Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
SECONDO “REPUBBLICA” LE NOTIZIE PARTONO DA NAPOLI E DAL NOE
Carlo Bonini su Repubblica oggi ricostruisce con dovizia di particolari com’è andata la storia della
telefonata tra Tiziano e Matteo Renzi che è finita nel libro di Marco Lillo “Di padre in figlio” in uscita giovedì in edicola. Repubblica ricostruisce così la sequenza dei fatti:
Il 22 dicembre 2016, la Procura di Napoli trasmette per competenza a Roma parte dell’inchiesta Consip.
Nel fascicolo, Tiziano Renzi, al contrario dell’imprenditore che i napoletani vogliono abbia trafficato con lui in “influenze” (Carlo Russo), promettendo all’imprenditore napoletano Romeo di spendersi per un aiuto nell’aggiudicazione degli appalti, non è indagato. Ma, dal 5 dicembre i suoi telefoni sono intercettati dal Noe
Intercettare “terzi non indagati” è una mossa che il codice consente in casi rari e che i pm romani evidentemente ritengono incongrua, esattamente come indagare uno soltanto di due soggetti che concorrono in uno stesso reato.
Iscrivono dunque Tiziano Renzi al registro degli indagati per traffico di influenze e, contestualmente, lasciano che le intercettazioni disposte da Napoli vadano ad esaurirsi entro i 20 giorni per i quali sono state autorizzate. Non fosse altro perchè il reato di traffico di influenze non consente l’uso delle intercettazioni. Ma, tra gennaio e febbraio, accade l’imponderabile.
La Procura di Napoli informa la Procura di Roma dell’intenzione di “riattaccare” i telefoni di Tiziano Renzi per le stesse ragioni per cui ne hanno disposto l’ascolto nel dicembre precedente:
È una mossa singolare che ha come effetto che una Procura della repubblica (Napoli) ascolti al telefono un uomo (Tiziano Renzi) su cui indaga un altro ufficio giudiziario per un reato per cui i telefoni non possono essere ascoltati.
Ciò che è uscito dalla porta di Roma rientra dalla finestra di Napoli.
Il 3 marzo, giorno dell’interrogatorio di Tiziano Renzi, il Noe dei carabinieri, che sta ascoltando per conto di Napoli i suoi telefoni, dà conto alla Procura di Roma dell’intercettazione del giorno precedente con il figlio Matteo. Roma giudica quella telefonata penalmente irrilevante.
Qualche settimana dopo, il brogliaccio di quella telefonata viene fatto filtrare perchè vada immediatamente alle stampe.
Più o meno in coincidenza (fine marzo) con l’estromissione del Noe dei carabinieri dall’inchiesta perchè ritenuto responsabile della fuga di notizie sull’ultima delle sue informative.
Ora, copia del file audio con quella conversazione del 2 marzo, come delle altre disposte dalla Procura di Napoli sono state consegnate dalla Procura di Roma al Nucleo investigativo dei carabinieri di Roma perchè vengano ascoltate e trascritte.
Bonini quindi punta il dito sull’indagine di Napoli e del NOE: le fughe di notizie partono da lì e Roma ne è vittima.
Il caso Scafarto può accompagnare solo.
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
“IL MIO PIANO RIFIUTI E’ STATO DISATTESO”
Ignazio Marino ha scritto oggi una lettera al Corriere della Sera Roma in cui riepiloga la storia della monnezza a Roma e le mosse della sua giunta per l’approvazione di un piano rifiuti oggi in gran parte disatteso:
C’era una visione. E il piano rifiuti non solo venne elaborato insieme al presidente dell’Ama Daniele Fortini ma anche approvato il 26 settembre 2015 dall’Aula. Con quell’atto Roma decise di affidare all’Ama il servizio di gestione dei rifiuti urbani ed i servizi di igiene urbana fino al 2029, ma a condizioni diverse dal passato. Condizioni che furono ostacolate dai partiti al punto che sino all’ultimo non fui certo dell’approvazione. Era un piano industriale e finanziario concreto.
Dotammo Ama delle risorse necessarie ma, al tempo stesso, le imponemmo un profondo cambiamento nell’efficacia dei servizi, indicando come verificarli e con la possibilità di affidamenti privati ove il pubblico non fosse stato all’altezza.
Per la prima volta si realizzava nella nostra Capitale la «democrazia dei rifiuti», superando la dipendenza da un monopolio privato e restituendo a Roma la ricchezza che finiva a Malagrotta, con una riduzione della tariffa.
