Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
“LOTTI DOVREBBE CHIUDERSI IN CASA E NON USCIRE PIU'”…”IO HO CHIUSO L’IMPIANTO DI CERRONI, UTILIZZANDO LE STRUTTURE PUBBLICHE, LA PRIMA COSA CHE HA FATTO LA RAGGI E’ RIAPRIRLO, CHIEDETEVI PERCHE'”
Le parole più dure le usa per Matteo Orfini e Luca Lotti.
Il primo dovrebbe dimettersi, il secondo vergognarsi, rinchiudersi in casa e non uscire mai più.
Ignazio Marino, ospite di In Mezz’ora per la sua prima intervista dopo l’assoluzione per i casi scontrini e Onlus, attacca a testa bassa i vertici del Pd renziano.
In primis, il commissario del partito romano: “Settecentomila romane e romani sono stati violentati da una sola persona”, che “non ha mai amministrato nulla, è stato eletto con una legge dichiarata incostituzionale”.
E poi: “Nominato commissario, ha chiuso i circoli, lasciato i debiti e portato il partito alla disfatta più grande della sinistra in questa città negli ultimi 30 anni. Cosa farebbe in un’azienda uno che combina questo disastro? Glielo dico io: dimettersi, invece resta attaccato con l’Attak alla poltrona”.
In tutto ciò “non sono caduto per la magistratura”, ha aggiunto Marino, ma “ho dovuto lasciare perchè Orfini ha convocato gli assessori” e “gli ha chiesto di andare dal notaio”
Su Luca Lotti, che in una recente intervista aveva attaccato Massimo D’Alema, l’ex sindaco di Roma ci va giù ancor più duramente: “Dovrebbe vergognarsi, tornare a casa, chiudersi dentro e non uscire mai più”, dice senza nominarlo ma riferendosi alla sua intervista nella quale affermava che D’Alema “è accecato dall’invidia per non aver ricevuto la poltroncina”.
“Trovo veramente disgustoso che si possa dire di un ex presidente del consiglio, di un ex ministro degli esteri, che fa questo per una poltroncina”, ha detto Marino.
A ben vedere, a ricevere meno critiche è stato il presidente del Consiglio Renzi: “Renzi ha allontanato un sindaco che stava facendo quello per cui lui all’inizio era piaciuto al Paese. Io credo che Renzi, scaltro e intelligente, abbia zero informazioni su Roma e sia stato molto mal consigliato. In un dialogo con me avrebbe capito e sarebbe stato uno dei miei più grandi sostenitori”, ha aggiunto Marino.
“E’ stato un anno duro, in cui mi sono sentito ferito e offeso. Per me conta l’onorabilità . Mi hanno mosso accuse violente. Le forze politiche hanno organizzato uno sbeffeggio a mio danno”, ha aggiunto parlando dei 12 mesi trascorsi.
Poi ha parlato della nuova prima cittadina, sottolineando che “una delle prime azioni della sindaca Raggi è stata chiedere la riapertura del tritovagliatore che trattava circa 100 tonnellate di rifiuti al giorno di rifiuti, di proprietà dell’avvocato Cerroni e affittato ad un altro privato”.
Però, aggiunge, “con la mia azione l’ho chiuso perchè ho reso più efficienti gli impianti pubblici, ma i privati perdevano 160mila euro al giorno”.
Ciononostante, “una delle prime azioni della sindaca Raggi è stata chiedere di riaprire quegli impianti”.
Quanto a una delle polemiche che hanno accompagnato la sua amministrazione, Marino sottolinea che in occasione dei funerali di Vittorio Casamonica, nell’estate del 2015, la responsabilità sul volo dell’elicottero che lanciò petali sul corteo funebre non era del Comune ma del Viminale e della Difesa.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
IN UNGHERIA E’ SEMPRE PIU’ REGIME: “NEPSZABADSAG” VENDUTO A UN OLIGARCA VICINO A ORBAN PER TAPPARE LA BOCCA ALL’UNICO GIORNALE CHE HA SMASCHERATO LA CORRUZIONE DEI MINISTRI
Chiude in Ungheria il quotidiano liberale Nepszabadsag, considerato la più autorevole voce critica del governo Orban.
La notizia è stata data all’improvviso dall’editore – il giornale era in edicola fino alla mattina dell’8 ottobre – che ha annunciato che da oggi, domenica 9 ottobre, il quotidiano non uscirà e che giornalisti e collaboratori sono licenziati.
L’editore, la società Mediaworks, filiale di un’impresa austriaca, Vienna Capital Partners (CVP) in una nota ha parlato di perdite permanenti del giornale, annunciando che intende sospendere la pubblicazione del Nepszabadsag fino all’elaborazione di un «nuovo modello economico» per risanare i conti.
In realtà il proprietario austriaco avrebbe venduto la filiale ungherese ad un oligarca vicino al premier Viktor Orban.
L’editore ha smentito, ma il colpo di mano sembra essere una conferma della notizia. La soppressione del giornale rappresenta un’ulteriore spallata alla libertà di stampa in Ungheria.
Manifestazioni di solidarietà si sono tenute sabato sera davanti al Parlamento, mentre il comitato di redazione ha avviato le trattative con l’editore per la ripresa delle pubblicazioni, chiedendo che la linea indipendente e professionale del quotidiano venga conservata.
