciso che si esprimerà dopo il referendum. Io non sono in lotta contro l’attuale governo, io mi batto contro una pessima riforma costituzionale e contro una pessima legge elettorale che ritengo dannose e riduttive dello spazio di partecipazione dei cittadini”.
E se Renzi si dimettesse?
“Questa domanda va fatta al presidente del Consiglio. Io all’indomani del referendum io continuerò al mio lavoro. Io non ho più l’età per avere cariche, ma mantengo una certa carica”.
Alla fine dell’intervista, D’Alema ha commentato la dichiarazione del sottosegretario Luca Lotti che ha detto che lui “è accecato da rabbia e odio per non aver avuto la poltroncina di consolazione”.
“Lei ha citato una persona che mi ha insultato”, ha detto. “Potrei citarne diverse altre che mi hanno insultato. Io non ho insultato nessuno, sono oggetto di insulti. Il presidente del Consiglio è circondato da un certo numero di uomini di mano. Del resto, ognuno ha i suoi bravi“.
E ha concluso: “Io vengo insultato e calunniato ma non mi fa male perchè ritengo di essere nel giusto. La Costituzione diceva Palmiro Togliatti è l’arca dell’alleanza e quelli dettero una grande lezione: erano divisi aspramente e scrissero la Costituzione insieme. Oggi noi abbiamo una Costituzione di governo, il che dal punto di vista di un Partito che si definisce democratico è un errore gravissimo“.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
UNA SCENA IMBARAZZANTE SIMILE ALLE FESTE DEI LICEALI QUANDO IL TASSO ALCOLICO SUPERA IL LIVELLO DI GUARDIA… CRITICHE SUL WEB ANCHE DAI GRILLINI
È una Virginia Raggi assai… “raggiante” quella che nella tarda serata di ieri ha improvvisato una diretta Facebook direttamente dal “conclave” grillino riunito questo weekend in un agriturismo di Anguillara.
La prima cittadina, insieme a dieci assessori e 28 consiglieri comunali pentastellati, ha scelto la località nei pressi del Lago di Bracciano per «fare squadra» e analizzare i risultati raggiunti
La decisione — neanche troppo originale — della Raggi, aveva suscitato già nel pomeriggio qualche polemica da parte di esponenti del Partito Democratico, da Giovanni Zannola che aveva utilizzato una metafora calcistica: «Raggi si rifugia per due giorni in campagna con assessori e consiglieri del M5S come una squadra che dopo l’ennesima sconfitta di campionato si chiude in ritiro. I problemi della Capitale infatti, a ormai quattro mesi dall’insediamento, sono ancora lì a dimostrare l’incapacità di governo», a Stefano Pedica, che aveva invece lamentato la scarsa trasparenza del nuovo corso grillino: «Le riunioni della Raggi e della sua giunta sono sempre più carbonare. Che fine ha fatto il tanto sbandierato streaming dei Cinquestelle?».
Forse per accontentare Pedica, o forse per gioco, lo streaming alla fine è arrivato.
A pubblicarlo in rete, utilizzando la recente funzione di Facebook, è stata proprio Virginia Raggi, che dal suo cellulare ha voluto inviare un saluto al “popolo della rete” e a quei vituperati giornalisti che “pagherebbero oro” per avere le immagini del ritiro grillino.
Il breve filmato ha sfatato decisamente il mito del serioso “conclave” riportandoci indietro nel tempo, a quelle feste da diciottenni dove il tasso alcolico superava i livelli di guardia dalle 21 in poi.
La Raggi si è mostrata allegra e ha incassato il coretto “Virginia! Virginia!” (non previsto) intonato a gran voce dagli altrettanto allegri amministratori riuniti in plenaria per decidere le sorti della Capitale.
È poi scoppiata a ridere tribolando non poco prima di riuscire a chiudere la trasmissione, concludendola con l’emblematico quesito: «La domanda è… Dove si spegne?», a confermare che sia lei che l’On. Di Maio hanno qualche problema con l’utilizzo dei moderni device.
La scena, vagamente imbarazzante, ha incassato diversi commenti ironici e persino le critiche da parte di qualche grillino di stretta osservanza che non ha gradito il clima vacanziero e l’eccesso di giubilo di fronte a una città afflitta da gravi problemi.