E questo attraverso la crescita della raccolta differenziata, al 70% già nel 2018 (nel 2015 portammo Roma oltre il 41% partendo dal 23% dell’inizio 2013 e, purtroppo, la città è ancora ferma al nostro traguardo), e costruendo gli Ecodistretti, per la trasformazione in «prodotto industriale» di tutti i rifiuti raccolti, con oltre 300 milioni di investimenti.
Si realizzava la chiusura del ciclo dei rifiuti nel territorio della Capitale e si massimizzava l’autosufficienza degli impianti industriali Ama, in un’ottica di sostenibilità ambientale ed economica.
Il piano approvato dall”Assemblea capitolina partiva dalla realtà di un cambiamento già in atto in Ama dai primi mesi di lavoro della giunta.
Un lavoro non facile per tutte le resistenze che trovai, ancora una volta, nella partitocrazia quando volli sostituire il gruppo dirigente con manager scelti non sulla base delle tessere bensì con il mio tanto criticato metodo della competenza.
Così conseguimmo nel 2015 una contrazione dei costi operativi di circa 40 milioni, riappropriandoci di autonomia gestionale ed operativa, riavviando impianti fermi da anni (come quello per il trattamento del multimateriale a Rocca Cencia) e presentando le autorizzazioni necessarie per quelli nuovi (compostaggio di Rocca Cencia).
Tutto questo si è fermato così come l’inerzia nel superare Malagrotta non aveva consentito di pianificare e attuare un sistema che consentisse di mettere in sicurezza attraverso una rete di impianti pubblici la gestione dei rifiuti della Regione Lazio e della Capitale d’Italia.
Eppure tutto questo è possibile attraverso sinergie e possibilità di garantire efficienza ed economicità gestionali, evitando la migrazione dei rifiuti fuori dalla regione.
Nei miei 28 mesi di governo ho insistito affinchè il sistema impiantistico di proprietà regionale venisse riparato e reso più efficiente con un investimento Acea che non gravasse sulle tasse.
Acea si era resa disponibile ma dal 2013 al 2015 ogni tentativo si è arenato sulle scrivanie della burocrazia regionale.
Quindi la soluzione per i rifiuti esiste, da tempo. Ogni giorno perso per realizzarla può giovare ad alcuni, ma non ai romani.
(da “NextQuotidiano”)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
L’INTERVISTA ALL’EX STUDENTE INCARCERATO PER AVER PARTECIPATO A UNA MANIFESTAZIONE CONTRO IL REGIME CRIMINALE, MITO DEI SOVRANISTI ITALIANI
“Non ci sono parole per descrivere l’orrore che ho vissuto” nel carcere di Sednaya, la prigione siriana
dove, secondo le accuse degli Usa, il presidente Bashar Al Assad utilizza forni crematori per disfarsi delle vittime. “Vivevamo in 50 in una cella di 10 metri per cinque. Qualche volta eravamo 70. Cinque giorni a settimana, nel pomeriggio, venivamo convocati per le sessioni di tortura: duravano ore, se eravamo fortunati”.
A parlare, in un’intervista a Repubblica, è Omar Abu Ras, ex studente di economia arrestato nel dicembre del 2012 per aver partecipato a una manifestazione anti-Assad. In tutto ha trascorso 29 mesi in cella, girando per cinque diverse prigioni gestite dai servizi segreti siriani, tra cui appunto il carcere di Sednaya.
Racconta Omar a Repubblica:
“A volte [la tortura] consisteva solo nel costringerci a stare in piedi. Altre volte eravamo infilati in una ruota, in modo che spuntassero solo mani e piedi: e ci colpivano con cavi elettrici. In condizioni normali si andava dalle 30 alle 40 sferzate. Ma se c’era una sconfitta militare, un avanzamento dei ribelli, le sferzate diventavano centinaia”.
Questa la giornata tipo di un detenuto:
“Ci svegliavamo alle 5.30. Ogni cella aveva un capocella responsabile di controllare che tutti fossero in piedi. A quel punto c’era l’appello: alcuni finivano in un ospedale dove avrebbero dovuto essere curati. Ma nessuno è mai tornato da lì. Altri alla tortura. Altri agli interrogatori, che poi erano una forma di tortura. Eravamo nudi, tutto il giorno: potevamo andare al bagno solo 2 volte al giorno, in fila, piegati con la testa sul sedere della persona davanti. Una volta in bagno avevamo dieci secondi: poi ci buttavano fuori. Dovevamo andare al bagno, lavarci e bere, perchè non c’era acqua in cella”.
