Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
SE VENISSE ARCHIVIATA PER IL REATO DI ABUSO D’UFFICIO, POTREBBE ESSERE CONDANNATA PER IL REATO DI VIOLAZIONE AMBIENTALE… MA LA PENA E’ RIDICOLA
Oggi tutta la stampa riporta la notizia che la Procura di Roma, con riferimento all’assessora Paola Muraro, si appresta a richiedere l’archiviazione per il delitto di abuso di ufficio mentre intende procedere per la “violazione ambientale”.
Prescindiamo dalla fondatezza e dall’origine della notizia che si basa su presunte “intenzioni” della Procura e vediamo di analizzarla, alla luce delle poche informazioni disponibili, con riferimento, appunto al reato che resterebbe in piedi, e cioè alla “violazione ambientale”.
La stessa assessora Muraro, infatti, ha precisato di aver chiesto, a suo tempo, notizie alla Procura sulla sua posizione (con il 335) e di aver appreso di essere indagata per la contravvenzione di cui all’art. 256, comma 4 del Testo unico ambientale (D. Lgs 152/06).
Si tratta della contravvenzione che punisce chi non osserva le prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni ambientali ovvero chi opera in carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni di cui allo stesso testo unico.
La pena dipende dal provvedimento che si reputa violato, ma, trattandosi di impianti Ama, è probabile che riguardi la (presunta) violazione di prescrizioni di una autorizzazione ambientale non riferita nè a discariche nè a rifiuti pericolosi.
E allora la pena prevista in caso di condanna consiste nell’arresto da 45 giorni a 6 mesi o nell’ammenda da 1.300 a 13.000 euro.
Si tratta della pena alternativa cui si applica l’art. 162 bis del codice penale (“oblazione nelle contravvenzioni punite con pena alternativa”), per cui, prima che inizi il processo, il contravventore può essere ammesso a pagare la metà del massimo dell’ammenda — e cioè 6.500 euro — estinguendo il reato ed evitando, appunto, il processo ed ogni conseguenza penale.
L’oblazione non è ammessa solo se il contravventore è già recidivo o quando permangono conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte del contravventore — circostanze che non sembra sussistano nel caso in esame — ovvero se trattasi di fatto reputato particolarmente grave.
E qui mi fermo. In caso di chiusura indagini per questo reato, valuterà ovviamente l’assessora con i suoi legali quello che vorrà fare.
Mi limito a segnalare che, con ogni probabilità , potrà chiudere tutto il penale subito con 6.500 euro.
Il paradosso è che, se si fosse trattato di una inosservanza concernente impianti ben più pericolosi — quelli soggetti ad Aia (Autorizzazione integrata ambientale) — quale, ad esempio, la centrale Enel di Civitavecchia, non avrebbe neppure corso il rischio di un processo perchè l’attuale governo, nella sua infinita bontà , nel 2014 ha stabilito che, per questi, vi sia solo una sanzione amministrativa (art. 29- quattordecies del testo unico).
E poi dicono gli ecoreati.
Gianfranco Amendola
Ex magistrato, esperto in normativa ambientale
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
LE INDISCREZIONI CONFERMANO INVECE IL TRAFFICO ILLECITO DI RIFIUTI
Mentre imperversano le polemiche politiche sulla giunta cinque stelle, si avvicina l’ora della verità giudiziaria per l’assessora all’Ambiente Paola Muraro.
L’ex consulente milionaria Ama verrà interrogata la prossima settimana alla procura di Roma.
La data non è ancora certa, mentre sicura è l’importanza della sua deposizione.
Un punto di svolta nell’inchiesta. Indagata sia per traffico illecito di rifiuti, sia per abuso d’ufficio (in concorso con gli ex vertici Ama, oggi tra gli imputanti eccellenti di Mafia Capitale), la Muraro, dopo il confronto con i magistrati, potrebbe avere più chiaro il quadro che sta per profilarsi.
Potrebbe essere rinviata a giudizio per entrambi i reati? O gli elementi raccolti contro di lei potrebbero alleggerire le accuse di abuso d’ufficio?
È ancora troppo presto per stabilire se questa contestazione possa procedere verso l’archiviazione.
Mentre appare più possibile l’ipotesi di un’accelerazione, con un’eventuale richiesta di rinvio a giudizio, per i reati ambientali.
Il pm Alberto Galanti e gli aggiunti Paolo Ielo e Michele Prestipino stanno minuziosamente valutando tutta la documentazione raccolta dai carabinieri del Noe e dal nucleo di polizia tributaria della guardia di Finanza.
E i reati ambientali sembrerebbero, almeno per il momento, suffragati da dettagli che potrebbero inchiodare l’assessora.
A partire da quelle cifre e quei codici sulla carta relativi alla spazzatura da smaltire che non corrispondevano ai dati reali.
Paola Muraro, infatti, doveva vigilare sulla quantità e sulla qualità dei rifiuti trattati e prodotti.
Ma il sospetto della procura è che i due impianti siano stati sottoutilizzati: i numeri relativi ai rifiuti in uscita da Rocca Cencia risulterebbero reali solo per il 20 per cento.