I commentatori più maligni hanno ipotizzato l’abuso di droghe leggere o alcool, qualcun altro ha iniziato a chiedere con quali soldi fosse stata pagata l’allegra “scampagnata”…
Il “popolo della rete” è un po’ così…
Che siano stati questi commenti a suggerire a Virginia Raggi di cancellare il video pochi minuti dopo? Questo non lo sapremo mai.
Ma la rete talvolta è beffarda e quando si pubblica qualcosa bisogna sempre mettere in conto che ci potrebbe essere qualcuno che — per qualche oscuro motivo — è lì che archivia tutto.
È il caso dell’amico Flavio Di Properzio, fotoreporter, che ha registrato la diretta dallo schermo del suo cellulare (vai a capire perchè…), evitando che un “prezioso” documento sulla due giorni grillina andasse perduto.
A lui va un grande ringraziamento e pur non potendolo pagare oro come vorrebbe il sindaco della Capitale d’Italia, una birra se l’è meritata…
Fabio Salamida
(da “glistatigenerali”)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
LO SPAZIO DOVREBBE ACCOGLIERE 150 PERSONE, NE OSPITA 730… I MIRACOLI DELLE ASSOCIAZIONI DI VOLONTARI
Ieri sera al Hub Stazione Centrale, si temeva una guerra. Nella notte di venerdì 730 migranti hanno dormito in uno spazio che dovrebbe ospitarne 150, una situazione sanitaria ritenuta insostenibile dai tecnici dell’Ats.
Il sovraffollamento non rendeva possibile il controllo delle malattie infettive; scabbia, varicella, scarlattina non sono problematiche gestibili in queste condizioni.
Anche adesso, l’aria dentro alle gallerie coperte è irrespirabile, le brandine blu del comune coprono ogni centimetro di spazio.
Stasera solo donne e bambini avranno il permesso di dormire qui. Non più di 500 persone, ordine dell’assessore alle Politiche Sociali Pierfrancesco Majorino.
Dentro quello che una volta era il deposito merci della stazione centrale, belle donne africane si fanno le treccine, qualcuno dorme, mentre fuori centinaia di uomini in fila al freddo aspettano di entrare, qualcuno di loro si stringe dentro una coperta di alluminio, ricordo del recente viaggio in nave.
Fuori dai quattro tunnel coperti dell’Hub, si sentono urla in arabo, in inglese, in lingue che nemmeno gli operatori di Arca possono comprendere.
Sarà difficile spiegare agli uomini che non possono più dormire qui.
Per questa ragione, dall’altra parte della strada, stazionano quattro macchine della polizia locale, e una camionetta della polizia di stato.
In caso di disordine solo il reparto mobile è attrezzato a intervenire. Sono otto uomini, che dovrebbero affrontarne 150. «Ma sono buoni loro, non vogliono disordini, vogliono solo un posto tranquillo dove poter andare avanti con le loro vite», commenta un agente della polizia.
La maggioranza dei profughi presenti in Italia adesso arriva dalla Libia, dove ha subito trattamenti indegni di un essere umano, torture, stupri.
Le donne spesso, prima di partire, si fanno potenti iniezioni di ormoni, per non rimanere incinte nelle violenze che sanno già che dovranno subire nel loro lungo viaggio.
Il nervosismo degli operatori di Arca qui deve sembrar loro niente. I ragazzi di Arca sono sempre presenti qui, e oggi sono tesi, stanchi.
A pranzo hanno distribuito 2000 pasti, tre ore di incessante distribuzione. «Duemila pasti! Duemila!», dice Amina, operatrice sociale «e non siamo riusciti a dare da mangiare a tutti».
Pulman e pulmini vanno avanti e indietro dalla via chiusa, portando i migranti in altri centri.
Ad alcuni di loro toccherà il Palasharp, una tensostruttura senza riscaldamento ne docce, dove dovranno «solo dormire» spiega il presidente di Arca, Alberto Sinigallia.
Questo spazio al Palasharp è normalmente utilizzato dalla comunità musulmana di Milano per pregare, il venerdì.
Ogni giorno alla stazione centrale di Milano arrivano un centinaio di migranti, che prima della chiusura delle frontiere, erano solo di passaggio.