Il ricordo più terribile di questo ragazzo di 28 anni è “la morte di un uomo che avrebbe potuto essere mio nonno”:
“Si chiamava Abdulmajid al Majah. Era marzo 2013 e lui aveva più di 70 anni: stava male, si muoveva lentamente e quindi i secondini gli davano più tempo per andare al bagno. Una volta era di turno una guardia particolarmente feroce che per punirlo della lentezza lo ha costretto a gettare la sua dentiera negli escrementi e poi a rimettersela in bocca. Poi gli ha spaccato la testa con un colpo: quando mi sono girato era a terra, con la bocca piena di escrementi, la testa rotta, il sangue. Non abbiamo potuto fare nulla, non potevamo lavarlo, nè fermare il sangue. È morto così”.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
GRANDE CORDIALITA’ TRA IL PONTEFICE E IL PRESIDENTE FRANCESE: “MAI CEDERE ALLA VOLUBILITA’ DELLE EMOZIONI O DI QUELLO CHE SI SENTE DIRE, NON CHIUDERSI DENTRO UNA TEORIA CHE NON SI CONFRONTI CON LE COSE DELLA VITA”
Il Papa ha rivolto ieri i suoi “auguri più cordiali” al nuovo presidente francese Emmanuel Macron, che richiama, nell’esercizio delle sue “alte funzioni al servizio dei compatrioti”, a non dimenticare mai “le persone in situazione di precarietà e di esclusione”.
“Prego Dio di sostenerla – scrive Francesco in un telegramma in occasione dell’insediamento del neo-eletto Macron all’Eliseo – perchè il suo Paese, nella fedeltà alla ricca diversità delle sue tradizioni morali e del suo patrimonio spirituale, segnato anche dalla tradizione cristiana, si preoccupi sempre di costruire una società più giusta e fraterna”.
Un esordio, insomma, nel segno di una grande cordialità . Con un mood molto differente rispetto al telegramma ufficiale inviato al neoinsediato presidente americano Donald Trump dove veniva ricordata, a imperituro monito, la figura del povero Lazzaro, ultimo giudice del Ricco Epulone che finì dannato tra le fiamme dell’Inferno.
Le differenze tra il Papa e Macron sono innegabili e persino abissali. Il primo è il Papa degli slum delle periferie del mondo, l’altro è un intellettuale raffinato, frutto della selezione più elitaria di uno Stato-potenza come la Francia.
Eppure, nonostante questo, ci sono anche affinità elettive fra i due. Il loro uomo-ponte è il filosofo francese Paul Ricoeur.
Macron nel suo libro-panphlet “Rivoluzione”, scrive di Ricoeur che ha personalmente conosciuto negli “anni felici” della sua formazione:
“Un incontro pressochè fortuito … Da quel giorno si è avviato tra noi un rapporto unico, in cui il mio lavoro consisteva nel commentare i testi di RicÅ“ur, nell’accompagnarne le letture. Per più di due anni, rimanendo al suo fianco, non ho fatto altro che imparare. (…) È stata la sua fiducia a obbligarmi a maturare. Grazie a lui, ho letto e imparato ogni giorno. …( sono stati ) anni che mi hanno profondamente trasformato”. Cioè : “Mi ha insegnato – scrive ancora Macron in Rivoluzione – come pensare attraverso i testi, a contatto con la vita. In un continuo andirivieni tra la teoria e il reale”.
E ancora: A “non cedere mai alla volubilità delle emozioni o di quel che si sente dire. Non chiudersi mai dentro una teoria che non si confronti con le cose della vita”.
Pochi sanno che Ricoeur è anche un filosofo di riferimento di Papa Bergoglio, forse “il” filosofo di riferimento di Papa Francesco così come dimostra Philippe Bordeyne in un saggio pubblicato sul numero di “Vita e Pensiero”, il bimestrale culturale dell’ Università Cattolica del Sacro Cuore, uscito sabato 13 maggio 2017 .
“Un elemento formale ci rende avvertiti dell’importanza di studiare i rapporti tra il pensiero di papa Francesco e quello di Paul Ricoeur: il filosofo francese è citato al punto 85 dell’Enciclica Laudato sì”, ha scritto Famiglia Cristiana, citando il saggio di Bordeyne .
