Destra di Popolo.net

SI AUTODISSOLVE IL JOBS ACT: CROLLANO I CONTRATTI STABILI – 91,1% NEL 2016

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

FINITO IL DOPING DEGLI INCENTIVI, TUTTO COME PREVISTO… IL 65% DEI NUOVI POSTI DI LAVORO E’ PRECARIO

C’era una volta il Jobs act.
È l’Inps a certificare il tracollo della riforma del mercato del lavoro targata Matteo Renzi. Un dato su tutti: nel 2016 il numero dei nuovi contratti stabili è crollato del 91% rispetto a un anno fa.
A pesare su questa brusca frenata – spiega l’Osservatorio sul precariato dell’Istituto di previdenza – è stata la riduzione degli incentivi per le assunzioni.
Due anni fa, infatti, le nuove assunzioni potevano beneficiare dell’abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni. Poi l’incentivo è diminuito e questa riduzione ha impattato sul numero dei nuovi contratti attivati l’anno scorso.
Il saldo tra aperture e chiusure dei contratti a tempo indeterminato è stato positivo per poco più di 80mila unità , con un tracollo dalle oltre 930mila dell’anno prima.
I contratti a tempo determinato tengono “a galla” le assunzioni
Se l’andamento dei contratti a tempo indeterminato registra un crollo, complessivamente il numero di contratti attivi resta in crescita.
Alla fine del 2016 nel settore privato si è registrato un aumento di 340mila contratti. Un numero non esaltante dato che sono poco più della metà  di quelli registrati nel 2015 (627.569).
L’Inps spiega il risultato, comunque con il segno più, dei contratti: “È imputabile prevalentemente al trend di crescita netta registrato dai contratti a tempo determinato, il cui saldo annualizzato, pari a +222.000, ha significativamente recuperato la contrazione registrata nel 2015 (-253.000), indotta dall’elevato numero di trasformazioni in contratti a tempo indeterminato”.
I licenziamenti in lieve calo
Lieve flessione per i licenziamenti (-3,1%). Se nel 2014 e nel 2015 il tasso di disoccupazione è stato pari, rispettivamente, al 6,5% e al 6,1%, l’anno scorso è sceso sotto il 6%, attestandosi a 5,9 per cento.
Guardando alla tipologia dei licenziamenti, crescono quelli per giusta causa, passati da 59 a 74mila. Per l’Inps questo aumento è da collegare alla nuova disciplina delle dimissioni online e non alle modifiche dell’articolo 18.
Si ferma la corsa dei voucher
A gennaio di quest’anno le vendite dei voucher, pari 8,9 milioni (valore nominale di 10 euro) si sono stabilizzate su livelli analoghi a quelli di gennaio 2016 (8,5 milioni), “con un modesto incremento” del 3,9%.
L’Inps spiega che “la forte flessione nella crescita, sempre più marcata a partire da ottobre 2016, può riflettere anche gli effetti del decreto legislativo con cui sono stati introdotti obblighi di comunicazione preventiva in merito all’orario di svolgimento della prestazione lavorativa”.

(da agenzie)

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LEGA CONDANNATA PER DISCRIMINAZIONE: “I PROFUGHI NON SONO CLANDESTINI”

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

IL TRIBUNALE CONDANNA A 10.000 EURO DI MULTA LA LEGA PER I MANIFESTI AFFISSI A SARONNO: “CHI CHIEDE ASILO NON PUO’ ESSERE DENIGRATO CON QUEL TERMINE”… FINALMENTE VIENE FATTA GIUSTIZIA, MA E’ SOLO L’INIZIO

