Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
ECCO L’ARTICOLO DEL CORRIERE DELLA SERA CHE PARLAVA DELLE DECISIONI PRESE AL VERTICE DI VARSAVIA… SERVI DEGLI USA DA UNA VITA, ORA MAGGIORDOMI DI PUTIN
Costretta come Giano Bifronte a non distogliere lo sguardo dai pericoli del passato, mentre già
incombono le sfide del futuro, la Nato prova a ritrovare un dinamismo al passo con i tempi e in grado conciliare le molte anime e percezioni che convivono, non sempre in armonia, al suo interno.
In un luogo carico di significati e contrappassi, in quella Varsavia una volta icona del nemico e oggi frontiera delle inquietudini per gli alleati orientali, i capi di Stato e di governo dell’Alleanza atlantica hanno aperto il vertice, che Barack Obama, al suo ultimo viaggio europeo da presidente degli Stati Uniti, ha definito «il momento più importante dalla fine della Guerra Fredda».
La decisione più attesa del summit è il via definito allo stazionamento a rotazione di quattro «battle groups», da 4 a 5 mila uomini in totale, in Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia, garanzia tangibile della volontà della Nato di «proteggere e difendere» gli alleati del fianco Est, di fronte al riemergere delle ambizioni espansioniste di Mosca. Arrivando nella capitale polacca, Obama ha annunciato che gli Stati Uniti vi contribuiranno con mille soldati. Circa 650 saranno i militari del Regno Unito. Anche Canada e Germania si sono impegnate a inviare unità .
Nel suo intervento in plenaria, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha annunciato che l’Italia metterà a disposizione fino a 150 uomini per le quattro brigate del fronte orientale, a conferma della volontà del nostro Paese di non far mai mancare il suo contributo alle scelte più importanti dell’Alleanza: «L’Italia è uno dei Paesi che dà di più alla Nato», ha detto il premier, evocando la presenza italiana in quasi tutte missioni fuori area.
Renzi ha anche ricordato che per la prima volta dopo 8 anni di tagli, il bilancio della Difesa italiana si è stabilizzato e che per il 2016 l’Italia ha aumentato del 20% gli investimenti nel settore.
Polacchi e baltici avrebbero voluto uno schieramento permanente. Ma come ha detto il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, «la Guerra Fredda è storia e deve rimanere tale», sottolineando che «la Russia non può e non deve essere isolata, perchè ha un ruolo importante dentro e fuori l’Europa».
«La Russia non è un avversario ma può essere un partner», ha detto il presidente francese Francois Hollande, appena giunto a Varsavia.
Il messaggio di determinazione e fermezza inviato al Cremlino si sposa quindi con la disponibilità a un dialogo «significativo e costruttivo con Mosca».
Ma il vertice di Varsavia certifica un’ambizione molto più vasta e globale dell’Alleanza atlantica. Ieri mattina sono state gettate le basi di una più stretta cooperazione strategica tra la Nato e l’Unione europea, che Obama ha definito «uno dei più grandi successi politici ed economici dei tempi moderni, pietra angolare dei rapporti degli Stati Uniti col mondo».
In una dichiarazione congiunta di Stoltenberg, del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker e del Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, Nato e Ue si impegnano a condividere l’intelligence, ampliare la cooperazione navale e di terra operativa per il controllo dell’immigrazione, sviluppare capacità difensive complementari tra i membri dell’Alleanza e quelli dell’Unione, non ultimo espandere la coordinazione sulla cyber security, promossa a pieno titolo a «settore operativo» al pari delle operazioni di terra, mare e aria
Con lo sguardo anche rivolto ai pericoli che emergono dal fronte Sud, una istanza da sempre sostenuta dall’Italia, il vertice polacco è ora pronto ad approvare l’uso degli Awacs della Nato per la sorveglianza aerea nella lotta al terrorismo jihadista, l’addestramento delle forze iraniane, l’aumento della presenza nel Mediterraneo per rafforzare il controllo del flussi migratori, l’eventuale incremento della presenza militare in Afghanistan.