I giornalisti del Nepszabadsag, con un lavoro di giornalismo investigativo, hanno sistematicamente pubblicato storie e reportage sulla corruzione dei ministri e della Banca nazionale e hanno smascherato soprusi del regime di Orban.
(da “La Stampa”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
PERCHE’ LA RIFORMA DELLA COSTITUZIONE NASCE VECCHIA
Fingiamo di credere che lo scontro referendario riguardi il merito della riforma costituzionale.
Temo che il dibattito serio sul tema si sia concluso in Italia col fallimento della Bicamerale e il successivo ventennio di scatenato centralismo burocratico- ministeriale perfettamente condiviso da centrodestra e centrosinistra.
Ciò che stupisce nei discorsi dei duellanti è l’incapacità o la non volontà di esprimere con la dovuta chiarezza le proprie ragioni, il senso ultimo, non occasionale, non episodico, che le dovrebbe sostenere.
È evidente che nelle posizioni più consapevoli del “fronte del No”(e cioè nè in quelle che “mandiamo-a-casa-renzi- e-basta”, nè in quelle portatrici di una insostenibile “ostinazione conservatrice” in materia costituzionale) si agitano preoccupazioni storiche, politiche e culturali che travalicano da ogni parte il merito dell’attuale riformetta.
Preoccupazioni giustificatissime sullo stato di salute della nostra democrazia. Renzi e i suoi disegni vengono avversati in quanto sintomo e fattore insieme del malanno.
Ma nel far questo si cade in una loro incredibile sopravvalutazione!
Abolire doppia o tripla lettura delle leggi, qualche senatore e, chissà quando in via definitiva, le Province, per quanto nel modo più incasinato e dilettantesco, non sembra in sè spregevole, e d’altra parte ha ben poco o nulla a che fare con i problemi di fondo che il No dei “consapevoli” solleva.
È un No nei confronti di una sub-cultura politica e di un cattivo senso comune che va diffondendosi a vista d’occhio.
I tempi della politica sono inconciliabili con quelli dell’economia, della finanza e del libero scambio, assunti a exemplar.
La complessità è un male e va ridotta a ogni costo. Democrazia è sinonimo di procedure snelle e efficaci per giungere alla decisione; partecipazione e comunicazione sono problemi del web.
I Parlamenti tanto più funzionano quanto più si trasformano in anti-camere del Principe. I partiti politici sono creature preistoriche; contano i leader, la loro immagine, legittimata da sondaggi e Twitter.
I sindacati organizzino patronati e difendano, se son capaci, la merce-lavoro.
Nel No dei “consapevoli” suona il retro-pensiero che Renzi rappresenti tutto questo. Certo, non rappresenta l’opposto. E tantomeno lo rappresenta la riforma di cui si discute.
Ma presentarla come uno snodo decisivo su questo fronte è dar credito ai loro autori di una potenza e di una visione strategica che per fortuna son lungi dal possedere.
Questa cosiddetta riforma si colloca certamente nella prospettiva di chi ignora la gravità della crisi che la democrazia attraversa. Essa non si esprime soltanto nella debolezza dell’Esecutivo, in una “costituzione senza scettro”( come il sottoscritto con altri predicava quarant’anni fa), ma ancor più in quella del Parlamento.
La spasmodica ricerca di trasformarlo per quanto possibile in un’assemblea di nominati e cooptati da parte di chi sarà chiamato a formare il governo significa liquidarne la stessa ragione d’essere.
Il Parlamento nasce e si giustifica in quanto essenzialmente organo di controllo e espressione della sovranità del popolo.
Il rafforzamento dell’Esecutivo, in una riforma degna di questo nome, avrebbe dovuto combinarsi con un rafforzamento del Parlamento, della sua rappresentatività , del suo ruolo.
La stessa legge elettorale in discussione a tutto mirerà , siamone certi, fuorchè a questo fine
La subordinazione del Legislativo al Governo è prodotto della stessa cultura che vede partiti, sindacati, corpi intermedi come fastidiose sopravvivenze o una sorta di micro-stati nello Stato.
Per le attuali leadership ci sono soltanto il popolo e loro a rappresentarlo. Ma questo non è il popolo! È una moltitudine di individui, ciascuno coi propri più o meno legittimi appetiti, destinati perciò a “delegare” in bianco a chi comanda.
Il popolo è popolo quando si presenta come entità politica, giuridica, culturale, e cioè quando dà vita in sè e da sè a organismi che danno forma e voce alle forze, agli interessi, alle culture che lo costituiscono.
Altrimenti è una pura astrazione, oggetto di pure retoriche, in realtà semplicemente un insieme di sudditi.
Dunque, una vera riforma avrebbe dovuto rafforzare, anche nella Costituzione, il principio di sussidiarietà , la promozione di ogni forma di auto-organizzazione, regolare la vita democratica di partiti e sindacati
Da questo punto di vista, la riforma di cui si discute nasce stra-vecchia, anzi, come qualcuno ha detto, è una riforma postuma.
Parlamento ancora più debole, enti locali allo stremo, corpi intermedi ridotti a funzioni assistenziali: che vinca il Sì o il No nulla di questo quadro è destinato a cambiare.