La Lega Nord è stata condannata per il reato di discriminazione, per aver usato il termine ‘clandestini’ per indicare quelli che, a termini di legge, sono invece ‘richiedenti asilo’.
Lo stabilisce una sentenza del giudice Martina Flamini della prima sezione civile del tribunale ordinario di Milano, che ha condannato la Lega a pagare 10mila euro di danni (oltre a 4mila euro di spese processuali) “per il carattere discriminatorio e denigratorio dell’espressione clandestini” contenuta nei manifesti affissi nell’aprile scorso a Saronno.
Una sentenza che potrebbe creare un precedente, visto che a partire dal segretario Matteo Salvini, molti esponenti del Carroccio definiscono i profughi come ‘clandestini’.
Il processo – intentato da Asgi e Naga, due associazioni di volontariato – nasce da una vicenda del Comune brianzolo di Saronno, dove l’anno scorso la Caritas locale aveva chiesto al Comune – guidato dal sindaco leghista Alessandro Fagioli – le autorizzazioni per ospitare in un convento di suore 32 rifugiati.
Il sindaco Fagioli aveva negato i permessi e rilasciato dichiarazioni trancianti contro i migranti: “Non voglio africani maschi vicino alle scuole dove vanno le nostre studentesse”, aveva detto per motivare la sua opposizione.
La sezione locale della Lega, il giorno dopo, aveva tappezzato il paese di manifesti contro i profughi, etichettandoli come ‘clandestini’ .
La giudice spiega nell’ordinanza che “Il termine ‘clandestino’ ha una valenza denigratoria e viene utilizzato come emblema di negatività “, poichè “contraddistingue il comportamento delittuoso (punito con una contravvenzione) di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del Testo Unico sull’immigrazione”.
“Con l’epiteto di ‘clandestino’ – spiega la sentenza pubblicata ieri – si fa chiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorio nazionale, ed è idoneo a creare un clima intimidatorio (implicitamente avallando l’idea che i ‘clandestini’, non regolarmente soggiornanti in Italia, devono allontanarsi)”.
La giudice sottolinea che “contrariamente rispetto a quanto indicato nei manifesti per cui è causa, i 32 ‘clandestini’ sono persone che, esercitando un diritto fondamentale, hanno chiesto allo Stato italiano di riconoscere loro la protezione internazionale”.
E aggiunge: “Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello Stato italiano, perchè temono a ragione di essere perseguitati o perchè corrono il rischio effettivo in caso di rientro nel paese d’origine di subire un grave danno, non possono considerarsi irregolari e non sono, dunque, ‘clandestini'”.
Chi affibbia loro quell’aggettivo, punta a discriminare persone che sono “in fuga per motivi di persecuzione” e a creare nei loro confronti un clima di pregiudizio.
Nella sentenza si fa riferimento alle frasi scritte sui 70 manifesti affissi a Saronno (dove poi il dormitorio per i profughi non è mai stato aperto): “L’espressione ‘clandestini’, evocando l’idea di persone irregolarmente presenti sul territorio nazionale — alle quali viene pagato “vitto, alloggio e vizi”, a costo di grandi sacrifici chiesti ai cittadini di Saronno, ai quali, invece, vengono tagliate le pensioni e aumentate le tasse — veicola l’idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini”.
Dunque, “emerge con chiarezza la valenza gravemente offensiva e umiliante di tale espressione, che ha l’effetto non solo di violare la dignità  degli stranieri, richiedenti asilo, appartenenti ad etnie diverse da quelle dei cittadini italiani, ma altresì di favorire un clima intimidatorio e ostile nei loro confronti”.
La Lega è stata condannata anche a pubblicare il provvedimento sui suoi siti Internet istituzionali, sulla Padania e su alcuni quotidiani nazionali per bilanciare gli effetti “dell’elevato contenuto discriminatorio delle espressioni contenute nei manifesti, della loro portata denigratoria, della loro idoneità  a creare un clima fortemente ostile nei confronti dei richiedenti asilo”
Soddisfatti gli avvocati ricorrenti per conto di Asgi (Associazione studi giudirici sull’immigrazione) e Naga: “Questa sentenza mette un punto fermo nell’uso comune del termine ‘clandestino’ del linguaggio politico nei confronti dei richiedenti asilo – sottolineano Albero Guariso e Livio Neri – chiarendo che non è lecito alla politica farlo con lo scopo di suscitare un clima che impedisca l’inserimento dei rifugiati nella collettività “.