Paolo Valentino
(da “il Corriere della Sera”)
8 luglio 2016
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
BERLUSCONI NON VUOLE INFILARSI NELLA TRAPPOLA REFERENDUM: “SE PREVALE IL NO I VINCITORI SARANNO GRILLO E D’ALEMA, SE PREVALE IL SI’ VINCERA’ RENZI”… E INTANTO PAGA 90 MILIONI DI DEBITI DI FORZA ITALIA
Più volte, in queste settimane di assenza di Berlusconi, hanno chiesto a Confalonieri lumi su cosa accadrà . E quale sarà l’impegno del Cavaliere in politica, diventata la sua vera passione degli ultimi vent’anni.
Più volte, la risposta, col tono dell’amico, è stata l’auspicio di un ritiro definitivo dalla politica. Con l’aggiunta: per il suo bene.
E c’è da immaginare che l’auspicio, condiviso con i vertici aziendali e qualche amico, sia un consiglio ripetuto più volte in privato.
Perchè, spiega un fonte alta di Mediaset, “comunque vada questa non è la partita di Berlusconi”. Nel senso che “se vince il no è la vittoria di Grillo o di D’Alema e se vince il sì è di Renzi”.
E un buon rapporto col governo che c’è e che verrà non necessita, anzi verrebbe complicato, dalla presenza in campo del Cavaliere e della sua ormai inservibile classe dirigente se è vero, prosegue la fonte, che “i rapporti col governo attuale sono eccellenti, basta sentire Confalonieri tessere le lodi di Giacomelli”.
E se è vero che è sempre sbagliato pensare che il Cavaliere sia bollito, che altri possano decidere per lui quasi fosse interdetto, e che non fa nulla che in fondo non condivide, magari facendo finta che lo stia subendo in nome del “sai che non posso dire di no”, “lo devo a Marina”, se è vero tutto questo si può sintetizzare il suo atteggiamento verso il referendum in modo molto pragmatico, al netto degli spifferi del suo staff che parlano di lui come alla vigilia del ’94: Berlusconi vive questa storia come una trappola in cui non si vuole infilare.
Un battaglia lose lose, sia in caso di vittoria netta del sì sia in caso di vittoria netta del no, con l’aggravante che la battaglia in sè è un rischio per chi ha avuto uno scompenso cardiaco all’atterraggio a New York.
È per questo che la Meloni e Salvini, pronti a partire per Milano per un vertice, si sono sentiti dire che “il presidente è appena rientrato e vuole riposare e preferisce non vedere nessuno”.
Quelli attorno fanno di tutto per normalizzare la comunicazione, lasciando intendere che come sempre il Cavaliere farà una cosa imponente gli ultimi quindici giorni, anche se poi a domanda successiva ti accorgi che al massimo potrà registrare qualche video o una puntata addomesticata da Vespa: non scontri, niente piazze o teatri, bagni di folla o più iniziative in un giorno. Quelli attorno raccontano questo.
Ma gli auspici di Confalonieri trovano ovunque rumorose conferme di una grande dismissione della politica e di un ritiro che sembra già in atto secondo la battuta che circola nell’azienda: “Berlusconi si sta astenendo sul referendum, perchè mettere la faccia dieci giorni prima, ammesso che la metta, è come non metterla”
Una volta le battaglie erano totali.
Col Cavaliere, anche lui interpellò i consulenti americani di Bush come Renzi sta facendo con Jim Messina, che mobilitava andando tutti i giorni in tv.
E facendo propaganda in terra, in cielo — una volta mandò gli elicotteri su Gallipoli con la scritta “cacciamo D’Alema dal parlamento” — e da mare, con la famosa Nave azzurra del 2000.
Oggi la dismissione viaggia su un utilitaria, anzi l’utilitaria per eccellenza, la Fiat 500. Proprio così.