Hub funzionava come una porta girevole negli aeroporti. Una porta che adesso si è inceppata. I transitanti possono anche rimanere qui in attesa per mesi, o di passare la frontiera, o di registrarsi come richiedente asilo.
Come richiedenti asilo avranno diritto a un posto in un vero centro di accoglienza, e all’assistenza sanitaria.
Con la richiesta di asilo, questi uomini nel deposito merci della stazione, riceveranno gli stessi diritti di un cittadino italiano. Ma le attese in prefettura sono lunghe.
Per i diritti bisogna fare la fila, come per il pranzo, le docce, e tutte le risorse inadeguate ai numeri di adesso.
Una pianificazione dell’accoglienza non sarebbe impossibile qui al Nord.
Da una settimana si sapeva degli 11mila sbarcati in Sicilia. Quella di adesso è un’emergenza prevedibile e prevista.
A mezzanotte la strada è quasi vuota, tre ragazzini giocano a calcio con una bottiglietta vuota, altri fanno la lotta: sono i minori non accompagnati, uno dei problemi più difficili da gestire qui all’Hub.
Ogni minore presente sul territorio cittadino è responsabilità del Comune, e dovrebbe avere essere accolto ed accompagnato alla maggiore età in una comunità .
I centri però sono saturi e più di cento ragazzi come quelli che adesso giocano in strada sono incastrati qui all’Hub.
Ogni giorno vengono portati dalle associazioni alla sede del Comune di via Dogana per una assegnazione. Ogni giorno vengono rimbalzati al giorno seguente, e via Dogana adesso viene chiamata dagli operatori «via Domani».
Piano piano le file fuori dall’hub si smaltiscono, e tutti hanno trovato un posto per dormire. È l’una e mezza di notte, e per strada non c’è più nessuno quasi.
Solo Sinigallia si aggira in sandali e il sorriso tranquillo di chi è riuscito a non chiudere nessuno fuori, neanche stanotte.
Thea Scognamiglio
(da “La Stampa“)
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Ottobre 16th, 2016 Riccardo Fucile
E’ A GIOIA TAURO LA BASE DI SMISTAMENTO DEI REPERTI SACCHEGGIATI… LA TESTA DI UNA STATUA RAZZIATA IN LIBIA COSTA 60.000 EURO
A Vietri sul Mare dove inizia l’autostrada Napoli-Reggio: l’appuntamento con l’emissario che arriva dalla Calabria è, a metà pomeriggio, all’albergo Lloyd.
Un posto «sicuro» che lui stesso ha indicato. Sono qui per comprare reperti archeologici arrivati da Sirte, bastione degli indemoniati dell’Isis, al porto di Gioia Tauro.
Sì, non è un errore: Gioia Tauro. Sono stati saccheggiati con metodo nelle terre controllate dal Califfato islamico, Libia e vicino Oriente. Gli islamisti li scambiano con armi (kalashnikov e Rpg anticarro).
Le armi arrivano dalla Moldavia e dall’Ucraina attraverso la mafia russa. Mediatori e venditori appartengono alle famiglie della ‘ndrangheta di Lamezia. E alla camorra campana.
Il trasporto è assicurato dalla criminalità cinese con le loro innumerevoli navi e container.
Adesso che l’ora dell’appuntamento si avvicina mi sento a disagio. Eccomi qua a ingannare il tempo, in questa parte d’Italia dove i gruppi criminali sono così parte integrante della vita urbana che i loro scontri, le loro divisioni incessanti, i loro compromessi sono più importanti della vicissitudini della politica.
Un uomo della reception si avvicina, sistema dei cuscini e chiede se abbiamo bisogno di qualcosa. L’uomo che mi ha procurato il contatto sembra anche lui di colpo più nervoso, e ha uno strano modo di non guardarmi, ora, mentre mi parla.
«Non illuderti, forse tutto filerà liscio ma ci sono mille possibili impicci: che il venditore ti abbia visto una volta in televisione, e ti riconosca per esempio… che abbiano fatto controlli preventivi… Bisogna fare attenzione… sono dappertutto… anche questo, dove siamo adesso, in città , è terreno loro…».