(da agenzie)

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QUANDO LE LOBBY CHIAMANO, VIRGINIA RAGGI RISPONDE

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

LA SINDACA GRILLINA PAGA I DEBITI ELETTORALI: OGGI TAXISTI E AMBULANTI, DOMANI TOCCHERA’ A VIGILI E AI DIPENDENTI AMA: E’ LA PALADINA DI CHI CONTRASTA OGNI INNOVAZIONE IN NOME DEI PACCHETTI DI VOTI CLIENTELARI

Era fine maggio, a Roma si sarebbe votato pochi giorni dopo.
Una mattina, mentre s’infuriavano in coda agli sportelli di viale Ostiense del “Palazzo delle Multe”, alcuni cittadini videro avanzare peristalticamente nei corridoi Virginia Raggi scortata da un paio di dirigenti comunali già  noti per la vicinanza al Movimento 5 Stelle.
Dietro, un gruppazzo di fan grillini delle ultime settimane o addirittura ore. Tutti dipendenti pubblici ai quali la consigliera comunale in corsa per il Campidoglio andava da tempo dicendo: “La prima cosa che faremo è riallacciare buoni rapporti con i dipendenti capitolini onesti schiacciati dalla macchina politica: con loro faremo ripartire la macchina comunale e, da lì, cambieremo rotta”.
Lo ripetè al personale di ATAC, AMA e ACEA, le aziende di trasporti, servizi ambientali ed energia, e della polizia di Roma Capitale.
Ove possibili, tour degli uffici, rapidi comizietti, strette di mano, sorrisi.
Gli incontri della candidata sindaco con i rappresentanti dei tassisti e degli ambulanti furono invece organizzati con più riservatezza.
Data la scarsa dimestichezza del futuro sindaco con la diversificazione retorica, si può immaginare che ripetè anche lì gli stessi slogan: siamo dalla vostra parte, stiamo studiando i vostri problemi, faremo settore per settore una due diligence (la raccolta e l’analisi delle informazioni utili a valutare le attività  di un’azienda), poi interverremo. Ovviamente, gli impegni che contano e portano più voti sono quelli che si trattano privatamente, e il piccolo staff di Virginia Raggi li mise a punto con la discreta consulenza degli studi legali dalla quale lei proveniva.
Nulla d’inaudito nè d’inedito. Anche il candidato Gianni Alemanno nel 2008 aveva corteggiato in pubblico e in privato le potenti corporazioni che, quando vogliono, paralizzano la Capitale.
Una volta eletto, aveva mantenuto gli impegni presi, abbinandoli con il sistematico collocamento di decine dei reduci degli anni settanta e ottanta, piazzati ai massimi livelli delle gerarchie del municipio e delle aziende comunali.
Il miglior terreno di coltura per Mafia Capitale, si scoprì anni dopo.
Anche Raggi sta mantenendo le promesse alle superlobby pubbliche e private, che erano di fermare il tentativo di rinnovamento della macchina comunale maldestramente avviato da Ignazio Marino e di lasciare intaccate le prebende di tranvieri, tassisti, ambulanti eccetera.
Per riuscirci, le basta non fare nulla. Il totale immobilismo era quanto le avevano chiesto, concedendole un po’ di polverone tipo le due diligence, delle quali infatti s’è persa traccia.
Poi però arrivano le crisi acute, e allora stare ferma come una lucertola al sole non è più sufficiente per rispettare i patti.
Se una delle corporazioni romane più potenti – i tassisti – scende aggressivamente in piazza, Raggi è chiamata a pagare i suoi debiti elettorali. Si spiega così la sua adesione plateale alle proteste dei giorni scorsi.
Poco importa, nell’impostazione ormai costantemente pre-elettorale del Movimento, che in questo caso i nemici da abbattere siano Uber e i suoi epigoni, che grazie alla disintermediazione digitale stanno rivoluzionando il trasporto metropolitano in tutto il mondo.
Un argomento che la base di M5S conosce bene: non si può fermare il progresso, i vantaggi per ampie fasce di cittadini consumatori possono essere a spese delle categorie con scarsa propensione al cambiamento.
Ma le idee non sono scolpite nella pietra. Il manovratore di Raggi, Beppe Grillo, nel 2000 sfasciava a legnate i computer sul palcoscenico, nel 2009 esaltava le qualità  taumaturgiche delle digitalizzazione forzata nonostante fosse più che evidente che avrebbe distrutto milioni di posti di lavoro, nel 2017 diventa il paladino delle categorie che contrastano l’innovazione ma assicurano pacchetti di voti.
Succede che, se nel 2000 doveva riempire i teatri e stop, nel 2009 stava costruendo il suo partito e oggi gli tocca difenderlo.
Le risposte e le scelte dipendono dagli obiettivi.
Siamo solo agli inizi. Questione di tempo. I vigili urbani prima o poi si faranno sentire. I dipendenti AMA forse si muoveranno persino prima della solita crisi estiva. Gli ambulanti hanno ripreso a spadroneggiare.
Ogni volta, Raggi deve e dovrà  adeguarsi, e abbassare il capo.