Il 22 da Milano partiranno una quindicina di Fiat500 guidate da volontari, con il simbolo di Forza Italia e la scritta No che andranno in giro fermandosi dove c’è qualche manifestazione del partito per il No.
E se le utilitarie indicano la volontà di non investire, i conti correnti di Forza Italia contengono un’altra traccia, perchè proprio nelle settimane successive all’intervento al cuore a sono stati sanati i novanta milioni di debiti.
Non è ancora un ritiro definitivo, ma quando ci sarà , i conti saranno in ordine.
Perchè i debiti non si lasciano a chi viene dopo, anche se non viene nessuno.
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
L’ATTIVISTA DELLA DENUNCIA: “ANCHE GRILLO ERA STATO INFORMATO”
C’è un’altra mail che Luigi Di Maio non ha letto o ha sottovalutato, dopo quella firmata Paola Taverna
che lo avvisava delle indagini a carico dell’assessora di Roma Paola Muraro e che ha scatenato un putiferio concluso con le sue pubbliche scuse.
È una mail anonima che lo informava della falsificazione di duemila firme avvenuta nel 2012, a Palermo, prima delle elezioni comunali.
Per capire quanto i vertici del M5S sapessero di questa storia che vede sul banco dei sospettati deputati pentastellati e racconta di un’ulteriore faida tra i grillini, bisogna ricostruire la vicenda dalla fine e guardare con attenzione alle date.
È la trasmissione Le Iene, il 3 ottobre, a tornare su una vicenda che sembrava aver avuto il suo epilogo quattro anni fa con l’archiviazione di una prima inchiesta.
Gli autori hanno ricevuto dallo stesso anonimo che lo scorso luglio dice di aver mandato la documentazione a Di Maio, responsabile enti locali per il M5S, fogli contenenti le firme vere raccolte nel 2012 per la presentazione delle liste.
Ma se quelle vere sono in circolazione, cosa è stato consegnato agli uffici elettorali del Comune di Palermo?
Le Iene lo rivelano nella puntata successiva del 9 ottobre: sono fogli che secondo due esperti grafologi contengono duemila firme false.
Di Maio incontra un autore del Le Iene il 26 settembre in un locale di Testaccio. Sembra cadere dalle nuvole.
Ma solo il 3 ottobre, dopo il servizio tv, ammette in un comunicato di aver fatto cercare la mail e di averla effettivamente ricevuta «il 12 settembre all’indirizzo della mia segreteria». Email poi inoltrata ai carabinieri.
Il 10 ottobre la procura di Palermo riapre l’inchiesta e Beppe Grillo dal suo blog ringrazia «Le Iene e le persone che hanno denunciato il fatto» definendo il M5S «parte lesa».
Peccato però che contemporaneamente uno dei deputati coinvolti, Claudia Mannino, tra l’altro segretaria dell’ufficio di presidenza della Camera, abbia annunciato querela verso i denuncianti.
Tra di loro c’è il professor Vincenzo Pintagro che a Le Iene ha raccontato di essere stato testimone oculare della falsificazione a opera della Mannino e Samanta Busalacchi, altra attivista oggi tra i candidati a sindaco di Palermo.
«C’erano loro due all’ingresso – spiega a La Stampa – mentre nella sala interna c’erano Francesco Lupo e Riccardo Ricciardi, fratello e marito della deputata Loredana Lupo».
«Una parentopoli che denuncio da tempo» continua Pintagro.
Sono i big del M5S locale e fanno riferimento a Riccardo Nuti, ex capogruppo alla Camera, ex candidato sindaco nel 2012 con lo pseudonimo accalappia-voti «Il Grillo». Dopo la querela, gli altri deputati, da Di Maio in giù, hanno detto di «fidarsi di loro». Mentre nessuno ha telefonato a Pintagro, nè Di Maio nè Grillo.