Ancora da valutare ulteriormente, sono invece gli aspetti che concernono l’abuso d’ufficio in concorso con l’ex direttore generale Ama Giovanni Fiscon e l’ex amministratore delegato Franco Panzironi.
La Muraro, difesa dall’avvocato Riccardo Olivo, svolgeva davvero un ruolo da dirigente nonostante fosse solo una consulente?
Contro questa ipotesi degli inquirenti ci sarebbe un articolo del regolamento interno della municipalizzata che potrebbe scagionare l’assessora.
È ancora presto per scrivere la parola fine alla vicenda, ma ci siamo vicini.
Grazia Longo
(da “La Stampa”)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
DAL DOPPIO TURNO DI COLLEGIO AL NO PREFERENZE, FINO ALLA BATTAGLIA PER LE PREFERENZE
Tenetevi forte: saliamo sulle montagne russe.
Dicembre 2005, nasce il Porcellum. È in fasce e fa già schifo a tutti, per capirlo basta il nome.
Negli anni sarà definito schifezza, indecenza, vergogna, verrà dichiarato incostituzionale, si invocheranno governi di scopo per cancellarlo.
Ma dura tre elezioni: una vinta a destra, l’altra a sinistra, la terza finita in pareggio.
Ma quando a fine 2011 era arrivato Mario Monti, i partiti non avevano altra incombenza che rifare la legge elettorale.
Un un terzetto di prescelti – Maurizio Migliavacca per il Pd, Denis Verdini per il Pdl, Nando Adornato per i centristi – si incontra e tratta. Il Pd vuole il sistema francese con doppio turno di collegio, il Pdl risponde ok, perfetto, allora dateci il semipresidenzialismo. Il semipresidenzialismo? Mai! Provocazione! Scandalo!
Insomma, salta tutto (se non riuscite a stare dietro a doppi turni, collegi eccetera non importa, la trama non ne risentirà ).
Allora il Pdl dice: teniamo il Porcellum e aggiungiamo le preferenze, così l’elettore si sceglie il parlamentare. Le preferenze? Mai! Provocazione! Scandalo!
Anna Finocchiaro: «Siamo contrari alle preferenze». Pierluigi Bersani: «Collegi, non preferenze, non possiamo metterci fra Tangentopoli e la Grecia». Vannino Chiti: «Niente ritorno alle preferenze».
Salta tutto. Si torna al voto col Porcellum, febbraio 2013.
Bersani non riesce a fare il governo. Lo fa Enrico Letta col centrodestra.
Si comincia a lavorare alla nuova legge elettorale. Si istituisce un apposito comitato di saggi.
Nel frattempo, nel Pd, Roberto Giachetti, che è in sciopero della fame per sollecitare la cancellazione del Porcellum, propone – per sicurezza, casomai i saggi fallissero, o si dovesse tornare alle urne – di ripristinare il Mattarellum, la legge degli anni Novanta. Bastano quindici giorni, dice.
Il Mattarellum, capito? Cioè: niente preferenze, ma collegi. Eppure nel Pd firmano soltanto in una cinquantina.
Ma a poco a poco arrivano altri, da Scelta civica, dal Pdl (Antonio Martino), da Sel, e quando si tratta di votare una mozione di indirizzo, una semplice dichiarazione d’intenti, il Pd con segretario Guglielmo Epifani riunisce il gruppo parlamentare e le firme vengono ritirate. Tutte.
Di colpo, niente collegi. Fate attenzione: quando il Pdl voleva le preferenze, il Pd voleva i collegi. Quando Giachetti voleva i collegi, il Pd non li voleva più: stava passando alle preferenze.
La mozione viene votata dai grillini: se il Pd ci fosse stato, oggi ci sarebbe il Mattarellum. Se ne va Letta, tocca a Matteo Renzi e si incardina l’Italicum, che non prevede preferenze, ma brevi liste bloccate.
E – magia! – la minoranza del Pd, che era maggioranza fino all’arrivo di Renzi, si invaghisce delle preferenze.
Bersani: «I cittadini debbono poter scegliere i loro deputati. Su questo non intendo desistere: va bene la ditta e la fedeltà ma quando si arriva a temi di democrazia…».
Gianni Cuperlo sarebbe ancora per i collegi ma «vanno bene anche le preferenze».
Miguel Gotor raccoglie le firme attorno a una proposta: 25 per cento di nominati, 75 per cento con le preferenze.
Si rifà l’Italicum. Come chiede la minoranza Pd, si cambiano le soglie per entrare in Parlamento e per ottenere il premio di maggioranza, soprattutto si inseriscono le preferenze nelle percentuale del settantacinque.
Tutto a posto? No.
Adesso la minoranza Pd ci ha pensato bene, vuole il Mattarellum che non voleva quando a volerlo era Giachetti.
La minoranza Pd riraccoglie le firme per «riequilibrare governabilità e rappresentanza e dare diritto di tribuna ai partiti più piccoli». Cuperlo: «Si riparte insieme dal Mattarellum!».
Ripartiamo: che verbo preciso.