“La nota rimanda alla sua Filosofia della volontà , prima opera rilevante consacrata a un argomento di filosofia morale e alla questione del riconoscimento. Le questioni connesse al reciproco riconoscimento stanno al cuore dell’insegnamento morale di Francesco, che fa spesso appello a un’antropologia dell’essere relazionale” (Discorso davanti al Parlamento europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014).
Il ruolo del primo Ricoeur in Jorge Bergoglio – continua il settimanale dei Paolini – è ben riconoscibile, così come il tema della riconciliazione dei poli opposti, che il Papa attinge da Romano Guardini e che comporta caratteristiche originali.
Francesco usa diverse espressioni in tal senso: “L’ unità prevale sul conflitto”; “pacificazione nelle differenze”, “diversità riconciliata” (Evangelii gaudium 226-230). In quanto teologo morale, voglio soffermarmi soprattutto sulle parole della Filosofia della volontà e su come la citazione del pensiero di Ricoeur s’inserisce nell’enciclica Laudato sì. Inoltre, mi colpisce particolarmente l’opera di rinnovamento della parola magisteriale in materia morale messa in atto da papa Francesco.
In questo senso, il chiarimento del pensiero di Ricoeur aiuta a misurare l’importanza del capitolo 7 dell’esortazione apostolica Amoris laetitia sull’educazione morale dei figli. Lo sfondo filosofico vi appare più nettamente che non nel capitolo 8 dedicato al “discernimento personale e pastorale” (AL 298) rispetto alle situazioni familiari “complicate” (AL 312).
E così via.
Insomma Bergoglio e Macron, nonostante le abissali differenze, hanno una base comune per parlare: Ricoeur. Il presidente Trump è avvertito.
(da “Huffingtonpost”)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
IL 68% DEI GIOVANI A CASA CON I GENITORI
La spesa per consumi delle famiglie ricche, della ‘classe dirigente’, è più che doppia rispetto a quella dei
nuclei all’ultimo gradino della piramide disegnata dall’Istat, ovvero ‘le famiglie a basso reddito con stranieri’.
È quanto si legge nel Rapporto annuale dell’Istituto, che per le prime rileva esborsi mensili pari a 3.810 euro, contro i 1.697 delle fascia più svantaggiata economicamente.
Una capacità di spesa ridotta significa anche meno opportunità . “Malgrado una maggiore partecipazione al sistema di istruzione delle nuove generazioni dei gruppi svantaggiati rispetto a quelle più anziane, le differenze sono ancora significative”, fa notare l’Istat. Ecco che “i giovani con professioni qualificate sono il 7,4% nelle famiglie a basso reddito con stranieri e il 63,1% nella classe dirigente”.
Le fratture che caratterizzano il Paese vengono confermate: “Persiste il dualismo territoriale: nel Mezzogiorno sono più presenti gruppi sociali con profili meno agiati”. D’altra parte, spiega il Rapporto, “la capacità redistributiva dell’intervento pubblico è in Italia tra le più basse in Europa”.
Esplodono classi sociali. “La diseguaglianza sociale non è più solo la distanza tra le diverse classi, ma la composizione stessa delle classi”.
E’ questa l’analisi contenuta nel Rapporto dell’Istat, che traccia una mappa socio-economica dell’Italia, aggiornando i modelli tradizionali con schemi “multidimensionali”. Per l’Istat “la crescente complessità del mondo del lavoro attuale ha fatto aumentare le diversità non solo tra le professioni ma anche all’interno degli stessi ruoli professionali, acuendo le diseguaglianze tra classi sociali e all’interno di esse”.
La classe operaia e il ceto medio “sono sempre state le più radicate nella struttura produttiva del nostro Paese” ma “oggi la prima – osserva l’Istat – ha abbandonato il ruolo di spinta all’equità sociale mentre la seconda non è più alla guida del cambiamento e dell’evoluzione sociale”. Si assiste quindi a una “perdita dell’identità di classe, legata alla precarizzazione e alla frammentazione dei percorsi lavorativi”.
Per l’Istituto ci sono interi segmenti di popolazione che “non rientrano più nelle classiche partizioni: giovani con alto titolo di studio sono occupati in modo precario, stranieri di seconda generazione che non hanno il background culturale dei genitori, stranieri di prima generazione cui non viene riconosciuto il titolo di studio conseguito, una fetta sempre più grande di esclusi dal mondo del lavoro dovuta – sottolinea l’Istituto – anche al progressivo invecchiamento della popolazione”.