Anche se pare che il comico, su tutte le furie, abbia fatto in modo di congelare le «comunarie» di Palermo.
C’è, però, un altro particolare che racconta Pintagro: «Grillo sapeva. Era stato informato durante una cena a Genova con i cento migliori attivisti. Glielo disse Luigi Scarpello, proprietario del locale in cui falsificarono le firme». E cosa fece? «Allargò le braccia. Lo capisco pure: gli rompevano le palle da tutta Italia ».
Ilario Lombardo
(da “La Stampa”)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
GLI ISCRITTI SAREBBERO 130.000, OCCORRE ARRIVARE AL 75%, MA TUTTO AVVIENE SENZA CONTROLLO DI AUTORITA’ TERZA
Bip bip. Squillano i cellulari degli attivisti del Movimento 5 Stelle. O meglio, lo fanno quelli di chi non ha ancora votato il nuovo regolamento da associare al non statuto del non partito di Beppe Grillo.
A mandare il messaggio, è il capo politico in persona. Anzi, per lui lo fa un complesso sistema elettronico che conserva i numeri degli iscritti al blog e sa chi – di questi – ha già votato oppure no. Ma la firma è la sua.
“Belìn! – si legge sul display – Ma non hai ancora votato? Vota subito sull’aggiornamento del Non Statuto e del Regolamento M5s”. Segue link che rimanda alla votazione e “un abbraccio” da parte del leader.
L’obiettivo iniziale di 100mila firme è considerato ora dai grillini non obbligatorio, ma c’è una norma del codice civile secondo cui per modifiche ai regolamenti delle associazioni non riconosciute serve il parere del 75% dell’assemblea (gli iscritti al blog dei 5 stelle, stando all’ultima dichiarazione al riguardo, dovrebbero essere almeno 130mila).
I vertici M5S ora sostengono che “la nostra non è un’assemblea fisica, è on line, e davanti a un giudice sarà sufficiente dimostrare che abbiamo fatto il massimo per rispettare gli obblighi di legge. Per questo è necessario raccogliere il maggior numero di firme possibile”.
Tesi peraltro discutibile e non confermata.
Da qui la caccia ai ritardatari prima con le e mail mirate, ora con gli sms.
Le nuove regole sono state scritte per cercare di evitare i casi di ricorsi come quelli di alcuni espulsi di Roma e Napoli, che hanno vinto la loro battaglia in tribunale e che il Movimento è stato costretto a riammettere.
E, se non fosse andato via prima, avrebbe aiutato anche a contrastare un eventuale ricorso del sindaco di Parma Federico Pizzarotti, sospeso da mesi.
In una delle due versioni che si possono scegliere, è prevista la sospensione per uno o due anni, che può tramutarsi in sospensione a vita.
Nell’altra versione ci sono invece le espulsioni. In entrambe, la nascita di un comitato di tre probiviri, un tribunale politico proposto dal garante ed eletto via blog tra i parlamentari che dovrà decidere le sanzioni da comminare. L’ultima parola resterà però sempre a Beppe Grillo, che potrà annullare le punizioni o sottoporle a una decisione online tra gli iscritti.
Ma molti espulsi sono pronti a impugnare anche il nuovo regolamento di fronte al giudice.
(da “La Repubblica“)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
ACCADE A VALENZANO , LA CITTADINA DELLA MONGOLFIERA DEDICATA AL BOSS DURANTE LA FESTA DEL PATRONO
Con l’accusa di aver chiesto all’ex vicesindaco di Valenzano, alle porte di Bari, 1.000 euro al mese in
cambio della candidatura alle elezioni regionali pugliesi del maggio 2015, la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per il sindaco di Valenzano, Antonio Lomoro (coalizione di centrodestra), e per il consigliere comunale di maggioranza Agostino Partipilo.