Mattia Feltri
(da “La Stampa”)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
UN NO TRASVERSALE ALLA PRESENTAZIONE DELLA PROPOSTA ALTERNATIVA DI D’ALEMA E QUAGLIARELLO: DA RODOTA’ A FINI, DA GASPARRI A CIVATI, DA FEDRIGA A ZOGGIA, DA INGROIA A DINI
“Non esiste uno schieramento politico del No, questa è la differenza fondamentale in questa campagna. Esiste invece un blocco governativo del Sì, il cosiddetto partito della Nazione, che coincide con la maggioranza di governo ed è sostenuto dai poteri forti di questo Paese”.
Lo dice Massimo D’Alema ad un’iniziativa a Roma sul referendum.
“Uno schieramento — aggiunge — minaccioso che lancia insulti che non dovrebbero appartenere al confronto cui siamo chiamati e così minaccioso che ha avviato campagna minacciando la fine del mondo se dovesse vincere il no, alimentando un clima di paura e intimidazione da far sentire in colpa chi è per il No come se portasse il Paese verso il baratro”.
D’Alema ha presentato insieme a Gaetano Quagliariello una controproposta di riforma costituzionale.
Rivolgo un appello ai parlamentari — continua l’ex leader dei Ds — visto che quella è una delle varie poltrone a cui ho rinunciato senza cercarne altre, perchè all’indomani del referendum portino avanti la nostra proposta perchè il cammino delle riforme non si ferma se vince il No”.
La proposta prevede tra l’altro la riduzione del numero dei parlamentari: taglia i deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200. .
“Si toglie così -spiega sul punto- anche quel l’unico argomento vero della campagna governativa: ‘cacciamo i politici’, dicono, che come slogan del capo dei politici… Il populismo è un problema del nostro tempo ma il populismo dall’alto è molto più pericoloso di quello del cittadino comune”.
Tra le altre cose l’ex presidente del Consiglio ha aggiunto che “nel mio partito si usa dire che il No aprirebbe la strada a Grillo. Ma chi dirige il mio partito ha già aperto la strada a Grillo consegnandogli la Capitale del Paese…”.
E lo si è fatto, aggiunge, “con operazioni che saranno sui manuali di politica come esempio di come non si fa politica”.
D’Alema ha attaccato tra gli altri anche Confindustria: “Dottoreggia — dice — su come la politica deve tagliare i suoi costi, forse sarebbe meglio si occupasse dei conti del Sole 24 Ore“.
Quanto al merito della riforma, “nell’atto fondativo del Pd ce l’impegno contro riforme costituzionali fatte a maggioranza. Sono principi del partito a cui io sono iscritto e a cui mi attengo a differenza di chi dirige il Pd”. ”
Tra il pubblico, ad ascoltarlo, un pubblico a dir poco trasversale: dal giurista Stefano Rodotà agli esponenti del centrodestra Maurizio Gasparri, Paolo Romani, Lucio Malan e Massimiliano Fedriga, da Pippo Civati all’esponente della sinistra Pd Davide Zoggia.
E poi una serie di esponenti della vecchia guardia: Gianfranco Fini, Lamberto Dini, Paolo Cirino Pomicino.
“Non è strano — dice Gaetano Quagliariello — che esponenti di schieramenti diversi si ritrovino sulle stesse posizioni a proposito della Costituzione. E strano semmai che chi propone un cambio radicale della nostra Carta”, ovvero Matteo Renzi, ” sia così solo”.
(da agenzie)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
STANCO DEL DIBATTITO, UN UOMO DI 37 ANNI FA INTERROMPERE LA RIUNIONE AL CIRCOLO ARCI DI PISTOIA
Un “rimedio” estremo alla noia del dibattito sul referendum.
A Pistoia, un uomo di 37 anni ha allertato la polizia denunciando la presenza di una bomba nella sede di un circolo Arci della città toscana dove era in corso un dibattito sul referendum costituzionale in programma il 4 dicembre.
Infastidito, forse annoiato, l’uomo, presente nel circolo Arci-Bonelle, in via Bonellina, ha composto il 113 e ha annunciato la presenza dell’ordigno esplosivo, chiudendo subito la comunicazione.
I carabinieri del Norm sono subito intervenuti e hanno individuato l’autore della bravata, che ha poco dopo confessato-
Ai militari l’uomo ha poi detto di avere agito così perchè ‘seccato’ dal prolungarsi della riunione.
Compiuti i necessari accertamenti sulla provenienza della chiamata, i carabinieri lo hanno condotto negli uffici di viale Italia e denunciato per procurato allarme presso le autorità .
(da “Huffingtonpost“)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
PER IL NYT POTREBBE VINCERE ANCHE PRIMA DELL’OTTO NOVEMBRE
Donald Trump in caduta libera. Almeno nei sondaggi.
Al punto che il New York Times arriva a ventilare l’ipotesi che Hillary Clinton possa esultare ben prima dell’8 novembre.
Quando arriverà l’election day, infatti, molti americani avranno già espresso la loro volontà con il voto anticipato – via posta o alle urne – previsto in molti Stati e sempre più utilizzato e il distacco fra i due candidati sta raggiungendo livelli tali che potrebbe emergere ben presto l’indicazione del successore di Barack Obama.
L’early voting.