Claudio Giua
(da “Huffingtonpost“)

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LE BATTAGLIE DEI TAXI TRA REGALI FISCALI E LICENZE GRATIS

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

LA LOBBY PIU’ POTENTE D’ITALIA CHE NON HA OBBLIGO DI SCONTRINO… “PAGHIAMO IL MINIMO PREVISTO DAGLI STUDI DI SETTORE, MA GUADAGNIAMO MOLTO DI PIU'”… LE LICENZE SONO UN BENE PUBBLICO DEI COMUNI, CONCESSO IN USO AI TAXISTI, NON SONO UNA PROPRIETA’ PRIVATA

No a Uber e alle liberalizzazioni. No all’obbligo di scontrino; no al tassametro con emissione di ricevuta; no all’utilizzo delle carte di credito.
Dalla lobby più potente d’Italia, quella dei tassisti, non arriva alcuna apertura: solo la minaccia di bloccare il paese, far cadere il governo e paralizzare le città .
Abbastanza per far tremare i palazzi della politica e far correre al capezzale delle auto bianche tutti i movimenti conservatori: dalla Lega Nord ai 5Stelle, da Forza Italia a Fratelli d’Italia.
D’altra parte quando si parla di taxi si parla di uno dei più grandi bacini di voto per il centro destra. Spesso, però, si dimentica che gli autisti di piazza godono di non pochi benefici fiscali grazie ai mitici studi di settore: in sostanza per non subire accertamenti fiscali il reddito dichiarato a fine anno non deve discostarsi troppo da quello medio identificato dall’Agenzia delle Entrare insieme al dipartimento Finanze del ministero dell’Economia.
“Io — raccontava al Fatto Quotidiano un tassista — verso soltanto il pizzo che definisco “Studio di settore”, una finta dichiarazione di 12 o 14 mila euro l’anno, e basta. I miei colleghi non pagano le tasse, io non le pago. Me ne fotto di uno Stato che ci impedisce di vivere. Io frego lo Stato perchè se lo rispetto non riesco a mangiare”.
Una versione confermata anche da Giuseppe, ex tassista che ha ceduto la sua licenza per avviare una nuova attività  commerciale: “Di numeri non ho mai capito nulla, ho sempre portato tutto al mio commercialista che poi faceva quadrare i conti sulla base degli studi di settore. Ovviamente guadagnavo di più di quanto dichiarassi. L’importante era fare attenzione a non incassare troppi pagamenti elettronici, perchè a quelle transazioni non si sfugge”.
La storia di Giuseppe è una delle tante raccolte da Business Insider: diverse arrivano da ex tassisti come lui che però dopo aver visto fallire le loro attività  imprenditoriali si sono riciclati come conducenti di auto a noleggio. Alcuni lavorano anche per Uber e candidamente confessano di aver guadangato in passato “molto di più di quanto dichiarato negli studi di settore”.