Lomoro nei mesi scorsi è balzato all’onore delle cronache per la vicenda della mongolfiera per la festa patronale di san Rocco dedicata alla famiglia di un pregiudicato locale e che ha acceso un dibattito sul ruolo delle istituzioni nella lotta alla mafia, portando a Valenzano anche la presidente della commissione parlamentare Antimafia, Rosy Bindi.
Stando alle indagini della magistratura barese, coordinate dal sostituto Claudio Pinto e dal procuratore aggiunto Lino Giorgio Bruno, più di un anno fa il sindaco e un consigliere si sarebbero resi protagonisti di un’altra vicenda ora finita in un’aula di tribunale.
I due indagati avrebbero cioè indotto l’ex vicesindaca Francesca Ferri “a consegnare loro indebitamente 1.020 euro mensili, corrispondente all’indennità percepita per la carica rivestita, non riuscendo nell’intento per rifiuto nella stessa”.
Avendo appreso dell’intenzione della Ferri di candidarsi alle elezioni regionali, in particolare, le avrebbero fatto “chiaramente intendere come per candidarsi fosse necessario il loro consenso e il loro avallo politico”.
A questo scopo, e per non essere sfiduciata in giunta comunale, avrebbe dovuto pagare.
Gli inquirenti hanno inoltre ricostruito che dopo il suo rifiuto, nel marzo 2015, le sarebbe stato revocato dal sindaco l’incarico al Comune.
A due indagati la Procura contesta il reato di tentata induzione indebita a dare o promettere utilità . L’inchiesta è partita dalla denuncia di Ferri, difesa dall’avvocato Fabio Campese, che si costituirà parte civile. L’udienza preliminare inizierà il 16 febbraio 2017 dinanzi al gup barese Giovanni Anglana.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
SONDAGGIO IXE’, RENZI AGGUANTA IL PARI: ENTRAMBI AL 37%… ANCORA QUALCHE APPARIZIONE DI SALVINI, BRUNETTA E DIBBA E MATTEO MANGIA IL PANETTONE
È testa a testa tra Sì e No al referendum costituzionale, a poco meno di due mesi dal voto del 4 dicembre.
I due fronti, infatti, sono appaiati al 37%, con gli elettori Pd compatti per confermare la riforma costituzionale (70%) e quelli del M5S decisamente contrari (65%).
Lo dice un sondaggio dell’Istituto Ixè, illustrato ad Agorà su Raitre.
Se si votasse oggi, inoltre, l’affluenza sarebbe del 51%, mentre andrebbe alle urne il 76% degli elettori Pd, il 62% del M5S, il 70% della Lega Nord e il 49% di Forza Italia.
Queto ultimo dato fa riflettere.
Mentre il Pd riesce a mobilitare 3 propri elettori su 4, M5S e Lega ne convincono solo 2 su 3 e Forza Italia 1 su 2.
Non solo, in base ad altri sondaggi il 40% degli elettori di Forza Italia sarebbe intenzionato a votare Sì, cosi come il 20%-25% di quelli di Lega e M5S.
Compensati solo in parte da un 20% di elettori Pd indirizzati verso il No.
Non a caso il 37% del No rappresenta un 25% in meno rispetto alla somma M5S-Centrodestra-Sinistra Italiana che sono schierati per il rifiuto della riforma.
(da agenzie)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
L’ENNESIMA ORDINANZA INCOSTITUZIONALE DEL SINDACO BITONCI NON NASCONDE PER CASO LA NECESSITA’ DI PERMETTERE AI RISTORANTI PADAGNI DI USARE OLIO TUNISINO, POMODORI MAROCCHINI E CARNI DELL’EST EUROPEO PER IL RESTANTE 40% ?
«Prima i Veneti». Schiere di aspiranti primi cittadini marchiati Lega Nord, nati e cresciuti in seno alla
ridente Padania, ci hanno ricamato sopra intere campagne elettorali.
Dalle case, alle scuole, al lavoro. La padovanità e la trevigianità , tanto per fare un esempio, sono diventate valore aggiunto per avere un alloggio, un banco a scuola e quant’altro.