I primi dati in arrivo dalla Florida e dal North Carolina mostrano che l’ex segretario di Stato era in vantaggio già prima di quel venerdì 7 ottobre che ha mostrato al mondo il video del 2005 in cui Donald Trump parlava in modo greve e sessista delle proprie conquiste femminili.
Secondo lo staff di Hillary, più del 40 per cento dell’elettorato voterà prima dell’8 novembre nei cosiddetti “swing state”.
Proprio per questo il nome del prossimo presidente potrebbe arrivare prima dell’election day.
L’ultimo sondaggio.
La consultazione Reuters/Ipsos vede la Clinton distanziare The Donald. Ci sarebbero ora 8 punti a vantaggio della candidata democratica – il 45% contro il 37% – mentre un elettore repubblicano su cinque sostiene che i commenti volgari di Trump sulle donne lo abbiano squalificato in vista della possibile elezione a presidente degli Stati Uniti.
Si vota in Ohio, lo Stato che decide.
La campagna entra ancor più nel vivo perchè da oggi si vota in Ohio, lo Stato in bilico per definizione visto che nelle 30 elezioni statunitensi dal 1896 solo in due casi chi ha ha vinto lo Stato ha perso la poltrona presidenziale.
In particolare, nessun repubblicano è mai diventato presidente senza aver conquistato l’Ohio e nessun democratico, dal 1964, si è seduto alla Casa Bianca senza una vittoria in Ohio.
Per questo, si dice: “as Ohio goes, so goes the nation”. L’ultimo sondaggio vede Hillary Clinton in vantaggio di 9 punti, 43% contro il 34% di Donald Trump.
Si muove Barack.
A spendersi per la candidata democratica è ancora una volta Barack Obama. Il presidente degli Stati Uniti è intervenuto a un evento in North Carolina e si è detto sorpreso del fatto che qualcuno possa prendere le distanze da Trump per le sue dichiarazioni sessiste ma continuare a sostenerlo nella corsa alla Casa Bianca. “Adesso ci sono persone che dicono: Sono profondamente in disaccordo, davvero disapprovo…ma ancora lo appoggiamo. Ancora pensano che lui possa diventare presidente, il che è privo di senso secondo me. Sento qualcun altro che dice: beh, sono cristiano quindi penso che tutti debbano essere perdonati perchè nessuno è perfetto. Ebbene, questo è vero, anch’io certamente non sono perfetto, e anch’io credo nel perdono e nella redenzione, ma questo non significa che voglio eleggere questa persona presidente”.
Il riferimento solo implicito è allo speaker della Camera, Paul Ryan, che si è detto disgustato dalle performance di Trump, senza tuttavia ritirare il suo endorsement.
I finanziatori infuriati.
Un’altra tegola per il magnate newyorkese viene da alcuni dei suoi finanziatori, che ora chiedono indietro i soldi.
“Non riesco a trovare le parole per esprimere la mia delusione per Trump”, ha scritto uno dei finanziatori in una mail inviata ad un fundraiser, cioè una persona che raccoglie i fondi per il repubblicano.
“Mi pento di aver partecipato a manifestazioni a sostegno di Trump e soprattutto di aver portato mio figlio – continua il messaggio – e con rispetto chiedo che mi siano restituiti i soldi”.
Un portavoce della campagna repubblicana, Jason Miller, ha affermato di “non essere al corrente di nessuna richiesta di questo tipo da parte di finanziatori”.
Ma il sito della Nbc cita la mail di un altro finanziatore che spiega di “non poter sostenere un sessista, ho tre figli piccoli e non sosterrò un volgare sessiste. Mi aspetto che mi venga restituita la mia donazione – conclude – vi prego di procedere immediatamente e vi ringrazio”.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
TRA POCHE ORE UNA GIOVANE DONNA IN IRAN FINIRA’ SUL PATIBOLO
Tra 24 ore una giovane donna finirà sul patibolo da qualche parte in Iran.
Ci finirà perchè, secondo l’accusa, quando era poco più che una bambina, aveva 17 anni appena, avrebbe ammazzato suo marito, uomo che non aveva scelto e a cui l’avevano data in sposa quando aveva 15 anni.
Un uomo che le usava ogni possibile forma di violenza, fisica e psicologica, e che non voleva concederle il divorzio.
Un uomo che, forse, non ha nemmeno ammazzato ma che sarebbe stato ucciso dal suo stesso fratello che, tra una cosa e l’altra, “ingannava il tempo” stuprando sua cognata.
Succede nel mondo.
Succede in silenzio quasi ogni giorno: una donna ammazzata per volontà di una giuria composta di uomini fa meno notizia (anzi non ne fa proprio) rispetto ai disastri evidenti e infiniti delle infinite guerre che punteggiano il pianeta come recalcitranti chiazze allagate di sangue.
La donna che domani, con ogni probabilità salirà sul patibolo, oggi ha 22 anni e si chiama Zeinab.
Non ha potuto studiare, non ha potuto innamorarsi e flirtare, non ha potuto scegliere cosa fare di se stessa e della sua vita dal giorno in cui è venuta al mondo.
La sua famiglia ha deciso per lei, prima. Suo marito, dopo.