L’uomo è puntualissimo. Sembra un ragazzone un po’ invecchiato, una certa flaccidezza nei lineamenti. Eppure, una sorta di voracità nella bocca, qualcosa di torbido nello sguardo come una vibrazione fredda che incute paura. Una mia impressione?
L’albergo era solo un punto di riferimento: non va bene per vedere i reperti e trattare il prezzo. Dobbiamo spostarci in un luogo meno frequentato. Percorriamo una strada secondaria, angusta, piccole Madonne spuntano a ogni punto più minaccioso della roccia.
Il mare così lussuoso, così ricco di inafferrabile dolcezza, di esaltato gusto di vivere qui non si vede più. Questa è una terra dove la Storia ha passato mille volte l’aratro, grattando il suolo con il puntone dei tombaroli si potrebbe sentire il vuoto di una tomba greca o romana.
Su un muricciolo stanno seduti alcuni uomini dallo sguardo impenetrabile, come uccelli sul filo della luce. Ci guardano passare.
La macelleria
Ecco, siamo arrivati: una costruzione stranamente nuova, totalmente isolata, dove la strada asfaltata finisce. Arriva un’auto, due ragazzi scendono, aprono un portone. L’ultimo controllo. L’auto del trafficante si infila a marcia indietro. È un laboratorio di macelleria.
Un odore intenso, che stordisce, ci investe, di sangue, di carne macellata. Appesi ai ganci pendono salumi già lavorati e quarti di animale che attendono ancora il coltello del beccaio.
Dal bagaglio dell’auto avvolto in un telo bianco esce il mio possibile acquisto.
L’imperatore mi fissa, deposto sulla lastra di metallo del tavolo del macellaio, con il suo eterno sguardo di marmo, il naso leggermente abraso, la barba e i capelli magnificamente incisi dal bulino dello scultore del secondo secolo dopo Cristo, pieno di rigonfia e marmorea romanità . Dal collo spunta, reciso, il perno di bronzo che lo teneva collegato alla statua.
Mi fa un po’ senso: come se l’avessero appena decapitato, lì, per mostrarmelo nel suo cimiteriale splendore.
Il trafficante mi spiega che era in un’altra Neapolis, quella libica, la romana Leptis Magna. Con Cirene e Sabrata sono i luoghi di provenienza di tutti tesori che mi mostrerà .
Luoghi che jihadisti controllano o hanno controllato. Ma, rifletto, anche gli islamisti «moderati» di Misurata, quelli legati ai Fratelli Musulmani a cui sembra riconosciamo un ruolo di alleati affidabili nella lotta ai cattivi del Califfato.
È il momento di parlare di denaro. Trattiamo. Sessantamila euro per l’imperatore. Molto meno per un delizioso cammeo con la testa di Augusto. L’emissario della Famiglia calabrese parla con proprietà di epoche storiche classiche, di marchi di scultori e di vasai.
È abile, mescola agli oggetti libici anche altri reperti prelevati clandestinamente in necropoli greche in Italia, svela, racconta, ma parla di oggetti di «due anni fa»: in modo di poter negare, se necessario, le circostanze più gravi. E al massimo rischierà un accusa di ricettazione: tre anni.
«Da dove viene questa testa? Questa viene dalla Libia. Armi in cambio di statue, anfore, urne: funziona così… Il materiale arriva a Gioia Tauro, una volta era qui a Napoli, poi qualcosa è cambiato. Adesso ci sono problemi, tanti problemi con questi migranti di merda, il mare della Libia è pieno di flotte, controlli, polizie. Volete reperti del Medio Oriente? Ci sono anche quelli ma i prezzi sono molto molto più cari e dovreste andare a trattare direttamente a Gioia Tauro… E non ve lo consiglio».
L’incredibile alleanza
Ancora Isis e ‘ndrangheta, ‘ndrangheta e Isis: a ogni passo la loro traccia visibile, la loro incredibile alleanza. Anche qui davanti a questo trafficante che mi lancia occhiate furbe. Fino a poco tempo fa gli acquirenti erano americani, musei e privati.
Quando hanno scoperto che i soldi servivano a comprare armi per l’Isis gli americani hanno bloccato tutto. Ora i clienti sono in Russia, Cina, Giappone, Emirati.