Massimo Bitonci, primo cittadino di Padova, con l’ultima ordinanza, ha superato se stesso: ha declinato il primato veneto in chiave alimentare.
Da «domani», chiunque voglia aprire un bar, un ristorante, un chiosco, dovrà esporre sul bancone il 60 per cento di prodotti veneti doc: dal baccalà ai bigoi in salsa, dall’oca in onto alla polenta in tocio passando per la sopa coada.
«È consentito esclusivamente l’insediamento e il trasferimento di attività artigianali/commerciali di preparazione e/o vendita di prodotti alimentari, qualora l’esercente ponga in vendita nella misura di almeno il 60% di prodotti filiera veneta o comunque tipici del territorio e della tradizione storico culturale della città di Padova e della Regione Veneto» si legge all’articolo 4 bis del provvedimento, che sarà probabilmente quello che farà scattare l’ennesima denuncia e relativo annullamento.
L’obiettivo è chiaro, tanto che l’ultima trovata di Bitonci è già stata soprannominata ordinanza anti-kebab.
C’è un ma: se la legge è uguale per tutti, nel menu di un qualsivoglia nuovo ristorante giapponese non potranno mancare le sarde in saor o il bisato in tocio (anguilla in umido, per i non appassionati del genere)….
«Per esser chiari, è una norma antikebab che la nostra giunta ha deciso di intraprendere per difendere le attività che vendono prodotti di qualità » ha sottolineato il braccio destro di Bitonci, Eleonora Mosco, presentando i contenuti del regolamento.
In sostanza, chiunque vorrà aprire un’attività nel centro storico di Padova che preveda il commercio d’asporto (kebabbari, pizzerie, gastronomie, generi alimentari, rosticcerie e take away), dovrà dimostrare di vendere almeno il 60% dei prodotti provenienti dalla filiera veneta. La giunta si è premurata di annunciare che «sono previste deroghe».
Ma, manco a dirlo «verrà effettuata un’analisi caso per caso», partendo comunque dal veto della giunta. Un regolamento che è solo l’ennesimo spot demenziale della Giunta leghista e che non reggerà alla prima contestazione di fronte a un tribunale.
Sorge una domanda spomtanea: perchè poi solo il 60% di prodotti della filiera veneta?
Forse per permettere ai ristoranti padagni di usare olio tunisino, pomodori marocchini, arance spagnole e carni polacche per il restante 40%?
(da agenzie)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
IN 25 PAESI DEL MONDO E’ IL LAVORO CHE MANCA LA PIU’ GRANDE PREOCCUPAZIONE… A SEGUIRE CORRUZIONE, POVERTA’ E CRIMINALITA’
Disoccupazione, tasse e corruzione: eccole, le tre divinità del male che spaventano i nostri sonni.
La trimurti delle paure è stata fotografata da un sondaggio Ipsos-Mori: “Cosa preoccupa il mondo?”, hanno chiesto i sondaggisti dell’istituto in 18.014 interviste effettuate tra il 26 agosto e il 9 settembre in 25 paesi, mostrando un lungo elenco di alternative e chiedendo di indicarne tre.
Ed è venuto fuori che non è il terrorismo ma la disoccupazione il grande incubo collettivo del pianeta, e per nessuno come Spagna e Italia lo è così tanto: il 66% degli intervistati italiani l’ha inserita tra le tre preoccupazioni principali, molto più della media mondiale in cui è ferma al 38%; e poco meno della Spagna, che guida la classifica con il 70%.
La crisi c’è e fa paura, il lavoro invece continua a non esserci e anche questo spaventa eccome.
Ma è sulle tasse che non abbiamo rivali. Quello sì che è un incubo tutto italiano: lo ha inserito tra le tre paure più grandi il 40% degli italiani, affidandogli il secondo posto tra le preoccupazioni che non ci lasciano dormire, e peraltro in crescita dell’un per cento da luglio ad agosto.
