INTERVISTA A BEBE VIO: “DISABILE E’ CHI SI SENTE TALE E PENSA DI NON SAPER FARE NULLA”
L’OLIMPIONICA SENZA GAMBE E BRACCIA: “LA COMPASSIONE E’ PEGGIO DELL’INDIFFERENZA”
«Non chiamatemi poverina: la compassione può essere peggiore dell’indifferenza. Noi amputati non siamo inutili. Anzi, possiamo esservi d’aiuto. Se vi svegliate che fa freddo, piove e c’è traffico, non pensate: che giornata del cavolo. Una giornata del cavolo è svegliarsi con le gambe gonfie, non poter mettere le gambe artificiali e dover uscire in carrozzina».
Una mattina con Bebe Vio è in effetti di grande aiuto. Da lei abbiamo molto da imparare. Ad esempio a vaccinare i nostri figli.
«Quando vado in tv o parlo al telegiornale dico sempre che sono contenta così, che la malattia non mi ha sconfitta, eccetera. Però, quando accade un trauma del genere, non accade solo a te. Accade ai tuoi genitori, alla tua famiglia. E hai il dovere di evitare che accada. Se a casa non avessimo dato retta all’Asl, che ci diceva “tanto c’è tempo”, e se dopo la vaccinazione contro la meningite A avessi fatto anche quella contro la C, non mi sarei ammalata. Qui in Veneto ad esempio le vaccinazioni non sono obbligatorie; ed è sbagliato, infatti ci sono dei focolai. Non tutti hanno un paese che ti sostiene come ha fatto Mogliano con me, non tutti hanno una famiglia forte come la mia. Altri genitori non reggono al colpo: spesso uno dei due se ne va. Quasi sempre l’uomo, il padre. I ragazzi della nostra associazione, che consente agli amputati di fare sport, sono quasi tutti figli di genitori separati. La madre è quella che resta».
L’infanzia e la ginnastica artistica
Da piccola Bebe faceva ginnastica artistica. «Alla fine del primo anno mi dissero che c’era il saggio. Chiesi: cosa si vince? Mi risposero che non si vinceva niente; bisognava solo far vedere a mamma e papà quanto si era brave. Capii che non era lo sport per me. Provai con la pallavolo, ma mi fermai alla prima lezione: c’erano ragazze che palleggiavano contro un muro. Mi annoiai e presi l’uscita. Per fortuna non portava fuori ma in un’altra palestra. Dove si tirava di scherma»
La meningite fulminante
A undici anni Bebe era una promessa, aveva già vinto le prime gare. Meningite fulminante. Necrosi degli arti. Braccia amputate all’altezza del gomito, gambe sotto il ginocchio. 104 giorni di ospedale. «Della malattia non ho brutti ricordi. Sono i trucchi del cervello: cancella le cose orribili, che i miei genitori purtroppo ricordano benissimo; e salva le cose belle. Le visite dei miei fratelli, Nicolò e Maria Sole. I sabati sera con gli amici che venivano a trovarmi, portavano la pizza, mettevano su un film».
Il ritorno alla scherma
«Datemi le gambe e riprendo a tirare di scherma». È stata la prima cosa che ho detto, appena uscita. Ma non avevo più le tre dita con cui si impugna il fioretto, e le protesi non andavano bene. Abbiamo provato a fissare l’arma con lo scotch, ma non funzionava. Poi hanno inventato un guanto di plastica che riesce a reggere la lama. Per le gambe non c’era problema: quelle artificiali vanno benissimo; però la scherma paralimpica si fa in carrozzina, e ho dovuto adeguarmi. Tanto, il fioretto è al 70% testa; anche se ora proverò la sciabola, che è più impetuosa. Al primo allenamento non volevo più scendere dalla pedana: “Chi vince regna!” dicevo, e continuavo a battere le avversarie, fino a quando non sono crollata dalla stanchezza. Devo molto a Elisa e Arianna, che per me sono sorelle maggiori, e a Valentina, che è come una zia».