Ed è altrettanto evidente che al di là della quasi-eliminazione del Senato l’attuale (tutto) ceto politico non sarebbe in grado di muovere un passo.
Teniamoci il topolino – e coloro che si oppongono non tanto a Renzi, per carità , quanto alla deriva culturale che ho sopra descritto, comincino a lavorare non per resistere-resistere-resistere, ma per innovare- innovare-innovare la nostra cara, e tutt’altro che vecchia, democrazia.
Massimo Cacciari
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
“NON VOGLIO UN GOVERNO DEL CAPO”: DOMANI LO STRAPPO IN DIREZIONE
«È un anno che l’Italia mangia solo pane e riforme, ora basta». Pier Luigi Bersani ha deciso. Con sofferenza pari solo alla preoccupazione per il futuro del Paese l’ex segretario del Pd è rassegnato ad ufficializzare il suo No al referendum, domani in direzione nazionale: «Renzi proverà a stanarmi con una proposta sull’Italicum? Chiacchiere. Lo riteneva ottimo e perfetto, tanto che lo approvò con la fiducia. E ora non mi venga a dire che darà l’incarico a Zanda e Rosato di trovare un sistema migliore. Non mi si può raccontare che gli asini volano. Vediamo in direzione, ma io non mi aspetto nulla».
Uno strappo che il leader della minoranza considera inevitabile, non tanto per il merito di una riforma votata anche dalla sinistra dem, quanto per le prospettive politiche disegnate dal «combinato disposto» con l’Italicum.
È un Bersani deluso e turbato quello che alle 23 di venerdì era ancora lì a ragionare e a sfogarsi nel gremito Auditorium Sant’Ilario, durante un confronto con Giuliano Pisapia organizzato dall’associazione Alice: «Se parlo fuori è perchè nel Pd non si può. In un anno e mezzo non ho mai avuto occasione di discutere di riforme nel partito. E dire che un po’ ci capisco».
Si sente messo da parte, come D’Alema?
«Anche con me non sono andati per il sottile, sono stato trattato come un rottame. Non ho ragioni per difendere D’Alema, ma deve esserci un limite a questa cosa volgare del vecchio e nuovo, che riguarda le idee e i protagonisti di una stagione. Nell’Ulivo c’erano anche idiosincrasie e liti furibonde, ma perbacco c’era una cosa da tenere assieme e c’era il rispetto, tanto che D’Alema propose Veltroni segretario e Prodi presidente della Commissione europea».
Luca Lotti ha mancato di rispetto all’ex premier?
«Quando questo Lotti dice a D’Alema che è accecato dall’odio per una poltroncina va fuori dal seminato. C’è un limite, perchè se sei dove sei c’è sempre qualcuno che ti ci ha portato. Invece ora tutto quello che c’è prima è da sputarci su… Così vai a sbattere»
Davvero non pensa alla scissione?
«Noi abbiamo cercato di salvare il salvabile, ma a volte trattenersi è molto difficile. E anche adesso dico quel che dico perchè un pezzo del nostro popolo non vada via, restando vittima di cattivi pensieri. Non puoi sempre farti vedere con Marchionne e Polegato»
Non le basta che Renzi abbia spersonalizzato?
«Perchè riconoscesse l’errore c’è voluto Jim Messina, ma Jim Bettola glielo va dicendo da mesi gratis – scherza Bersani parafrasando il nome del guru americano con quello della sua cittadina di origine –. Tu che sei il premier non puoi dire al mondo che il tuo Paese è davanti al giudizio di Dio, sull’orlo di un abisso, perchè così dai adito a tutte le speculazioni. Perchè alzi la posta sulla Costituzione? È un precedente gravissimo. Abbassiamo i toni e rassicuriamo il mondo. È solo una cosa italo-italiana»
Per i renziani lei non parla del merito perchè ha già deciso di votare No.
«Riformiamo il Titolo V? Bene. Meno navetta tra le due Camere? Ottimo. Ma non stiamo cambiando il sistema, quindi voliamo basso, non carichiamo la molla spaccando l’Italia e il centrosinistra».
Non è esagerato l’allarme sulla tenuta democratica?
«È il tema prioritario, e la legge elettorale è la cartina di tornasole. Aver impugnato la Costituzione quasi in direzione di un meccanismo plebiscitario è consono a una semplificazione troppo drastica»
Però scusi, la riforma non cambia la forma di governo.
«Da sola no, ma in combinazione con la legge elettorale la cambia radicalmente. Si va verso il governo di un capo, che nomina sostanzialmente un Parlamento che decide tutto, anche con il 25% dei voti».
Se la riforma passa, potrà ridiscutere l’Italicum…
«Ci credo poco. In tutta Europa si cercano sistemi in grado di rappresentare quel magma che c’è, e noi ci inventiamo il governo del capo? C’è da farsi il segno della croce. Nella legge elettorale bisogna metterci dentro un po’ di proporzionale, invece che prendere tutta altra strada per sapere alla sera del voto chi comanda».
Ha già la testa al congresso del Pd?
«Al congresso sosterrò la tesi che non si può tenere assieme segretario e premier. Vorrei che il Pd si accorgesse dei rischi, separasse le funzioni e mettesse questo gesto a disposizione di un campo largo di centrosinistra».
E Alfano, Verdini, il partito della nazione?