Molto, troppo più della media mondiale in cui le tasse sono solo l’ottava preoccupazione indicata dal 16% degli intervistati.
E stacchiamo tutti di una bella spanna, i secondi sono i canadesi con il 32%, poi belgi e francesi con il 28%.
E non poteva che esserci la “corruzione politica e finanziaria” al terzo posto delle nostre preoccupazioni, ma qui siamo in buona compagnia: nel mondo è addirittura la seconda preoccupazione più percepita con il 33%, dove tuttavia pesa pur sempre un punto percentuale in meno dell’Italia in cui è al 34%.
Già perchè in Italia le grandi paure sono chiare e precise, e non è affatto vero – per esempio – che il cambiamento climatico o il terrorismo siano tra queste: siamo rispettivamente al 7 e al 13%, molto meno preoccupati della media mondiale del 10 e 21%.
Alla fine, quando il sondaggio spara la domanda delle cento pistole, è un bello schiaffo quello che arriva dagli italiani. “Le cose nel suo paese stanno andando nella direzione giusta o in quella sbagliata?”.
Provate a indovinare la risposta…
Se il mondo è pessimista (62% di risposte per la direzione sbagliata), l’Italia è quarta in classifica tra gli scoraggiati senza fiducia: l’83% punta il dito verso la direzione sbagliata, e solo i francesi, i messicani e i brasiliani la vedono più nera di noi.
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 14th, 2016 Riccardo Fucile
IL GOVERNO INGLESE SEMBRA NON AVERE ALCUNA PALLIDA IDEA SU COME GESTIRE LA SITUAZIONE…E LA STERLINA E’ ARRIVATA ALLA PARITA’ CON L’EURO
“Brexit means Brexit” aveva dichiarato nel luglio scorso Teresa May durante la campagna per la
leadership del partito conservatore.
Da allora, cosa significa in concreto Brexit è una domanda che non ha ancora trovato un responso chiaro.
O meglio, ho trovato talmente tante diverse e contraddittorie risposte, peraltro nessuna ufficiale (sic), che ormai da vuota retorica è diventata un’espressione idiomatica per indicare il “nulla”.
Da qualche giorno però, Brexit inizia a indicare un po’ di cose e sciaguratamente non sono proprio vantaggiose.
Che significasse “caos e anarchia”, questo già lo si sapeva. Il partito laburista lo aveva sperimentato da subito. Ora che la soap sulle elezioni del leader si è conclusa con un Jeremy Corbyn rafforzatosi e che ha già provveduto a fare l’ennesimo rimpasto della sua squadra (il terzo? ho perso il conto onestamente), si spera che si inizi a vedere una effettiva opposizione sui temi dell’uscita dall’Europa. E non solo francamente.
Ma ahimè non è parso così mercoledì a Westminster durante il question-time in cui Corbyn, sì incalzava il primo ministro su una serie di punti fra i quali anche la tutela dei lavoratori europei (cittadini no?), ma si dimenticava però di citare il white-paper che i suoi due ministri ombra (Emily Thornberry agli Esteri e Keir Starmer all’uscita dall’Europa) sempre ieri mattina avevano presentato alla stampa.
Insomma, a rimarcare – come se ce ne fosse bisogno – che la sua è una leadership “solitaria” (e direttamente in sintonia col suo ‘popolo’ direbbero nelle sezioni della Sinistra italiana).
Del resto quale è la posizione del Labour sui temi dell’immigrazione e dell’Europa non è stata per nulla chiarita al Congresso che si è chiuso lo scorso 29 settembre, con tanto di dichiarazioni contraddittorie fra il leader e i diversi suoi ministri. Tant’è.