Tradotto: le proteste di piazza servono a difendere un orticello prezioso.
A cominciare dal tema delle licenze: nate come bene pubblico di proprietà  dei comuni concesso in uso ai tassisti sono diventate — nell’assoluto silenzio delle istituzioni — una proprietà  privata da vendere e rivendere (da qui il bisogno di non liberalizzarle per non svalutarle).
“Uno Stato serio — ha detto Enrico Zanetti, segretario di Scelta Civica — non consente che le licenze amministrative pubbliche possano essere oggetto di compravendita tra privati, ma uno Stato che diventa serio deve prendere atto degli errori commessi, ricomprare quelle licenze al prezzo ufficiale pagato da ciascun privato per acquistarle e soltanto poi decidere se rendere meno regolamentato e più libero un settore, come noi pensiamo vada fatto”.
A valle, tuttavia, c’è anche una questione fiscale non indifferente: nel 2014 secondo quanto emerge dai documenti del dipartimento Finanze del ministero dell’economia i circa 22mila tassisti italiani hanno dichiarato incassi per 41.800 euro a testa da cui hanno detratto 25mila euro di spese per arrivare a una base imponibile di 16.800 euro sui cui hanno pagato le tasse dovute: poco meno di 4mila euro complessivi.
Un calcolo effettuato sulla base di 11 mesi lavorativi, ma la maggior parte dei tassisti dichiara di lavorare di più. E ovviamente negli stessi blog dei tassisti si legge che il reddito — al netto delle spese — oscilla tra 1.500 e 2.000 euro al mese, per dodici mesi. Insomma non lontano dalla media italiana che nel 2014 era poco sotto quota 20mila euro l’anno.
Insomma, la battaglia di retroguardia dei tassisti si gioca tutta in difesa degli interessi della categoria, anche a danno dei consumatori.
Per i taxi la liberalizzazione di Uber avrebbe un duplice effetto negativo: ridurrebbe il valore delle licenze e renderebbe pubblico il reale reddito annuo della categoria.
E sì perchè le transazioni del colosso americano sono tutte fatte attraverso carta di credito. E dal momento che in Italia le tariffe di Uber non sono per nulla competitive — le auto con conducente sono molto più care dei taxi -, il miglior modo per dimostrare la buona fede delle proteste sarebbe quello di chiedere l’introduzione del tassametro con scontrino. Proprio come già  succede negli Stati Uniti.

(da “Business Insider”)

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PIANO ELECTION DAY, POLITICHE E COMUNALI L’11 GIUGNO CON LO SPETTRO DI PRIMARIE “NULLE”

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

RENZI TEME LO STALLO: SE NESSUN CANDIDATO RAGGIUNGE IL 50% IL LEADER SARA’ ELETTO IN ASSEMBLEA CON IL RISCHIO DI UN ASSE ANTI-MATTEO