Per lui sono un ricco collezionista torinese che cerca oggetti delle colonie greche e romane d’Africa. Mi fingo insoddisfatto, chiedo cose ancor più rare: non ho problemi di prezzo se vale. Allora il trafficante mi mostra alcune foto: una ciclopica testa di una divinità greca.
«Un metro e dieci e un peso di undici quintali. Guardi, dottore, questo colore sopra la testa: portava una corona che poi si è consumata, non so se era di bronzo o di rame, viene dalla Libia, ma stiamo parlando di un’altra storia. Il prezzo è trattabile, per questa mi hanno chiesto un milione di euro ma se mi fa una proposta di 800.000 euro va bene. In più c’è da pagare il trasporto, deve venire con una persona che ne capisce… un archeologo. Le dico la verità , non è mia, sto facendo le trattative per conto di altri, dottore… Questa deve andare a un museo non a un privato. C’è un mercato di cui non avete la più pallida idea ma ora abbiamo dei problemi come le ho detto per la guerra. Stavo trattando con una persona mandata da un attore americano famoso, alla fine per 50.000 euro non ci siamo trovati. Questa o prende la strada di un museo o va negli Emirati arabi o va in Russia, queste sono le destinazioni».
La testa dell’imperatore
Dico di essere molto tentato dalla testa dell’imperatore, ma come posso essere sicuro che non sono falsi? E poi non giro certo con centomila euro in tasca. «Prenda tutto, dottore, lo tiene quindici giorni, non uno di più! Fa tutte le verifiche che vuole, archeologi tutto… poi mi fa avere i soldi e noi non ci siamo mai conosciuti. Problemi a esporre la testa? Suvvia! Lo metta in salotto, bene in vista, se qualcuno gli fa domande dica che l’ha comprata a un mercato delle pulci per cinquanta euro e che è una bella copia».
Rinuncio all’offerta, dico che entro tre giorni gli darò una risposta. Ci allontaniamo. Lungo la stradina gli uomini sono sempre seduti sul muricciolo. Ci seguono con il loro sguardo enigmatico.
La pista del Kgb
Racconto il mio incontro a due consulenti internazionali in materia di sicurezza, Shawn Winter, militare proveniente dalle forze armate degli Stati Uniti e l’italiano Mario Scaramella.
Che mi propongono una pista che porta a un burattinaio ancor più sconcertante: il traffico dei reperti sarebbe in realtà diretto dai Servizi russi, eredi del Kgb.
Un altro indizio che si legherebbe, nell’organigramma del crimine, a quelli dei ceceni e degli uzbechi di cui ci sono prove siano passati per campi di addestramento russi, diventati poi comandanti di formazioni jihadiste.
O la presenza tra i fondatori dell’Isis di alti ufficiali del dissolto esercito di Saddam Hussein addestrati dai sovietici.
L’Isis ha la possibilità di piegare e usare formazioni criminali come camorra e ‘ndrangheta per semplici ruoli gregari?
E di montare una organizzazione internazionale in grado si superare controlli e repressione del traffico su scala internazionale affidati a corpi di grande valore e esperienza come i carabinieri italiani? Di entrare su un mercato, quello dei reperti archeologici, con gerarchie e meccanismi e regole molto rigide e consolidate?
Solo uno Stato, una superpotenza è in grado di muovere un traffico così sofisticato, ramificato e «colto», non certo terroristi impegnati in una guerra senza quartiere.
Mi mostrano un documento, inedito finora: il verbale originale degli interrogatori, nel 2005, del colonnello del Kgb Alexandr Litvinienko, grande custode dei segreti russi.
Litvinienko spiegò a Scaramella come il Kgb rifornisse un museo segreto nel centro di Mosca, non lontano dal Boradinskaya Panorama, dove erano riuniti reperti di incalcolabile valore razziati in Medio Oriente e pagati con armi ai palestinesi.
Un museo che non poteva organizzare visite e mostre perchè i proprietari avrebbero riconosciuto i loro oggetti. Era riservato alla nomenklatura sovietica.
Qualche oggetto ogni tanto veniva prelevato: un regalo alle mogli dei dirigenti supremi.
Domenico Quirico
(da “La Stampa”)
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