«Qualcuno sta rompendo i ponti con la tradizione convinto di prendere i voti della destra, ma non ci metto la firma su una prospettiva così. Se passa il Sì, temo che Renzi prenda l’abbrivio e vada dritto con l’Italicum. Ma non sono disposto a mettere in mano il sistema a quella roba inquietante che sento venir su dal profondo del Paese».
Sente aria di elezioni e teme che il sistema finirà in mano a Grillo?
«A turbarmi non è Grillo ma l’insorgenza di una nuova destra in formazione, aggressiva, non liberale, protezionista, che, da Trump a Orbà¡n, cerca le sue fortune. Il ripiegamento della globalizzazione ha portato un aumento bestiale delle disuguaglianze. La sinistra deve trovare una nuova piattaforma di base di diritti del lavoro. La ricetta? Welfare, fedeltà fiscale, basta bonus e voucher».
Lei e Pisapia sarete nella stessa alleanza alle prossime elezioni?
«C’è una urgenza estrema di organizzare un campo largo di centrosinistra».
Un tweet su Ignazio Marino assolto?
«Se il modo ancor l’offende, francamente non ha tutti i torti».
Monica Guerzoni
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
“SI SENTE PENALIZZATO DA POLITICI E GIORNALISTI”
Ordine ai ministri e ai politici renziani di boicottare i programmi di La7. Per l’esattezza gli studi di Lilli Gruber, Corrado Formigli e Giovanni Floris.
Ospiti che rifiutano l’invito o che prima annullano e poi confermano la partecipazione.
Enrico Mentana, direttore del TgLa7, cosa succede fra Matteo Renzi e la vostra televisione?
Non saprei definire il rapporto, se rovinato o compromesso, di sicuro il presidente del Consiglio, martedì scorso, ha visto la trasmissione di Floris e non c’è stata una corrispondenza di amorosi sensi.
Come ha reagito il fiorentino?
Tuoni molto forti e fulmini vistosi contro La7, perchè, forse, considera il pensiero renziano penalizzato, compresso fra voci politiche e giornalistiche avverse.
Una lamentela che riporta agli anni di Silvio Berlusconi.
Lo scenario è mutato e Renzi sconta in maniera oggettiva una carenza di organico per la televisione e un modello che spesso non gli è amico. Premessa: nessun politico in campagna elettorale può concedersi di non mandare i suoi in una rete televisiva, soprattutto se è quella più vocata al confronto politico. Ma specularmente, nessuna rete televisiva, e soprattutto quella più vocata al confronto politico, può fare a meno di una parte dello schieramento. Insomma, il vino bianco non può fare a meno della bottiglia e del bicchiere. Ma anche loro non possono permettersi di riempirsi solo di vino rosso.
Qui la critica è doppia: include le ossessioni di Renzi, non esclude le responsabilità di La7.
Mi spiego meglio, tento di illustrare le ragioni del premier. Perchè siamo arrivati sull’orlo dell’incidente di frontiera? Per la vera asimmetria di questa battaglia, che non sta tanto nell’eterogeneo fronte del No, che vede affiancati D’Alema e Brunetta, Zagrebelsky e Salvini, Di Battista e Fini, contrapposto al Pd renziano con ben pochi compagnons de route. Ma nel ruolo attivo di molti nostri colleghi: pienamente legittimo, e però ingombrante.
Renzi si sente in minoranza in tv, e dunque in minoranza da Floris e colleghi?
I giornalisti-opinionisti non sono certo una novità nel panorama politico italiano. Con piena legittimità sono stati parte importante dello scontro in tv negli anni del berlusconismo. Si può dire anzi che — tanto per fare l’unico esempio di un discorso che non è giusto personalizzare — il confronto Belpietro-Travaglio sia stato il match rituale emblematico di quel lungo periodo. Ma come sappiamo i giornalisti in campo erano tanti, fieramente contrapposti. Oggi però quei due benemeriti insiemi si trovano a combattere la stessa battaglia contro un nemico comune. E Renzi da parte sua non ha saputo o potuto coinvolgere a sua volta nella battaglia per il Sì nessun opinionista già rodato da quelle battaglie epocali e rinoscibile dal cittadino-teleutente.
Quanto può durare il divieto renziano?
Lontani due mesi dalla data del referendum potevamo non dare rilievo agli effetti di questa asimmetria, ovvero al ruolo non neutro degli influencer invitati nelle nostre trasmissioni. Diciamo che l’arrabbiatura di Renzi è prematura, se non proprio preconcetta. D’ora in poi il problema però si pone, nel nostro interesse in rapporto ai telespettatori, non per mero rispetto della par condicio o per compiacere lo schieramento che ne ha meno. E questo si può ottenere — beninteso — senza censurare o lasciare a casa nessuno: basta tenere sul piede di parità gli argomenti del Sì e quelli del No. In sostanza: se parlano di referendum — come direbbe Grillo — uno vale uno, Benigni e Di Maio, la Boschi e Giordano. La par condicio ufficiale è al solito un’apoteosi di lacci e lacciuoli: la nostra, sostanziale, dovrebbe avere una sola regola, “alla fine del programma le tesi del Sì e quelle del No hanno avuto lo stesso rilievo e lo stesso tempo”.