La data delle primarie il 9 aprile serve a cogliere due obiettivi. Risolvere in fretta il congresso “perchè la discussione è cominciata già  da tre mesi e il Pd ha bisogno di una guida legittimata al più presto”, ha detto Matteo Renzi prima di partire per la California. Ma soprattutto permette di coltivare ancora il sogno delle elezioni anticipate a giugno.
Per l’esattezza l’11 giugno, con un election day che comprende anche le amministrative. Un sogno o meglio una suggestione. “Una provocazione” la definisce un renziano. Eppure, nonostante l’evidenza dei fatti, Renzi vuole sempre “sognare”.
Per questo ieri, durante la riunione della commissione per il congresso, è rispuntata l’ipotesi del 9 aprile mentre è finita nell’ombra la data del 7 maggio, gradita da Michele Emiliano e Andrea Orlando, l’altro sfidante certo.
Ma il 9 ha il pregio di tenere aperta la finestra elettorale di giugno. Più come messaggio all’intero sistema politico che come obiettivo davvero raggiungibile. Messaggio rivolto a tutti.
Al governo di Paolo Gentiloni che proprio ad aprile è chiamato a varare una manovra correttiva sulla quale Renzi ha molti dubbi. E al Quirinale, che non gradisce il voto anticipato e semmai aspetta una correzione della legge elettorale.
Ecco il punto: prima si elegge il segretario dem e prima gli altri attori della scena faranno i conti con lui.
Renzi ha studiato il calendario.
Per votare l’11 giugno, le Camere andrebbero sciolte intorno al 18 aprile, ovvero il giorno dopo la Pasquetta. Possibile? È un salto carpiato triplo avvitato.
Il nuovo segretario del Pd infatti entrerebbe in carica non il 9, ma il 13 o il 14 quando si celebrerà  l’assemblea nazionale del Pd chiamata a ratificare l’esito dei gazebo.
In soli cinque giorni, con il week end di Pasqua in mezzo, Paolo Gentiloni dovrebbe dimettersi e Sergio Mattarella firmare il decreto di scioglimento.
Ci vorrebbero, dunque, numeri funambolici. Ma l’accelerazione c’è e ha una spiegazione di fondo. A Renzi importa poco che sia proprio lo scenario evocato dalla minoranza per motivare la scissione, ovvero che dietro lo scontro sulle date il vero traguardo sia chiudere l’esperienza dell’esecutivo Gentiloni prima del 2018.
Gia domani o sabato la direzione varerà  il regolamento congressuale. La commissione lavora a rotta di collo sulla base delle vecchie regole.
Il reggente Matteo Orfini fa sapere che anche la parte preliminare, le cosiddette convenzioni, potrebbero subire uno sprint. Se i candidati sono soltanto tre, non serve eliminare, attraverso il pronunciamento degli iscritti, altri sfidanti per le primarie aperte. La corsa si può fare.
E quando il Pd avrà  un segretario legittimato dal voto di milioni (ipotetici) di italiani, sarà  difficile per il sistema fare finta di niente. O sfruttare l’attuale debolezza di un leader sconfitto al referendum, dimessosi da Palazzo Chigi e dal suo partito.
L’altra soluzione preferita da Renzi, il 23 aprile, toglie di mezzo il voto a giugno, ma risponde alla necessità  di avere presto il leader del Pd. E di tornare a dare le carte. Sempre che l’ex premier vinca, ovviamente.
La candidatura di Orlando viene vissuta molto male dal cerchio ristrettissimo dei renziani in collegamento con la California. Esorcizzata con un pronostico infausto per il ministro della Giustizia: “Arriverà  terzo. Gli conviene?” E condita con un avvertimento non troppo sibillino: “Se arriva terzo, lo sa che i posti in lista per le elezioni sono riservati solo ai primi due?”.
Questa è l’accoglienza per il Guardasigilli sui telefonini connessi con gli States. Ma i più attenti tra i renziani fanno anche altre osservazioni. “A meno che la candidatura di Orlando abbia un altro obiettivo finale: fare in modo che nessun candidato prenda il 50 per cento alle primarie”. In quel caso, che non è assolutamente da escludere, a scegliere il leader non saranno più i cittadini, ma i delegati nell’assemblea nazionale eletti con le liste collegate agli sfidanti. Alleanze e maggioranze verrebbero scombussolate.
E un accordo tra Emiliano e Orlando butterebbe fuori Renzi da Largo del Nazareno. Con tutti i sogni delle elezioni a giugno e non solo.