Ecco che nella nuova geografia dell’Istat “la classe operaia”, che “ha perso il suo connotato univoco”, si ritrova “per quasi la metà dei casi nel gruppo dei ‘giovani blue-collar'”, composto da molte coppie senza figli, e “per la restante quota nei due gruppi di famiglie a basso reddito, di soli italiani o con stranieri”.
Anche la piccola borghesia si distribuisce su più gruppi sociali, in particolare “tra le famiglie di impiegati, di operai in pensione e le famiglie tradizionali della provincia”. Secondo l’Istituto “la classe media impiegatizia è invece ben rappresentabile nella società italiana, ricadendo per l’83,5% nelle ‘famiglie di impiegati'”.
Millennials bamboccioni, 68% a casa con mamma e papà .
Il 68% dei giovani fino a 34 anni di età , ossia 8,6 milioni di persone, vive ancora con mamma e papà . Nel Rapporto annuale 2017, l’Istat rileva per di più quelli tra i 25 e i 34 anni sta in famiglia, di operai in pensione o di anziane sole. E negli ultimi otto anni, sono aumentati.
Rispetto al 2008, tra i giovani di 15-45 anni, è diminuita la quota di occupati (dal 39,1% al 28,7% del 2016) ed è aumentata l’incidenza dei disoccupati e degli studenti (+5,1% e 3,4% rispettivamente). Il calo degli occupati è più forte nei gruppi delle famiglie degli operai in pensione e delle anziane sole e di giovani disoccupati (-15,5 e 15,9%) ed è minore per quelli della classe dirigente e delle famiglie di impiegati (-4,4 e 3,1%).
La famiglia d’origine condiziona molto la professione dei giovani: l’incidenza dei giovani tra i 15 e i 34 anni che svolgono una professione qualificata varia da un minimo del 7,4% per chi proviene da una famiglia a basso reddito con stranieri fino a giungere al 42,1% nei gruppi delle pensioni d’argento e al 63,1% in quello della classe dirigente.
Anche la difficoltà di trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito è un problema trasversale ai giovani occupati che vivono ancora in famiglia.
Nel complesso, il 42,5% svolge una professione per la quale è richiesto mediamente un livello di istruzione inferiore a quello posseduto, con i valori più bassi tra i giovani che fanno parte delle famiglie a basso reddito con stranieri e di quelle della classe dirigente (34,5 e 34,6%) e i valori più elevati tra i giovani delle famiglie a basso reddito di soli italiani e di quelli delle famiglie di impiegati (45,2% in entrambi i casi).
Il 68% dei giovani fino a 34 anni di eta’, ossia 8,6 milioni di persone, vive ancora con mamma e papa’. Nel Rapporto annuale 2017, l’Istat rileva per di più quelli tra i 25 e i 34 anni sta in famiglia, di operai in pensione o di anziane sole. E negli ultimi otto anni, sono aumentati.
Rispetto al 2008, tra i giovani di 15-45 anni, è diminuita la quota di occupati (dal 39,1% al 28,7% del 2016) ed e’ aumentata l’incidenza dei disoccupati e degli studenti (+5,1% e 3,4% rispettivamente). Il calo degli occupati e’ piu’ forte nei gruppi delle famiglie degli operai in pensione e delle anziane sole e di giovani disoccupati (-15,5 e 15,9%) ed e’ minore per quelli della classe dirigente e delle famiglie di impiegati (-4,4 e 3,1%).
La famiglia d’origine condiziona molto la professione dei giovani: l’incidenza dei giovani tra i 15 e i 34 anni che svolgono una professione qualificata varia da un minimo del 7,4% per chi proviene da una famiglia a basso reddito con stranieri fino a giungere al 42,1% nei gruppi delle pensioni d’argento e al 63,1% in quello della classe dirigente.
Anche la difficoltà di trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito e’ un problema trasversale ai giovani occupati che vivono ancora in famiglia. Nel complesso, il 42,5% svolge una professione per la quale è richiesto mediamente un livello di istruzione inferiore a quello posseduto, con i valori più bassi tra i giovani che fanno parte delle famiglie a basso reddito con stranieri e di quelle della classe dirigente (34,5 e 34,6%) e i valori piu’ elevati tra i giovani delle famiglie a basso reddito di soli italiani e di quelli delle famiglie di impiegati (45,2% in entrambi i casi).