Carlo Tecce
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
DOPO LE BUGIE SULLA MURARO PROVA A RICONQUISTARE LA BASE M5S
Quando Beppe Grillo, nel pieno della crisi di Roma, dopo il mailgate che lo aveva travolto, disse «non capite: se cade Luigi, cadete tutti voi», aveva ben chiaro cosa volesse dire fare a meno di quel giovane proiettato verso Palazzo Chigi.
Luigi Di Maio si è ripreso la leadership del Movimento. Inviso da molti grillini che vedono la sua cavalcata solitaria come uno schiaffo alla democrazia orizzontale, colpito dal fuoco amico al massimo della sua debolezza, dopo le indagini sull’assessora Paola Muraro nascoste ai colleghi, processato in piazza a Nettuno e costretto alle scuse, Di Maio si è rialzato.
Grazie a Grillo e Casaleggio jr che lo hanno riabilitato dal palco di Palermo, ha ripreso la corsa, blindato dai vertici, per diventare il volto del referendum, lo sfidante di Renzi con il mattatore Alessandro Di Battista.
Ma lo ha fatto a costo di qualche sacrificio. «Ha scelto un profilo più basso» spiega un suo collega e amico. Meno tv e più piazze. Ha rinunciato al viaggio negli Usa, in agenda da mesi e previsto per fine settembre. Una tappa nel tour di accreditamento internazionale dopo quella in Israele e Palestina.
Il grillino avrebbe raccontato l’esperienza del M5S nelle università di Boston e di New York, ma ha rinviato la transoceanica per placare i malumori interni di chi avrebbe visto il viaggio come l’ennesima fuga in avanti di Di Maio, favorita dallo staff della comunicazione.
Così il deputato si toglie anche dall’impaccio di dover rispondere a chi gli avrebbe chiesto, a poche settimane dal voto americano, chi preferisce tra il populista Donald Trump e la democratica Hillary Clinton.
Il “basso profilo” si sostanzia in un lavoro all’interno, dove diplomaticamente Di Maio deve tenere a bada gli avversari.
Negli ultimi giorni l’attivismo di Di Maio si è moltiplicato: ha patrocinato il convegno del M5S sui costi della riforma costituzionale, ha guidato a sorpresa, ieri, la delegazione sui luoghi del sisma, e oggi sarà ad Acerra, nella Terra dei Fuochi nella fiaccolata contro i roghi tossici. Recupera il movimentismo senza disdegnare i flirt con mondi più vergini per il M5S, incarnazione dei cosiddetti poteri forti che i grillini hanno spesso attaccato.
Dopo i lobbisti e Bloomberg, il 22 ottobre sarà tra i giovani di Confindustria a Capri.
Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
I RIBELLI: “IL NUOVO REGOLAMENTO DI GRILLO E’ GIURIDICAMENTE NULLO COME IL PRECEDENTE”…GIA’ 500 ADESIONI DA TUTTA ITALIA
Ritrovare l’unità interna, abbandonare i personalismi, fare quadrato.
I Cinque stelle annuiscono silenziosi agli incessanti messaggi di pace di Beppe Grillo mentre una nuova guerra interna è alle porte.
Il terreno dello scontro è l’approvazione delle modifiche al «Non statuto» e al regolamento. In sostanza, la “Costituzione” del Movimento e l’impianto di leggi che regola la vita all’interno del partito.
Lo smantellamento del direttorio e l’istituzione dei probiviri, cui verrà affidato il compito di sancire le espulsioni, sono i due punti nevralgici intorno ai quali si consuma la feroce lotta pentastellata per il potere.
«L’aspetto più triste è vedere fazioni (ormai non si sa più neppure quante siano esattamente) che si danno battaglia con frasi fatte e ripetute a pappagallo e uno stuolo di offese personali imbarazzanti – scrive la senatrice del M5S Elisa Bulgarelli su Facebook -. Se “serrare i ranghi” significa “pensiero unico”, si sbaglia direzione».
E il sentimento di livore reciproco che da mesi infiamma il gruppo di parlamentari grillini, si riflette ormai anche nella base.
Sotto il Vesuvio, tra gli attivisti espulsi e poi reintegrati dal tribunale di Napoli, si accende il focolaio più intenso del malcontento.
L’obiettivo dichiarato dai ribelli partenopei è quello di ottenere da Grillo la convocazione della prima assemblea nazionale degli iscritti al Movimento, per evitare, spiegano, «l’ennesima scelta calata dall’alto, segno sempre più evidente di una forte deriva antidemocratica». Vogliono «offrire una via d’uscita dal cul-de-sac in cui Grillo si è infilato».
La rivolta dei Masanielli pentastellati raccoglie in meno di due giorni 500 iscritti al Movimento e si propaga rapidamente in tutta Italia, da Roma a Milano, da Lecce a Verona.
«C’è il rischio che anche questo regolamento sia dichiarato illegittimo dal tribunale», mette in guardia Luca Capriello, avvocato e capofila degli attivisti napoletani in subbuglio.
Il punto, spiega Capriello, è che «il regolamento contrasta con lo statuto. Perchè se, per citare un singolo caso, nello statuto si sostiene che nel Movimento sono bandite le formazioni intermedie di qualsiasi natura, nel regolamento viene invece previsto un capo politico, dei probiviri e, prima di questo, era previsto un direttorio».
La questione si snoda poi intorno alla votazione online.