Oggi che è passata la giornata delle bambine, quella in cui il mondo si indigna davanti ai dati del rapporto Unicef sulle spose bambine – giusto per sciacquettare le memorie già annebbiate: nel mondo ogni 7 minuti c’è una ragazzina di 15 anni che viene fatta sposare a un uomo che non ha scelto e che, se è fortunata, non la troncherà di mazzate, non la stuprerà , non la costringerà in casa a sfornar figli, e le vorrà un pochino di bene -, oggi tutti dobbiamo fermare l’esecuzione di Zeinab.
Che era minorenne all’epoca dei fatti, che non ha avuto uno straccio di avvocato per tutta la durata del processo (se non all’ultima udienza, quando ormai era troppo tardi), che ha confessato dopo 20 giorni in caserma dove è stata pestata a sangue, che ha il diritto a un giusto processo e alla tutela che spetta ai minori riconosciuti colpevoli di un reato.
Perchè ammesso e non concesso che abbia ucciso quell’animale di suo marito, Zeinab aveva 17 anni ed era una vittima.
Come vittime sono, in ogni parte del mondo, le spose bambine cui è negato, per consuetudine, il diritto alla libertà .
E, no, abbiate pazienza non è vero, o almeno non credo lo sia, che non si avverte l’assenza di ciò che non si conosce.
La globalizzazione di smartphone e Netflix, che è arrivata nei campi profughi del deserto dell’Hammada, deve essere per forza arrivata anche nei dintorni di Teheran, ragion per cui il principio di libertà individuale deve essere in qualche modo giunto anche alle orecchie delle donne di Teheran.
Ma anche così non fosse io mi rifiuto di starmene buona e zitta, di accettare l’ineluttabilità di questa consuetudine per cui se nasci femmina nel paese sbagliato (ma ne esiste poi uno giusto?) porti nel patrimonio genetico la sfiga di genere.
Mi rifiuto di non urlare e tirare su le barricate ogni volta in cui vengo a conoscenza di un’ingiustizia che si consuma sulla pelle di una donna.
Che mi sta bene possa essere colpevole e mi sta anche bene che paghi per quello che ha fatto, ma non secondo il barbaro principio della “pena equivalente” (modernismo per legge del taglione), a maggior ragione se questo principio viene applicato a una minorenne.
E allora io mi alzo da sola e se qualcuno vuole unirsi a me staremo in piedi assieme a gridare che Zeinab deve vivere e non per grazia ricevuta (secondo la legge coranica applicata in Iran la pena di morte può essere commutata in carcere se i parenti del defunto perdonano l’assassino), ma per diritto delle ragione.
Zeinab deve vivere e deve esser imputata in un giusto processo che tenda illuminare la verità dei fatti, non a condannare per il genere del presunto colpevole.
Zeinab deve vivere perchè Zeinab è tutte le donne del mondo che sono vittime della violenza degli uomini, che non conosce latitudini e che parla ovunque la stessa lingua: quella della prevaricazione. Zeinab sono io e Zeinab siete voi che lottate per la libertà e per l’autodeterminazione alla quale ogni essere umano ha diritto dal momento in cui viene al mondo.
Salviamo Zeinab, salviamo le bambine.
(da “Huffingtonpost”)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
IL COMITATO PD USA BERLUSCONI PER PROMUOVERE IL SI’ ED ESPLODE LA POLEMICA… MA LE ANALOGIE CI SONO ANCHE CON LE PROPOSTE DEL M5S
Il titolo dell’articolo sul sito “bastaunsi.it” non lascia spazio a molte fantasie: “I punti in comune tra riforma costituzionale e programma del Pdl 2013”.
L’intento della campagna della maggioranza del Pd è chiaro — come spiegato in altri ambiti anche da Matteo Renzi, cioè conquistare voti a destra — ma, una titolazione così netta e con il simbolo del vecchio partito di Silvio Berlusconi che campeggia, rischia di trasformarsi in uno spot alla rovescia.
Soprattutto alla luce del marasma interno al partito, con la sinistra interna di Pierluigi Bersani che ha annunciato di votare No.
I punti di contatto tra quanto prospettato dal Popolo della Libertà tre anni fa e dal governo adesso, secondo il comitato per il Sì del Pd, sono diversi.
La riforma risponderebbe al capitolo del programma del centrodestra “Istituzioni adeguate e moderne favoriscono lo sviluppo del Paese”.
Nello specifico, il Pdl proponeva “riforma del bicameralismo, Senato federale, dimezzamento del numero dei parlamentari e delle altre rappresentanze elettive”; “Revisione dei regolamenti parlamentari e snellimento delle procedure legislative, con tempi certi per l’approvazione delle Leggi”; “Abolizione delle Province tramite modifica costituzionale”.
Nell’articolo si aggiunge che è “interessante notare come nel programma di partiti di ogni colore siano presenti gli stessi punti portati avanti da questa riforma costituzionale”.
Infatti giorni fa il sito pubblicò un articolo simile ma con le analogie tra la modifica costituzionale varata dalla maggioranza e quella dei M5S.
“La riforma promuove alcuni punti che sembrano ispirati al programma presentato alle elezioni politiche del 2013 proprio dal movimento di Grillo”, c’era scritto.
