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TRA GLI EX COMUNISTI DI POMIGLIANO CHE ORA VOTANO M5S: “L’UNICA SALVEZZA E’ IL REDDITO DI CITTADINANZA”

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

NEL FEUDO DI DI MAIO DOVE IL M5S HA PRESO IL 70% E DOVE ORA ASPETTANO I QUATTRINI

«Con il voto abbiamo fatto la rivoluzione. Ora speriamo che non ci deludano». Pomigliano d’Arco, la città  di Luigi Di Maio, è una roccaforte grillina.
Qui il movimento ha raccolto quasi il 70% dei voti. «Percentuali bulgare», racconta Francesco, circa 50 anni, sindacalista Fiom, operaio, ex comunista, oggi grillino. Ecco, la rivoluzione del voto qui dove fino a dieci anni fa c’erano grandi fabbriche e una forte classe operaia, c’è stata.
Ma ora che governo si aspetta? «Ok, dovranno fare accordi in Parlamento. Per me, che vengo da sinistra, e certo non cambio idea su Salvini, ben venga anche lui. Purchè si tenga fede al principio dei principi: nessuno resti solo».
A Pomigliano, la grande crisi morde come in tutto il Sud.
Su quarantamila residenti, ci sono circa 5000 disoccupati e altri 5000 inoccupati (cioè persone che non hanno mai formalmente lavorato).
Se si tolgono bambini e pensionati, fa spavento la percentuale di chi è in età  da lavoro e brancola alla ricerca di una occupazione.
Sulla città , annunciata lungo la strada da montagne di spazzatura dispersa, e case malcostruite, pesa una nube di disperazione. I grillini sono l’ultima spiaggia.
E per toccare con mano tanta angoscia, occorre venire nella sagrestia della parrocchia di San Felice in Pincis, nel centro di Pomigliano.
A cento metri abitano i genitori di Di Maio, lui stesso è buon amico di don Peppino, il parroco.
In chiesa è una processione ininterrotta di chi viene a chiedere aiuto per le bollette, il cibo, le medicine, i libri di scuola.
«È evidente – dice il sacerdote, che qualcuno etichetta come “grillino” – che in Parlamento dovranno fare compromessi. La parola non mi piace, ma bisogna prenderne atto. Fondamentale è che Luigi trovi la concordanza su proposte che diano risposta a questa nostra gente, non la difesa dei privilegi o delle solite lobby. La prima delle emergenze è la povertà . Serve il lavoro, serve la difesa dei diritti».
Mentre don Peppino parla, emergono brandelli di storie d’infinita disperazione.
La signora Assunta, 55 anni circa, vedova da cinque, con un figlio di 19 anni che passa il suo tempo attaccato alla tv, chiede un sostegno per la bolletta del gas: «Certo – dice – che io e mio figlio abbiamo votato M5S. Alle promesse degli altri non ci credo più. Non so più che fare se non buttarmi dalla finestra. Speravo in un posto di bidella, ma siccome ho solo la quinta elementare non posso fare neanche la domanda».
Si finisce per parlare di politica anche sul corso. Salvini o non Salvini? Il signor Antonio, mani grandi da operaio, sbotta a ridere: «Ma a chi gli interessano le tasse?! Se paghi, vuol dire che sei già  in regola. Io ora sono disoccupato. L’unica speranza è il reddito di cittadinanza».
Anche lui ha votato grillino. «Ero comunista convinto. Ma è tutto finito. Come la mia fabbrica. Ora bisogna pensare al minimo del minimo».
In fondo è lo stesso discorso di don Peppino: «La linea da non varcare è la difesa degli ultimi». La parrocchia, assieme alla Fiom di Maurizio Landini, e a Libera di don Ciotti, qualche anno fa, dopo alcuni suicidi tra disoccupati, ha fondato un’associazione per sostenere i più vulnerabili, «Legami di solidarietà ».
I primi fondi li ha versati l’attore Toni Servillo, con uno spettacolo di beneficenza.
Poi sono arrivati altri; anche una sottoscrizione tra operai «per i compagni in difficoltà ». Gli ultimi soldi li ha versati un senatore di Sinistra italiana, Giovanni Barozzino, che qualche giorno fa è tornato a lavorare in fabbrica. «Ma vi pare normale – prorompe don Peppino – che ci pensiamo solo noi? Ci sono famiglie che la sera accendono le candele perchè gli hanno tagliato l’energia elettrica».
A proposito, i fondi sono finiti.

(da “La Stampa”)

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“O LA LEGA PORTA A CASA QUALCOSA ADESSO O NON LA VOTIAMO PIU'”: NEL FEUDO DI PONTIDA COMINCIANO A ESSERE IMPAZIENTI