Per rendere legale il nuovo regolamento, è necessario il raggiungimento di un quorum fissato dalla legge a due terzi degli iscritti.
Il problema è che un registro ufficiale degli iscritti non esiste. Solo la Casaleggio associati possiede il numero di account del blog.
Nel 2012 si parlava di 130 mila iscritti. Oggi potrebbero essere più di 400 mila. L’alternativa ad un primo congresso di partito, difficilmente organizzabile, «sarebbe quella di resettare tutto: sciogliere le associazioni che si rifanno al Movimento cinque stelle e ricominciare da capo», spiegano gli attivisti. Anche ricorrendo a vie legali. Strada che non piace però a Federico Pizzarotti, che si defila: «I temi legalesi non mi appassionano».
Federico Capurso
(da “La Stampa”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
PARTE LA CAMPAGNA DELL’EX SINDACO, CENA COI FEDELISSIMI E POI IL TOUR
Ignazio Marino si gode il suo momento di celebrità , per quanto postuma, e snocciola i nomi di chi lo chiama per complimentarsi.
E tra questi ce n’è uno pesante, decisamente sorprendente visto il ruolo che ricopre: Giovanni Legnini, compagno di Pd ma soprattutto attuale vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.
In tempi di polemiche durissime tra politica e magistratura, è un segnale significativo. Come lo è l’intervento del ministro della Giustizia Orlando che, parlando al congresso nazionale forense a Rimini, spiega: «Spesso la giustizia è usata per la lotta politica».
Parte il suo tour
Intanto Marino è pronto a partire per un suo tour in Italia, che comincia la prossima settimana a Cuneo. L’occasione è il (ri)lancio del suo libro «Un marziano a Roma». Ma l’ex sindaco della Capitale non si farà mancare l’occasione per affondi politici, a cominciare dal referendum.
Questione che gli sta molto a cuore e lo mette in totale sintonia con la sinistra del partito. Del resto, spiega: «Sono stato un orgoglioso fondatore del Pd, sono stato candidato alla segreteria e mi ha fatto piacere che tanti uomini di sinistra del partito mi abbiano chiamato. Questa giornata è stato un modo per restituirmi onorabilità e riparare una ferita umana profondissima. Anche se resta quella, mortale, alla democrazia».
Le offerte della politica
Chiamate che fanno pensare a più di uno a un suo prossimo ritorno in politica, nonostante l’asserita volontà di restare un anno lontano dai riflettori.
Gira voce, in Liguria, che gli stiano arrivando offerte per candidarsi come sindaco di Genova. Lui smentisce, ma lieto: «Mi fa sorridere, è chiaro che mi fa piacere per l’affetto che ho per Genova, ma in questo momento nel mio radar non c’è l’idea di tornare a svolgere il ruolo di sindaco, nè a Genova nè altrove».
Su Roma in realtà , risponde più guardingo e generico: «A Roma c’è un sindaco al lavoro».
Il confronto con la giunta Raggi
Non proprio di suo gradimento: «Noi con la nostra giunta in dieci giorni abbiamo fatto quello che loro stanno provando a completare nei primi 150. In 100 giorni abbiamo pedonalizzato i Fori, chiuso Malagrotta, cambiato i vertici delle principali aziende e cancellato 120 nuovi permessi edilizi».
E loro? «Loro hanno fatto molte nomine. Con stipendi significativi».
E cose sgradite, come «il tentativo di riaprire al traffico il parco archeologico più grande d’Italia: abbiamo raccolto decine di migliaia di firme per far fare retromarcia alla giunta Raggi».
La cena con i «Marziani»
L’attivismo di Marino insospettisce chi pensa a un suo imminente ritorno. Sabato sera l’ex sindaco ha riunito i fedelissimi a cena a Villa Torlonia.
Un incontro chiesto dai «marziani» dell’associazione «Parte civile» alla quale ha partecipato buona parte della sua ex giunta.
Il segnale di un impegno in vista del prossimo congresso del Pd romano, a febbraio? Lui smentisce, ma si vedrà . Sul referendum, invece, ha le idee chiarissime: «Il Senato va completamente abolito. La riforma mantiene un sistema bicamerale à la carte. Questa riforma non è comprensibile ».
Nel suo tour parlerà anche di sanità : «Me ne occupo da quando ho 19 anni. Sono preoccupato per lo stato di abbandono in cui versa la sanità laziale. Medici, infermieri e tecnici non hanno quasi più gli strumenti nel pubblico per garantire non solo le cure ma anche la dignità delle persone».
Alessandro Trocino
(da “il Corriere della Sera”)
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Ottobre 9th, 2016 Riccardo Fucile
INNESCATA DALLO SCANDALO FIORITO, LA SECONDA TANGENTOPOLI SOFFRE DEI VUOTI NORMATIVI E DALLA DIFFICOLTA’ DI DEFINIRE IL CONFINE TRA FINI ISTITUZIONALI E INTERESSE PRIVATO… E I POLITICI VENGONO ASSOLTI
Soddisfatti e rimborsati. In Piemonte è appena finita, con 15 assoluzioni e 10 condanne. Anche l’inchiesta nelle Marche era partita col botto (66 indagati) ma a giudizio il prossimo sei dicembre saranno solo in cinque.