Solo che l’accostamento con il vecchio Pdl fa molto più rumore.
Polemica su Twitter l’eurodeputata di Possibile Elly Schlein, fuoriuscita del Pd: “Siamo di fronte al tipico fail di chi vuole rivolgersi a tutti, dimenticando che dovrebbe rappresentare qualcuno…”
(da “La Repubblica”)
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Ottobre 12th, 2016 Riccardo Fucile
SULL’ORLO DEL CRACK ALTRE 146 AMMINISTRAZIONI
Ben 84 amministrazioni in dissesto finanziario, altri 146 enti locali a un passo dal crack.
E’ la mappa drammatica delle amministrazioni pubbliche rimaste con le casse vuote. Sindaci che per decenni hanno messo a bilancio entrate virtuali, perchè impossibili da riscuotere. O che hanno creato società dello sperpero.
Una gestione allegra che si è spenta con la spending review e le regole imposte da Bruxelles un anno fa.
Ma cosa accade quando un municipio fallisce? E davvero potrebbe fare default una metropoli come Roma, dove il disavanzo, malgrado tutti gli aiuti ricevuti in passato, è cresciuto di 853 milioni in 8 anni?
Dai bilanci allegri al disavanzo tecnico
“Too big to fail”, dicono gli americani a proposito delle banche talmente grandi che possono farsi beffe della solidità dei bilanci grazie al fatto che un salvataggio sarà comunque sempre più conveniente di un devastante crack.
Una massima che si può applicare all’infinito anche a enti pubblici strategici come, ad esempio, il comune di Roma? Davvero la Capitale, già al centro di una operazione di salvataggio, e destinataria di eccezioni, misure ad hoc e finanziamenti extra, rischia ora di fallire, come ci raccontano le ultime cronache dal Campidoglio?
Un crack della Capitale, con tutto il danno di immagine che questo comporterebbe per il Paese, è già stato evitato una volta otto anni fa, grazie all’escamotage di commissariare il debito (13,7 miliardi, 20 compresi gli interessi, che pagheranno tutti gli italiani per trent’anni) anzichè il Comune, come avrebbe dovuto succedere.
Ma ora lo spettro di un default dell’ente amministrato da Virginia Raggi riappare a un orizzonte neppure tanto lontano con un deficit che, crescendo dal 2008 a una media di 125 milioni l’anno, è già arrivato a sfiorare il miliardo.
Se a Roma lo Stato ha risparmiato l’onta del dissesto (incapacità di pagare i debiti con le entrate correnti e di assicurare l’erogazione dei servizi pubblici), per ovvi motivi di realpolitik in quanto il fallimento della Capitale sarebbe stato una figuraccia internazionale, ben 84 Comuni italiani – stando ai dati aggiornati all’8 giugno 2016 – quell’onta l’hanno amaramente subita
Una questione meridionale.
I problemi della finanza allegra interessano i Comuni in quanto sono gli unici, tra gli enti pubblici, ad essere dotati di autonomia finanziaria contabile.
Da un’analisi della distribuzione geografica sul territorio nazionale delle amministrazioni dissestate realizzata da Ifel, l’Istituto per la Finanza locale dell’Anci, emerge con prepotenza una “questione meridionale” 2.0.
Su 84 Comuni in crisi finanziaria, infatti, ben oltre la metà (60,7%) si concentra in due Regioni, Calabria (25 enti) e Campania (24 enti, di cui 16 nella sola provincia di Caserta).
Ancora più significativa in termini numerici è la questione degli enti che hanno aderito alla procedura di riequilibrio finanziario pluriennale.
Al 28 giugno 2016, risultano infatti in pre-dissesto 146 enti locali, di cui 10 Province. Anche nel caso del pre-dissesto, gli enti che hanno fatto ricorso alla procedura sono concentrati prevalentemente nelle regioni meridionali, con picchi in Calabria (29), Sicilia (25) e Campania (18).
Ma il Settentrione non ne è certo immune: le regioni interessate da casi di pre-dissesto sono infatti 15, a fronte delle 11 in cui sono localizzati gli enti dissestati
Il caso Sicilia e il Nordest virtuoso.
Con 16 casi, la Sicilia sembra vivere una preoccupante situazione a sè. Non solo per le dimensioni demografiche degli enti coinvolti, ma anche alla luce di una situazione di squilibrio finanziario di lungo corso e che sembra essersi cronicizzata nel corso degli anni.
Tra i Comuni siciliani con i conti in rosso, figura perfino Taormina, la ‘perla dello Ionio’ scelta dal governo Renzi per il G7 del prossimo maggio, che sta sprofondando verso il dissesto sotto il peso di 13 milioni di euro di debiti.
Diverso il quadro al Settentrione. Secondo i dati dell’Ifel, i Comuni più virtuosi si trovano nel Nordest. In Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Veneto non risulta neppure un caso di dissesto, mentre due crack sono avvenuti in Piemonte
Ammettere il dissesto non basta.
Nonostante la legge preveda che la procedura del dissesto si completi entro cinque anni dalla dichiarazione di default, sono ben 16, secondo l’Ifel, i casi di enti che hanno deliberato il dissesto prima del 2011.