L’aiuto delle altre campionesse
Elisa è Elisa Di Francisca, la prima atleta nella storia olimpica a mostrare la bandiera europea. Arianna è Arianna Errigo, argento a Londra 2012, che ora – come Bebe – vuole provare la sciabola. Valentina è Valentina Vezzali, la più grande atleta italiana di tutti i tempi. «Neppure per un momento mi hanno fatto sentire una poverina; sempre una di loro. Ai Mondiali sono stata buttata fuori al primo turno, e mi sono chiusa in bagno a piangere. Mamma mi ha inseguita, mi ha parlato, ha cercato di consolarmi, e io l’ho mandata via. Poi è arrivata Valentina, che mi ha ripetuto le stesse cose. Per me era come se parlasse l’oracolo di Delfi, la Sibilla cumana. Così mi sono rimessa in pista, a inseguire il mio sogno: le Olimpiadi».
L’esperienza di Rio
«La medaglia più preziosa a Rio non è stata l’oro nell’individuale, ma il bronzo a squadre. Con Loredana Trigilia e Andreea Mogos, che è di origine romena, siamo molto legate: dopo siamo partite insieme per una vacanza a Ilha Grande; mare caraibico, caldo anche d’inverno. I brasiliani sono speciali: dove non arrivano con le strutture, arrivano con il cuore; se c’erano i gradini e mancava l’ascensore, ci prendevano in braccio. La Rai questa volta ha fatto conoscere lo sport paralimpico; il resto l’hanno fatto i social. Credo che gli italiani abbiano capito. Prima non mi conosceva nessuno, adesso…».
In due ore di conversazione, nel bar davanti alla stazione di Mestre, almeno dieci persone verranno a dire a Bebe la loro ammirazione.
La vita privata e il futuro
«Lo so che ormai è arrivata per me l’età dell’amore. Ma non sono cose di cui parlare con i giornalisti. Quest’anno ho finito le superiori: arti grafiche e comunicazioni, dai salesiani. Ora mi sono iscritta all’università , allo Iulm di Milano. La prossima settimana comincio uno stage a Fabrica, dai Benetton. Ho già fatto uno stage a Sky come grafico; ma stare nove ore al giorno dietro il computer non fa per me. Tornerò a Sky dopo il 2024, per fare il capo dello sport».
Davvero? «L’ho già detto al capo di adesso, Giovanni Bruno – sorride Bebe –. Ogni tanto mi siedo alla sua scrivania, per fare le prove».
Perchè dopo il 2024? «Perchè prima voglio vincere l’oro alle Paralimpiadi di Roma». Ma a Roma non si faranno nè Paralimpiadi nè Olimpiadi. «Non è detta l’ultima parola. Purtroppo la Raggi non ha ancora voluto incontrarmi. Vorrei dirle che i Giochi sarebbero una splendida opportunità di attrezzare la capitale per i disabili, eliminare le barriere; Milano è cambiata grazie all’Expo. E anche per far crescere le persone normodotate, far capire che non siamo sfortunati da commiserare».
L’autoironia sulla disabilità
«Tra noi ci prendiamo in giro: “Handicappato, ti muovi?”. Ci ridiamo su. L’autoironia ci fa bene. Disabile è chi si sente disabile, chi passa la giornata sul divano perchè pensa di non saper fare più nulla. Definirebbe disabile un grande italiano come Alex Zanardi? Si è preso a cuore la mia storia quand’ero un mezzo cadavere, e nessuno credeva in me. È stato importante anche l’incontro con Oscar Pistorius. Ha fatto una cosa terribile, ed è giusto che paghi. Ma io spero che dopo aver espiato possa tornare ad aiutare gli altri, come ha fatto con me».
Al suo cellulare arrivano di continuo messaggi. Lei si toglie la protesi e digita i numeri con il moncherino. «Non ho paura della fisicità . Come non mi dispiacciono le cicatrici che ho sul viso. Quando vado in tv, al trucco insistono per coprirle. Sono stata a Parigi alla sfilata di Dior ispirata alla scherma, e anche lì volevano mascherarle. Ma anche quelle fanno parte di me. Come gli occhi verdi che ho preso da mamma».
Aldo Cazzulo
(da “il Corriere della Sera”)
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