(da “La Repubblica”)

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LA SCISSIONE PD SI RESTRINGE E NON HA I NUMERI NECESSARI ALLA CAMERA

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

IL NUOVO PARTITO DI SINISTRA ANCORA SENZA NOME… AMBISCE AL PATRIMONIO DELL’EX PCI, MA POTREBBE ANDARE TUTTO STORTO

La scissione PD si restringe. Dopo aver perso per strada Michele Emiliano, sono soltanto 19 i deputati che hanno intenzione di seguire Pierluigi Bersani, Enrico Rossi e Roberto Speranza nell’addio al PD che è stato mille volte annunciato e non ancora effettuato.
Insieme ai 17 di SEL il nuovo gruppo dovrebbe arrivare a contare trentasei diconsi trentasei deputati, mentre per i capigruppi i nomi più gettonati sono quelli di Guglielmo Epifani e Roberta Agostini.
Anche al Senato il piatto piange, come spiega Dino Martirano oggi sul Corriere della Sera: 14 bersaniani doc abituati a fare squadra (Fornaro, Gotor, Corsini, Guerra, Dirindin, Gatti, Pegorer, Lo Moro, Migliavacca,Ricchiuti, Sonego, Casson) con la possibilità  concreta di portarsi dietro Mucchetti e Micheloni.
Ma hanno detto no pezzi pregiati della sinistra storica: Walter Tocci, Mario Tronti e Luigi Manconi.
Una situazione imbarazzante per lo sfacelo annunciato nelle settimane precedenti che, alla prova dei numeri, non regge.
O per lo meno dimostra che sarà  più furbo per ora rimanere nel PD, come ha calcolato Emiliano, per riuscire a rimediare più ricandidature invece che andare all’avventura con Bersani.
E i soldi? Spiega ancora il Corriere:
Anche a Montecitorio la squadra sembra compatta (oltre a Bersani e Speranza, ci sono Zumpo, Zoggia, Leva, Capodicasa, Zappulla, Agostini, Epifani, Albini, Cimbri, Murer, Bossa, Fontanelli Fossati e altri) ma alla fine sono rimasti intribuna Andrea Giorgis ed Enzo Lattuca.
Alla Camera, il mancato raggiungimento di quota 40 sbarra la strada alla costituzione di due gruppi federati (ex Pd, ex Sel) che avrebbero potuto anche dividersi sull’appoggio a Gentiloni.
Sulla tempistica, poi, risulta che Bersani si sia lamentato mentre le discussioni si dilungavano anche per stabilire se spetta agli ex di Sel il capogruppo della Camera mentre al Senato è in pole position Doris Lo Moro.
In ogni caso tutti i parlamentari verseranno 1500 euro al mese al «Movimento» che si finanzierà  principalmente con i rimborsi stimati per i nuovi gruppi: 1,9 milioni alla Camera, 900 mila euro al Senato.
Poi c’è un altro tema molto sensibile, ovvero il patrimonio dell’ex Pci (oltre duemila immobili e svariate opere d’arte) che non è transitato in casa del Pd e ora, diviso tra una sessantina di fondazioni, resterebbe sotto il controllo del senatore Ugo Sposetti (ex Tesoriere della Ditta) che assieme a Piero Fassino e a tanti ex comunisti resta nel Pd a sostenere Andrea Orlando.
Ma Massimo D’Alema è convinto che qualcosa si muova: «Le fondazioni sono di proprietà  di quelle compagne e di quei compagni che hanno costruito case del popolo e sezioni, non appartengono a Sposetti. Sarebbe un immobiliarista potentissimo, ma è una scemenza».