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
L’INCHIESTA E’ NATA DALLE ACCUSE DI UN IMPRENDITORE CHE AVREBBE VERSATO TANGENTI IN CAMBIO DI APPALTI…LEI SI DIFENDE: “CERTA CHE NE USCIRO’ PULITA, PIENA FIDUCIA NELLA MAGISTRATURA”
La senatrice Stefania Pezzopane (Pd) risulta indagata per finanziamento illecito ai partiti nell’ambito di un’inchiesta parallela svolta della procura di Avezzano sulle accuse mosse da un imprenditore frusinate del settore delle illuminazioni stradali, Angelo Capogna: ha rivelato agli inquirenti di avere versato tangenti a pubblici amministratori in vari comuni abruzzesi in cambio di aiuti per ottenere appalti.
Nel filone principale dell’inchiesta, quello sulle mazzette che Capogna avrebbe versato, come amministratore della Saridue Srl, a politici e funzionari per piazzare i suoi lampioni, sono stati iscritti nel registro degli indagati 36 nomi.
Non quello di Pezzopane, però, che è stato stralciato e inviato per competenza territoriale alla procura dell’Aquila, dove Pezzopane ha ricoperto in passato una serie di incarichi tra i quali quello di presidente della Provincia.
Il nome della senatrice sarebbe emerso nel corso del secondo lungo interrogatorio mosso dai pm a Capogna nelle scorse settimane.
Secondo indiscrezioni, dal racconto dell’imprenditore gli inquirenti stanno indagando sia Pezzopane che lo stesso Capogna per finanziamento illecito ai partiti, verificando se si configurino anche altri reati.
“Non so nulla e non ho ricevuto alcun avviso i garanzia”, ha detto Pezzopane, senatrice dal 2013, ai cronisti, “ma ho fiducia nella magistratura. Mi sembra un gran calderone che alla fine si chiarirà . Non ricordo di aver mai conosciuto o incontrato Capogna, e se l’ho fatto è per motivi diversi da quelli che vengono ipotizzati. Pare siano fatti relativi al 2010, forse a qualcuno fa comodo tirarmi dentro a questa vicenda che non mi riguarda proprio. La magistratura vada in fondo e scopra la verità : so come faccio le campagne elettorali e come agisce il mio tesoriere, sono illazioni e non c’è nessun finanziamento illecito”.
Pezzopane è stata assessore e presidente del Consiglio comunale dell’Aquila, presidente della Provincia e assessore e vice presidente del Consiglio regionale dell’Abruzzo.
Lo stralcio del fascicolo che la riguarda è stato trasmesso l’11 aprile alla procura aquilana dove sarebbe avvenuto il reato per cui è indagata.
L’inchiesta principale, invece, passata attraverso perquisizioni e sequestri di documenti nel marzo dello scorso anno, è arrivata a conclusione delle indagini nei giorni scorsi, con la notifica a 36 persone.
(da agenzie)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
L’ACCUSA E’ LA STESSA CHE COSTO’ LA CASA BIANCA A NIXON
Ostruzione della giustizia: l’accusa che si stende sulla Casa Bianca di Donald Trump potrebbe aprire la
strada a un procedimento di impeachment, ovvero alla messa in stato di accusa del presidente ad opera della Camera per farlo ‘processare’ dal Senato e – se condannato – rimuoverlo dall’incarico.
È la stessa accusa che nel 1974 costò la presidenza a Richard Nixon, che si dimise prima che l’impeachment fosse deciso, ed è la stessa che era stata mossa contro Bill Clinton nel 1998 ai tempi dello scandalo Lewinsky.
Trump, scrive il New York Times, avrebbe chiesto a James Comey, poi direttore dell’Fbi, di lasciar cadere l’indagine sul suo consigliere Michael Flynn. È ostruzione del meccanismo giudiziario, o no?
La stampa americana sottolinea che al Congresso si discute vivacemente su che cosa significhi “azioni che ostacolano le indagini ufficiali”.
Al di là dei casi più eclatanti (l’omicidio di un testimone o la distruzione di prove), la legge americana considera ostruzione alla giustizia, cioè un crimine, se qualcuno “blocca, influenza o ostacola qualsiasi procedimento ufficiale”.
Questo, si chiede il NYT, può comprendere una richiesta al direttore dell’Fbi di abbandonare un’inchiesta e il suo successivo licenziamento?