Tra questi, due Comuni risultano non aver ancora terminato il risanamento, nonostante sia trascorso addirittura un quarto di secolo dalla dichiarazione di fallimento. E il trend è in crescita.
Dal 2011 al 2014, il numero degli enti che hanno deliberato il dissesto finanziario è costantemente aumentato: dai 3 che l’hanno dichiarato nel 2011 si è arrivati ai 21 nel 2014, passando per i 14 nel 2012 e i 20 nel 2013.
Deficit tra tagli e malagestione.
Negli anni passati il debito è stato la grande leva che ha permesso ai sindaci di poter disporre di notevoli entrate aggiuntive per finanziare, tra l’altro, propagande elettorali e clientelismi.
Disponibilità di cassa — priva di reali coperture – che ha consentito di presentare ai propri elettori, di volta in volta, bilanci allegri e immaginifici, lasciando in eredità alle amministrazioni successive l’onere di dover far fronte ai deficit che man mano si accumulavano.
A onor del vero, ma non certo a difesa dei tanti casi di malagestione amministrativa, va ricordato che i Comuni italiani hanno subito pesanti tagli alle entrate da parte dei governi durante gli anni dell’austerity.
Nel periodo 2010-2015 la sforbiciata alle loro entrate è stata pari complessivamente a 8,6 miliardi di euro. Un’ulteriore riduzione della capacità di spesa per 2,5 miliardi è stata determinata poi dall’istituzione del “Fondo crediti di dubbia esigibilità “.
Una coppia diabolica.
Bilanci gonfiati da crediti di dubbia esigibilità e tagli alle entrate: poggia su questo combinato disposto dall’effetto tutto negativo lo scenario politico amministrativo nel quale è maturata la crisi contabile dei Comuni italiani. Il dissesto, per un municipio, è l’equivalente, per un’impresa, del fallimento.
Poichè, però, non è pensabile che l’ente territoriale in stato di insolvenza interrompa l’erogazione di servizi pubblici ai cittadini (le imprese invece portano i libri in tribunale e fermano la produzione), il governo lo commissaria per sottrarlo alle mani dei politici e dei funzionari locali che non hanno saputo amministrarlo.
Questa è la regola. Ma la storia della contabilità allegra dei Comuni italiani è un’altra e sembra ispirata al motto “fatta la legge, trovato l’inganno”, in un clima di mancanza di controlli, di complicità istituzionali e di indifferenza generale.
Chi lo paga il conto?
Per tanti, troppi anni, gli enti locali hanno potuto redigere bilanci inserendo tra le entrate delle voci inesigibili (o quantomeno di dubbia esigibilità ) che servivano a coprire le uscite. Soprattutto ricchi incassi da multe che in realtà era evidente l’amministrazione non avrebbe mai avuto la capacità di riscuotere.
E così, approfittando di una normativa ambigua sui bilanci, tanti Comuni — Roma compresa – hanno potuto accumulare nel tempo una montagna di deficit.
Per capire ancora meglio il meccanismo che permetteva di gonfiare i bilanci è possibile fare un esempio: cento euro di crediti per multe — secondo la norma in vigore prima del 2015 – erano considerati dai Comuni, nei bilanci preventivi, come se fossero tutti incassabili nell’esercizio in corso.
Era quella voce di 100 nell’attivo a dare loro la copertura necessaria per poter sostenere spese di pari importo.
Un padre di famiglia non spenderebbe mai dei soldi senza averli sul conto corrente, ma solo sulla base di un credito che sa benissimo che non riscuoterà se non in minima parte.
I sindaci, invece, per decenni hanno speso soldi senza averli effettivamente in cassa. In altre parole, pur sapendo che a fronte di ogni 100 euro di credito per le multe solo 20 sarebbero entrati davvero, gli amministratori hanno continuato a spenderne cento. Generando, di fatto, ogni anno un buco di bilancio legalizzato.
Con buona pace di chi avrebbe dovuto controllare: revisori dei conti, Corte dei conti, prefetture, ministro dell’Economia, ministro dell’Interno.
La svolta del 2015. I nodi ad un certo punto sono venuti però al pettine.
Dal 2015 il ministero dell’Economia, che fino a quel momento aveva tollerato il fenomeno, ha deciso, anche su pressione dell’Unione Europea, di porre fine al sistema dei falsi in bilancio legalizzati e ha imposto ai Comuni un’operazione di ripulitura dei conti. Il nuovo regime ha introdotto in particolare il principio della “competenza finanziaria potenziata o a scadenza”, un istituto molto simile al bilancio di cassa, che obbliga l’ente a spendere solo quei soldi che hanno effettivamente incassato. Se riscuote contanti, può spenderli.
Se vanta crediti, no. I crediti non esigibili vengono sterilizzati in un fondo svalutazione crediti e ora l’equilibrio di bilancio è dato dal pareggio tra tutte le entrate reali e tutte le spese.
Se malgrado ciò le uscite sono maggiori di quanto si riscuote e di conseguenza si viene a creare uno stato di dissesto, sindaco, assessore al Bilancio e ragioniere capo vanno incontro a sanzioni penali, tra cui il falso in bilancio e il falso ideologico.