(da “NextQuotidiano“)

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CAPORALATO, BRACCIANTE MORTA DI FATICA NEL 2015: ARRESTATO TITOLARE AGENZIA INTERINALE

Febbraio 23rd, 2017 Riccardo Fucile

IN CARCERE ANCHE L’UOMO CHE PORTAVA LE DONNE NEI CAMPI… SEI ARRESTI: “SONO I SUOI SFRUTTATORI”

Fu un infarto ad ucciderla, ma la morte di Paola Clemente, la bracciante agricola 49enne di San Giorgio jonico scomparsa mentre lavorava all’acinellatura dell’uva sotto un tendone nelle campagne di Andria il 13 luglio del 2015, non è stata vana. L’inchiesta, aperta all’indomani della denuncia del marito e della Cgil, è arrivata a una svolta.
In tutto 6 le persone arrestate nel corso di un operazione della guardia di finanza e della polizia coordinate dal magistrato della procura di Trani Alessandro Pesce.
Truffa ai danni dello Stato, illecita intermediazione, sfruttamento del lavoro.
La nuova legge contro il caporalato non ha fatto sconti, fosse entrata in vigore prima probabilmente il numero delle persone in manette sarebbe stato più alto.
In carcere sono finiti Ciro Grassi, il titolare dell’azienda di trasporti tarantina che portava in pullman le braccianti fino ad Andria, il direttore dell’agenzia Inforgroup di Noicattaro, Pietro Bello,   per la quale la signora lavorava, il ragioniere Giampietro Marinaro e il collega Oronzo Catacchio.
Dietro le sbarre anche Maria Lucia Marinaro e la sorella Giovanna (quest’ultima ai domiciliari).
La prima è la moglie di Ciro Grassi, indagata per aver fatto risultare giornate fasulle di lavoro nei campi con lo scopo di intascare poi le indennità  previdenziali; la seconda, invece, nei campi avrebbe lavorato come ‘capo-squadra’.
Nel corso delle indagini furono acquisiti nelle abitazioni delle lavoratrici in provincia di Taranto carte e documenti in cui sarebbero emerse differenze tra le indicazioni delle buste paga dell’agenzia interinale che forniva manodopera e le giornate di lavoro effettivamente svolte dalle braccianti.
Dai documenti era emersa una differenza del 30 per cento tra la cifra dichiarata in busta paga e quella realmente percepita da alcune lavoratrici.
C’è di più, il calcolo sulle trattenute avveniva non sulle ore lavorate ma sullo stipendio base. In pratica le lavoratrice percepivano una paga giornaliera di 28 euro quando, in realtà , avrebbero dovuto intascarne almeno 86, in considerazione della paga base di 45 euro più la trasferta fino ad Andria, superati i 40 chilometri, le ore di straordinario e il notturno.
Paola Clemente, è emerso, era stata assunta da un’agenzia interinale ma non era stata sottoposta, o quanto meno non risulta, a una visita medica. Poi, la svolta.
Dopo un’inchiesta di Repubblica e l’intervista al marito di Paola, la procura di Trani decise di riesumare il cadavere. L’autopsia accertò che si era trattato di “una sindrome coronarica acuta”.
La donna, stabilirono gli esami eseguiti dal medico legale Alessandro Dell’Erba, con il tossicologo Roberto Gagliano Candela, era affetta da ipertensione che stava curando e da cardiopatia.
Durante l’ultima assemblea della Cgil a Taranto alla leader della Cgil Susanna Camusso fu consegnata una copia rilegata della legge in materia di contrasto al fenomeno di caporalato che il segretario generale della Cgil Bat Giuseppe Deleonardis, che all’epoca denunciò quanto era accaduto, volle dedicare proprio a Paola Clemente.
La sua fu, ha ricordato, fu una battaglia a favore dei diritti dei lavoratori costretti a vivere nei ghetti e quelli vittime del caporalato, che ha portato ad un’accelerata verso la stesura e l’approvazione della legge contro i caporali perchè, disse, “se c’è un lavoro sfruttato e schiavizzato c’è un impresa che sfrutta e schiavizza”.

(da “La Repubblica”)

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