La risposta, secondo il quotidiano, è sì.
A sostegno di questa tesi, il giornale porta l’opinione di Julie O’Sullivan, ex procuratore federale e oggi docente all’università di Georgetown, specializzata in Diritto penale “dei colletti bianchi”: secondo la studiosa, il rapporto di potere che intercorre tra un presidente e il direttore dell’Fbi rende illecita la richiesta di archiviazione di un’indagine.
Al New York Times, la signora ha commentato: “Trump ha davvero bisogno di un avvocato. Sta costruendo un bel caso contro se stesso”.
Trump aveva effettivamente l’autorità di licenziare Comey, ma anche atti legittimi diventano illegali se commessi con intenzioni improprie, cioè in questo caso se lo scopo dell’atto era quello di fermare un’inchiesta sgradita.
A far balenare l’ipotesi di un impeachment per Donald Trump è anche la vicenda siriana, con l’ammissione dello stesso presidente di aver passato ai russi informazioni riservatissime. Richard Painter, consulente legale della Casa Bianca ai tempi di George W. Bush, ha lanciato su Twitter la richiesta di far riferimento al 25 emendamento, che prevede la rimozione di un presidente se “incapace di assolvere a compiti e poteri del suo ufficio”.
Le comunicazioni di Trump ai russi non sono di per sè illegali, ma costituiscono una lesione al rapporto di fiducia fra la Casa Bianca e la comunità dell’intelligence, cosa che i critici dell’amministrazione considerano una prova dell’incompetenza presidenziale.
Il ricorso al venticinquesimo emendamento, in ogni caso, prevederebbe che il vicepresidente Mike Pence e lo speaker del Congresso Paul Ryan dichiarino per iscritto che il presidente è impossibilitato a svolgere i suoi compiti, e questo scenario appare del tutto improbabile. Nel frattempo, però, l’opinione pubblica sta cambiando: secondo un sondaggio di Public Policy, gli americani favorevoli a un procedimento di impeachment sono – per la prima volta – più numerosi di quelli contrari.
(da “La Repubblica”)
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Maggio 17th, 2017 Riccardo Fucile
COMEY, IL CAPO DEL FBI LICENZIATO, RIVELA CHE A FEBBRAIO DONALD GLI CHIESE DI FERMARE LE INDAGINI SUL GENERALE FLYNN E SUI SUOI CONTATTI CON MOSCA
La vendetta di James Comey arriva in un “memo”, abbreviazione per memorandum. Un dossier, insomma, in cui l’ex-capo dell’Fbi licenziato in tronco la settimana scorsa vuota il sacco e inchioda il presidente.
L’accusa è grave: in un incontro fra i due a febbraio, Donald Trump chiese al capo dell’Fbi d’insabbiare l’indagine sul Russia-gate. In particolare l’inchiesta che la polizia federale (che ha anche responsabilità di contro-spionaggio) stava svolgendo sul generale Michael Flynn.
Il ruolo di Flynn nel Russiagate.
Quest’ultimo è una figura centrale nel Russia-gate. Trump nominò Flynn come suo massimo consigliere per la sicurezza nazionale, cioè capo del National Security Council che all’interno della Casa Bianca è la cabina di regìa di politica estera, difesa, anti-terrorismo.
Ma Flynn aveva nascosto una serie di rapporti con la Russia, incontri clandestini con l’ambasciatore di Vladimir Putin durante la campagna elettorale, perfino pagamenti ricevuti. Di fronte alle rivelazioni Trump dovette cacciarlo.
La posizione di Flynn ha continuato ad aggravarsi, ora è stato convocato dalla commissione d’inchiesta parlamentare e su di lui pende un “sub-poena” cioè l’obbligo di testimoniare sotto giuramento.
Il timore della Casa Bianca, si presume, è che dalla testimonianza di Flynn possano uscire altre rivelazioni compromettenti. Per esempio sul fatto che Trump fosse al corrente dei contatti coi russi in campagna elettorale? (Va ricordato che la stessa campagna fu contrassegnata da ripetuti attacchi di hacker russi contro Hillary Clinton). Ora arriva l’ultimo colpo di scena.
Già si sapeva – lo stesso Trump non ne ha fatto mistero – che dietro il licenziamento di Comey c’era l’esasperazione del presidente per l’indagine dell’Fbi sul Russia-gate, tuttora in corso e che genera prove utilizzabili nell’ambito della commissione parlamentare.