Il gip aveva chiesto di processarli tutti, il gup ha disposto il proscioglimento per 55 indagati perchè “il fatto non sussiste”.
La stessa Procura aveva poi chiarito che, in effetti, non si riscontravano propriamente “spese pazze” ma una sistematica “distrazione di fondi” da spese istituzionali ad altre relative all’attività politica dei singoli consiglieri.
E il banchetto di nozze, i regali di Natale, i fiori e le cene allargate possono anche rientrare nella categoria. Nessun ladrocinio, insomma, semmai uno “sviamento dei fondi”.
L’epilogo potrebbe essere simile in altre regioni.
Il più grande scandalo dopo Tangentopoli sta scivolando verso l’oblio. Come nulla fosse successo.
E allora: che fine ha fatto “rimborsopoli”? Che ne è della bufera giudiziaria che sulle orme di Fiorito ha travolto sedici consigli regionali su venti e un esercito di oltre 500 politici?
Poche condanne esemplari, molte assoluzioni, anche di massa. Questo dicono le sentenze emesse finora, e non perchè tutti gli imputati siano riusciti a dimostrare l’uso corretto dei denari del contribuente.
Di fatto molti processi di primo grado si sono risolti in un generale processo di rimozione e autoassoluzione del blocco politico alla sbarra. Che grazie a sentenze come quella del Piemonte, possono sperare. Ecco perchè.
Se a rubare sono i “diversamente ladri
In dibattimento l’accusa di peculato, sui cui tutto ruota, finisce spesso sepolta sotto la “mancanza di dolo specifico”, oppure annegata tra sottili distinguo sulla natura del reato che non c’è, se i soldi non vengono materialmente intascati ma spesi, benchè in modi molto discutibili.
Gli imputati vengono poi dichiarati incolpevoli “stante la loro buona fede”, perchè tratti in “errore” da una prassi e da regolamenti in capo ai consigli mai del tutto chiari, oggettivi e cogenti nell’indicare i vincoli di destinazione dei contributi da usare per spese di “rappresentanza”, “segretaria” e “attività politico-istituzionale”.
Così, sempre “per errore”, ci sarebbero finiti in mezzo gli scontrini il salame, il banchetto di nozze per la figlia etc.
L’alibi però non sempre è vero. “Se avessi detto che non andava bene una singola spesa, mi sarei trovato il giorno dopo in giardino” dirà il capo degli scontrini al Pirellone Alvaro Scattolini, per trent’anni dirigente regionale addetto alla verifica della spesa amministrativa, in un’udienza del processo a carico di 56 consiglieri regionali lombardi. Fatto sta che alcune di queste argomentazioni difensive sono state accolte in giudizio.
Parla di una “zona grigia” la sentenza con cui il gup di Bologna Letizio Magliaro, lo scorso dicembre, ha assolto i primi tre ex consiglieri sui 41 finiti a processo in Emilia Romagna per le spese relative al 2010-2011.
Il bianco sono le cene, le feste politiche, le consulenze e le trasferte. E’ una scelta del singolo, argomenta il giudice, se spendere un mucchio di soldi per queste attività oppure no.
Una scelta di “natura squisitamente politica” sulla quale non può intervenire una valutazione del giudice e conseguentemente sanzione di tipo penale”.
Il nero sono le spese incongrue, abnormi o giustificate da documentazione falsa. Oltre questi casi, il giudice non può andare.
Una questione di misura, insomma. La Procura non sembra del tutto d’accordo e ha proposto appello contro due assoluzioni (in tutto sono 9 per ora, a fronte di tre condanne e una ventina di posizioni aperte).
In Friuli l’inchiesta era partita con 22 indagati. Il 18 aprile 2016, a sorpresa, 18 ex consiglieri vengono assolti dal Gup Giorgio Nicoli perchè il “fatto non sussiste”.
Sembra una questione di latitudini mista a orgoglio locale: “Queste vicende — spiegherà Nicoli — “sono nate sulla scia dell’inchiesta su Fiorito, nel Lazio, ma in Friuli-Venezia Giulia nessuno di quei fatti è riconducibile, per le persone assolte, all’esempio del Lazio”. Il distinguo: “Un conto è prendere denaro del gruppo per versarlo sul proprio conto corrente o per acquistare immobili, ma in Friuli-Venezia Giulia non c’era nessuna contestazione di fondi utilizzati in questo modo”. In effetti il pm aveva contestato acquisti meno impegnativi: pneumatici, passeggini per bambini, profumi, gioielli, acquisti di pesce, lavatrici. E una quantità di scontrini enorme riferita ai viaggi: da Cortina a Parigi e fino all’Estremo Oriente (soprattutto in periodo estivo). Spese per un totale di 350mila euro. Se l’appartamento non c’era, la cifra gli equivale. A beneficio dei “diversamente innocenti”
Così la politica vince il derby con la giustizia
Una risposta può venire dalla reazione del “sistema” sotto inchiesta.
Il blocco politico alla sbarra infatti non è rimasto a guardare. Quando scoppia lo scandalo degli scontrini si professa garantista, lavora di avvocati, si prodiga per “alleggerire” le posizioni degli imputati e minimizzare il disvalore sociale ed etico delle condotte contestate.