Brexit purtroppo ha significato fin dal giorno dopo il voto anche razzismo e intolleranza. E senza andare a scomodare la nostalgia per l’Impero o le camicie nere di Oswald Mosley, basti ricordare che il voto del 23 giugno ha dato una sorta di legittimo mandato “democratico” a una parte della popolazione inglese (per fortuna molto minore ma non per questo meno pericolosa) a dare libero sfogo alla propria più acritica esterofobia, per dirla con un eufemismo.
I dati pubblicati a inizio ottobre dal home office non lasciano infatti spazio a interpretazioni.
In un contesto ipersensibile come il Regno Unito di oggi, il confine fra patriottismo e nazionalismo è ancora più labile.
Le prime pagine dell’Express negli ultimi giorni lo hanno superato ampiamente. L’irresolutezza e l’incoerenza del governo, poi, non aiuta.
Può apparire una forzatura tacciare di razzismo e antisemitismo l’infelice uscita di Teresa May al congresso del suo partito in cui di fatto ha stigmatizzato “i cittadini del mondo” (queste le parole esatte: ‘If you believe you’re a citizen of the world, you’re a citizen of nowhere. You don’t understand what the very word citizenship means’), una frase tuttavia che se analizzata al di fuori della stretta polemica politica non si può negare che sul piano intellettuale riproponga i topoi più inquietanti del secolo scorso (e ringrazio chi me lo ha fatto notare).
Non ci sarà invece bisogno di raffinate analisi per capire la ratio che stava dietro alla richiesta di escludere i ricercatori di nazionalità “europea” della London School of Economics dal team di consulenti che preparano i dossier per il governo o dalla proposta avanzata dal ministro degli interni di richiedere alle aziende l’elenco dei lavoratori non-britannici.
Di certo l’impressione che stanno dando non è delle più razionali, anzi sembra proprio che non abbiano la più pallida idea di cosa si debba fare e soprattutto di come gestire anche le più semplici questioni.
E mi limito al momento a inserire nell’ampia categoria dell’impreparazione l’idea di escludere il percorso della Brexit dal voto parlamentare, perchè in quel caso si tratterebbe di imporre una enorme ipoteca alla democrazia parlamentare e alla costituzione.
Lo “spettacolo” vero inizierà soltanto l’anno prossimo, a marzo, termine ultimo indicato da May per attivare l’ormai fantomatico articolo 50 e che darà inizio al vero percorso di “uscita” dall’Ue. Prepariamoci ai fuochi d’artificio dunque.
Cosa succederà alla sterlina e all’economia britannica nel frattempo?
Le stime più ottimistiche indicano la parità della moneta di Sua Maestà all’euro, di per sè una sorta di nemesi storica, mentre il costo totale del divorzio in termini micro- e macro-economici sale di vari punti ogni giorno nelle analisi del Financial Times.
Farà un po’ sorridere che la catena di supermercati Tesco a causa dell’aumento dei costi di importazione dovuti alla caduta della sterlina abbia eliminato dagli scaffali del proprio negozio online, oltre a una serie di prodotti di largo consumo, anche la Marmite (una crema a base di estratto di lievito di birra), ma è certamente indicativo di quale sarà il tasso di inflazione dopo Natale.
Nel frattempo però i turisti cinesi e russi che affollano Sloane street si potranno comprare l’intera ultima collezione di Louis Vuitton, che per lo stesso motivo ora par essere molto più conveniente in sterline che in dollari.
Sarà un dato accolto con favore da Downing street e dai Brexiteers?
Il conto più salato, tuttavia, non verrà dagli ex-partner europei i quali di fatto sono i veri attori nel decidere se sarà hard- o soft- Brexit.
Il premier scozzese Nicola Sturgeon aprendo il congresso dello Scottish National Party ha dichiarato che presenterà a breve una nuova proposta di legge per indire un secondo referendum sull’indipendenza scozzese.
Brexit forse significa anche “exit” in tutti i sensi.
Marzia Maccaferri
Docente di storia politica
University of London
(da “il Fatto Quotidiano”)
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