La soffiata al New York Times indica che il presidente aveva tentato d’interferire pesantemente nel lavoro della polizia federale, che è indipendente dalle direttive dell’esecutivo. Quella richiesta d’insabbiare l’indagine sul Russia-gate che a febbraio Comey respinse, “firmando” così la propria uscita di scena, è ai limiti dell’abuso di potere.
I colloqui tra Trump e Comey.
Comey, rivela il Nyt, creò un memorandum – inclusi alcuni appunti che sono classificati – su ognuna delle telefonate e gli incontri avuti con il presidente.
Non è chiaro se Comey denunciò al ministero della Giustizia, da cui dipende, la conversazione avuta con Trump e la sua richiesta e l’esistenza degli appunti.
Comey vide Trump il 14 febbraio, il giorno dopo le dimissioni di Flynn, costretto a lasciare l’incarico perche’, si era scoperto, aveva mentito al vicepresidente Mike Pence assicurandogli che non c’era nulla di male nella telefonata con l’ambasciatore russo.
Quel giorno, ricostruisce il Times, Comey era nello Studio Ovale con Trump ed altri vertici della sicurezza nazionale per un briefing sul terrorismo.
“Quando la riunione si concluse Trump disse ai presenti, incluso Pence e dil ministro della Giustizia Jeff Session, di lasciare la stanza per restare da solo con Comey”.
Una volta solo Trump inizò un filippica contro le fughe di notizie suggerendo a Comey di “considerare (l’opzione) di mettere in prigione i reporter per pubblicare informazioni classificate prima di affrontare l’argomento Flynn” riferisce una delle due persone vicine a Comey, che hanno parlato con il Times.
Comey “si consultò con i suoi più stretti consiglieri sull’accaduto e tutti condivisero l’impressione che Trump avesse cercato di influenzare l’indagine (un accusa che ove mai trovasse una conferma indipendente potrebbe configurare il gravissimo delitto di ‘intralcio della giustizia’, per cui in questo caso Trump rischierebbe la presidenza, ndr) ma tutti decisero che avrebbero cercato di mantenere segreta la conversazione (con Trump), anche agli stessi agenti dell’Fbi che stavano conducendo l’inchiesta sul Russiagate, in modo che la richiesta del presidente non influenzasse il loro lavoro”.
Il pezzo del Times sembra suggerire che l’avvertimento minaccioso di Trump a Comey, all’indomani del suo licenziamento, di stare attento a cosa avrebbe deciso di far filtrare alla stampa perchè potrebbero esserci “registrazioni degli incontri”, non preoccupi affatto Comey.
Da sottolineare anche il fatto che il New York Times rivela la sua fonte: uno stretto collaboratore di Comey. La guerra dell’intelligence contro il presidente, a colpi di dossier e fughe di notizie, diventa sempre più spietata.
La risposta della Casa Bianca.
La Casa Bianca nega che il presidente Donald Trump abbia chiesto all’ex capo dell’Fbi, James Comey, licenziato in tronco lo scorso 9 maggio, di fermare l’indagine sul suo ex consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn.
Repubblicani spaccati.
Il presidente della commissione di vigilanza della Camera, il repubblicano Jason Chaffez, chiede all’Fbi di consegnare tutti i documenti e le registrazioni delle comunicazioni fra l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, e il presidente Donald Trump. La richiesta mostra la spaccatura all’interno del partito repubblicano, all’interno del quale solo in pochi difendono Trump. Molti preferiscono tacere. Per gli esperti questo è il ‘momento della verità ‘ nel partito.
Democratici all’attacco.
E insorgono i democratici, dopo questa nuova tegola sulla testa del presidente Usa. ”Quando è troppo è troppo” sbotta il parlamentare democratico, Adam Schiff.
”Il paese viene messo sotto esame in un modo senza precedenti. La storia ci sta a guardare” tuona Chuck Schumer, il leader della minoranza democratica in Senato. ”Servono i mandati per ottenere i documenti legati a Flynn” dice il parlamentare Elijah Cummings. Nancy
Pelosi, leader dei democratici alla Camera, parla di ”assalto alla legge”: se la ricostruzione di Comey è vera, il presidente ”ha commesso un grave abuso del suo potere esecutivo. Nel peggiore dei casi si è trattato di ostruzione alla giustizia”.
(da “La Repubblica”)
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