Più che per convinzione, per necessità : deve tenere in piedi le assemblee e le giunte che già ci sono, con le relative poltrone, e traguardare le regionali 2015, primo vero banco di prova dei parlamentini sotto inchiesta.
Ai primi avvisi di garanzia risorge il partito trasversale contro la magistratura, come ai tempi di Mani Pulite.
Tra le sue fila siedono il presidente della Liguria Giovanni Toti (FI) e il segretario del Carroccio Matteo Salvini.
“Spero esista ancora uno stato di diritto”, dice il primo chiarendo che i suoi “colonnelli” indagati non dovevano dimettersi, decapitando la giunta.
E così sarà : il processo a carico di 23 ex consiglieri inizierà ad ottobre e al suo posto è rimasto anche Edoardo Rixi, braccio destro di Salvini e assessore regionale allo Sviluppo economico.
Il segretario gli fece subito quadrato intorno: “Non si deve dimettere, se dovessimo farlo in base a come si alza il giudice di turno siamo messi male. Ho una fiducia nella giustizia italiana pari allo 0,1%”.
Non mancano esternazioni di dileggio nei confronti degli inquirenti costretti a vagliare i rendiconti e le improbabili spese degli indagati. Fa impressione, in proposito, rileggere le dichiarazioni di magistrati che quasi si giustificano: “Non è colpa nostra — disse a un certo punto il pm di Torino Avenati Bassi — se siamo stati costretti a fare le pulci agli scontrini da un euro. E’ la realtà che è patetica” .
Analoghe le reazioni sul fronte Pd, ben rappresentate dal “caso Barracciu”, una bella gatta da pelare anche per il governo. “Il Pd è un partito garantista, il suo codice etico non esclude che ci si possa candidare per un avviso di garanzia. Neppure per rinvio a giudizio”, rivendicò Francesca Barracciu, l’esponente dem che aveva vinto al primo turno le primarie in Sardegna, salvo dovervi rinunciare tre mesi dopo proprio perchè indagata dai pm di Cagliari che le contestano tuttora spese per 81mila euro per gli anni 2004-2013. Lei si professa innocente e Renzi le crede perchè il 28 febbraio 2014, con le indagini ancora a metà , la nomina sottosegretario ai Beni Culturali.
La sua posizione però si aggrava e a fine ottobre 2015 viene rinviata a giudizio e lei si dimette, non senza una stoccata ai magistrati: “C’è un evidente problema di funzionamento del meccanismo giudiziario. Non è giusto per i cittadini che attendono di conoscere la verità e non è giusto per chi è coinvolto in un’indagine”.
L’attesa, in vero, non sarà poi tanta perchè il processo inizierà cinque mesi dopo. In quei mesi si colloca la crociata di Renzi sulla riduzione delle ferie ai magistrati (e relative polemiche)
E se in sede penale sembra aver prevalso la prudenza, un altro organo di giustizia, la magistratura contabile, è invece andata dritto come un treno, più volte contestando e condannando per danno erariale anche chi sul fronte penale aveva incassato in primo grado un’assoluzione piena.
Ad esempio in Friuli, dove molti consiglieri sono stati chiamati a risarcire la Regione (tutti hanno proposto appello). E non è l’unico caso.
A livello locale si sono anche registrati tentativi di condizionare i giudici al limite del lecito. Sempre in Liguria il leghista Francesco Bruzzone, già presidente del Consiglio regionale a processo per peculato e falso, è stato accusato di aver tentato di ricattare una funzionaria della Regione, moglie di un magistrato della Procura di Genova, per aggiustare le indagini. In cambio, avrebbe ottenuto la riconferma a capo di gabinetto. Così a Bruzzone arriva un secondo avviso di garanzia, stavolta per induzione alla concussione. L’accusa sembra però destinata a cadere. Lo stesso pm Massimo Terribile, titolare dell’inchiesta, ha chiesto l’archiviazione per il quadro probatorio labile anche se la vicenda resta contornata da un alone di dubbio. Il procuratore capo, Francesco Cozzi, precisa: “Si tratta di una motivazione molto articolata… bisogna leggerla… non dice che non c’è stato niente…”.
C’è poi chi ha apertamente diffidato il proprio giudice. Il consigliere ligure Gino Garibaldi (Ncd), tramite il suo legale, scomoda il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sostenendo che “La procura e il gip hanno invaso la sfera di attribuzioni del consiglio regionale”.
Le difese si fanno sempre più ardite, strabilianti e perfino grottesche.
In Sicilia il processo alle “spese pazze” comincerà il 7 novembre davanti alla terza sezione del Tribunale di Palermo.
L’ex capogruppo Raimondo Rudy Maira (Udc) è rinviato a giudizio per peculato. Tra le altre cose gli viene contestato di aver pagato il leasing di un’Audi A6 coi fondi del gruppo.
La sua difesa è: ma quale Audi, io guido una Maserati.
Un suo collega, Francesco Musotto (Mpa) usa argomentazioni apodittiche: lui non avrebbe mai potuto commettere un reato di peculato perchè suo padre, professore di giurisprudenza, era un esperto in materia e ne aveva scritto pure un libro. Le colpe dei figli, si sa, non possono ricadere sui padri. E quelle dei ladri sulle proprie, se sono riconosciuti “diversamente ladri”.
Thomas Mackinson
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: Giustizia | Commenta »