E, sanzione ancor più temuta dai politici nel caso in cui la Corte dei Conti accerti la loro responsabilità nel dissesto, all’ineleggibilità per cinque anni. La giustizia contabile, infatti, non dovrà più dimostrare come accadeva prima che il dissesto ha provocato un danno erariale attraverso un faticoso procedimento giudiziario. La nuova norma prevede che il dissesto sia di per sè sufficiente ad infliggere le sanzioni.
I ‘salvataggi’ di Roma e Reggio Calabria.
Cosa sarebbe successo se, sotto il peso di quasi 13 miliardi di debito accumulato durante le giunte di centrosinistra Rutelli (assessore al Bilancio Linda Lanzillotta) e Veltroni (assessore al Bilancio Marco Causi), fosse stato dichiarato lo stato di dissesto di Roma?
La Corte dei conti (all’epoca era in vigore la vecchia normativa), avrebbe dovuto accertare un eventuale danno erariale e contestarlo ai politici e agli amministratori individuati come responsabili del dissesto.
La storia, però, è andata diversamente: anzichè il Comune, s’è preferito commissariare il debito. E così il problema di un eventuale danno erariale contestato a carico di qualche politico non s’è posto.
Diverso ancora il caso di Reggio Calabria – sciolto nell’ottobre del 2012 quando era già in vigore la nuova normativa sulla ineleggibilità in vigore dal 2011 – comune infiltrato dalla ‘ndrangheta ma soprattutto devastato da bilanci in rosso.
“In questo caso specifico – spiega il sociologo Vittorio Mete, studioso del fenomeno dei Comuni commissariati per mafia – il governo ha optato per la più ‘facile’ soluzione dello scioglimento per infiltrazioni mafiose che, essendo un provvedimento di natura preventiva, riguarda solo l’amministrazione in carica.
Per Reggio Calabria il governo evitò dunque di avventurarsi lungo la strada del dissesto che avrebbe portato a conseguenze diverse e più devastanti per il ceto politico locale, visto che la responsabilità della malagestione era stata attribuita anche alla precedente amministrazione guidata da Giuseppe Scopelliti, all’epoca governatore della Regione”.
A Reggio Calabria, insomma, si è verificato uno strano paradosso: anche se in piazza si stracciavano le vesti, lo scioglimento per mafia potrebbe aver salvato — temporaneamente, come poi si è visto – la carriera a più di un politico.
Il disavanzo tecnico.
Poichè non sarebbe stato possibile passare da un anno all’altro a un diverso sistema di contabilizzazione, nel 2015 è stata prevista un’operazione ponte. L’anno scorso gli enti pubblici hanno redatto due bilanci, uno secondo le vecchie regole, l’altro secondo quelle riformate per far sì che a partire dal 2016 entrassero in vigore i nuovi bilanci. Nell’anno ponte 2015, dunque, ai Comuni è stato imposto di redigere due contabilità : una autorizzativa (vecchio sistema) e l’altra conoscitiva (nuovo sistema). L’anno seguente la conoscitiva è diventata autorizzativa, e da quel momento è partito il nuovo regime. Ma non tutto è filato liscio.
Riscrivendo i bilanci secondo le nuove regole (e non considerando più i crediti inesigibili alla stregua di veri e propri attivi), moltissimi Comuni hanno evidenziato un disavanzo che, per l’occasione, è stato chiamato “tecnico”.
Tecnico in quanto risultato di una nuova normativa. Poichè questo passaggio è stato incentivato dalla circostanza che un eventuale deficit non avrebbe comportato responsabilità di alcun tipo, di fatto da molti la normativa del 2015 è stata considerata una vera e propria sanatoria contabile.
Con le nuove regole quasi tutti gli enti hanno dichiarato due bilanci con numeri diversi (uno dei due, in teoria, falso).
Una rivisitazione contabile che ha fatto emergere un buco complessivo nazionale compreso tra i 12 e i 15 miliardi di cui per ben 853 milioni è responsabile la sola Roma. A tanto è risultato infatti ammontare il disavanzo tecnico della Capitale dove il bilancio è passato da 6,5 miliardi a 5,7, con una variazone di poco inferiore al 10%, in linea con la media nazionale.
Rate trentennali.
Poichè, però, il legislatore si è reso conto che quel disavanzo tecnico non è stato (questa volta) colpa degli amministratori, ma imposto dalla legge (una sorta di buco legalizzato?), è stato deciso di scorporarlo dai bilanci consentendo ai Comuni di rimborsarlo in 30 anni, imputando nel passivo corrente di ogni anno soltanto una quota fissa di un trentesimo. Roma, ad esempio, per un trentennio dovrà rimborsare una rata di circa 26 milioni.
La speranza è che con la nuova normativa, che rende più difficile e rischioso per gli amministratori truccare i conti, sindaci e assessori procedano ad una maggiore programmazione, gestendo il denaro pubblico con una cautela sino ad oggi spesso ignorata. In teoria, dovrebbe essere stato quindi scongiurato il rischio di nuovi e futuri dissesti.
Ma, visto l’andamento della politica italiana, si tratta appunto di speranze e teoria.
(da “La Repubblica”)
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