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

MENO TASSE, VIA LA FORNERO E GLI IMMIGRATI E NO A “PAGARE NOI LA PIZZA AI MERIDIONALI”: LA SOLITA SOLIDARIETA’ PADAGNA

Visto da qui non si capisce perchè non ci sia ancora il governo. «Matteo fa il premier. Coi 5 stelle ci si accorda per le cose da fare. Via la legge Fornero e i clandestini. Giù le tasse. Poi si va al voto. E siccome abbiamo fatto le cose e siamo credibili, si torna a votare e rivinciamo noi», traccia la road map senza curve Luigi Carozzi, sindaco leghista di Pontida provincia di Bergamo, sede dello storico pratone di mille giuramenti da Umberto Bossi a Matteo Salvini.
Roma è lontana 620 chilometri. Sembra un pianeta di un’altra galassia. Qui la Lega non va mai sotto il 40%. Su 3300 abitanti uno su tre è leghista, contando pure i neonati.
Dal voto di marzo sono passate più di tre settimane.
Marinella dietro al bancone del bar Arcadia strizza gli occhi dalla fretta: «Non capisco cosa ci sia ancora da discutere. Abbiamo vinto e governiamo noi. I 5 Stelle hanno avuto la Camera. Forza Italia il Senato. A noi tocca il Governo. Se a qualcuno sono venuti i mal di pancia, se li faccia passare. Per me sono meglio di Silvio Berlusconi che non aspetta altro di fare l’accordo col Pd».
Che il leader di Forza Italia qui non fosse molto amato lo si sapeva. Qualcuno voleva che la Lega corresse addirittura da sola. Arveno Mazzoleni, 61 anni, vice sindaco, imprenditore settore trasporti, guarda molto avanti, davvero tanto: «Il berlusconismo è acqua passata. Siamo nelle mani di Matteo Salvini. Sono venti anni che aspetto questo momento».
In questo paesino dove Bergamo è già  il Sud, la Lega ha le sue fondamenta. «Secessione» e «Prima il Nord» ce l’hanno nel Dna.
Nei decenni hanno digerito la devolution, Umberto Bossi messo di lato, le scope di Roberto Maroni e ora pure la Lega che non è più nemmeno Nord.
Adesso sognano solo la rivincita come dice uno dei tanti pensionati sulle panchine al sole del Bar B dall’altra parte della strada: «A me i 5 Stelle non mi piacciono, ma sono meglio del Pd di Matteo Renzi che ha fatto solo danni. Se Beppe Grillo dice che Matteo Salvini è un uomo di parola, va bene. Spero che lo siano anche loro. Non c’è bisogno di una grande alleanza. Due o tre cose da fare insieme si fanno. Poi si vota e ognuno per la sua strada».
A chiedere quali sono le cose «da fare insieme» gira e rigira si torna sui soliti argomenti, dall’abolizione della Fornero ai migranti che vanno tenuti alla porta, dalle tasse da tirar giù a pochissimo altro se non una legge per un nuovo voto che garantisca un vincitore.
Il modello elettorale elaborato a Pontida – ne tengano conto a Roma – lo enuncia Maurizio Teruzzi, leghista da sempre, girando il cucchiaino nel caffè al bar Arcadia: «La coalizione che vince, vince e basta. Io lo so che adesso dobbiamo discutere coi 5 Stelle. A metà  di noi non piacciono. Alla metà  di loro di sinistra non piaciamo noi. Ma quando le cose inizieranno a girare vedi come cambia tutto. Via i vitalizi ai politici. Via la legge Fornero che ferma il lavoro e non ci fa andare in pensione. Abbassiamo pure le tasse. Ma si scordino il reddito di cittadinanza, che noi la pizza a quelli del Sud che non vogliono lavorare, mica gliela paghiamo».
Il tema è spinoso. Le aperture della Lega ci sono. Ma il sindaco Luigi Carozzi non ci sta: «La gente che ha bisogno viene da noi in Comune. Noi li aiutiamo perchè le leggi ci sono già . Non c’è bisogno di inventare altre». Ma alla fine pure questo è un dettaglio.
Quello che conta davvero è andare finalmente al governo da leader. Dopo vent’anni non sembra più un miraggio. Ma dalla panchina davanti al Bar B a questo punto non si fanno più sconti a nessuno: «O la Lega porta a casa qualcosa adesso, oppure non la votiamo più».

(da “La Stampa”)

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FICO SI TAGLIA LO STIPENDIO MENO DELLA BOLDRINI, ECCO LA NUOVA SCENEGGIATA USO GONZI DEL NEO-PRESIDENTE DELLA CAMERA

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

LA BOLDRINI SI ERA GIA’ TAGLIATA NON SOLO 3.800 EURO DI RIMBORSI SPESA E INDENNITA’ DI FUNZIONE, MA AVEVA RINUNCIATO ALL’APPARTAMENTO IN DOTAZIONE, AL RIMBORSO DELLE SPESE DI VIAGGIO E TELEFONICHE E AL RIMBORSO PER LE SPESE ESERCIZIO DEL MANDATO… FICO TAGLIA SOLO UNA VOCE PER 4.688 EURO E SI TIENE IL RESTO

Dopo aver combattuto per cinque anni la casta a colpi di scontrini Roberto Fico ha iniziato ad abbattere i privilegi del suo nuovo ruolo di terza carica dello Stato.
Lo ha fatto ieri, scegliendo di fare una cosa inconsueta per lui abituato al taxi, quando ha deciso di recarsi a Montecitorio in autobus come un normale cittadino.
Ieri sera al TG1 Fico ha fatto un altro annuncio: l’epoca dei privilegi è finita, è giunto il momento di ridurre i costi della politica.
Quando Pietro Grasso e Laura Boldrini si erano tagliati i privilegi
Il Presidente della Camera ha fatto sapere di avere l’intenzione di rinunciare all’indennità  di funzione da presidente della Camera. Da alcuni pasdaran pentastellati la notizia è stata accolta come se Fico avesse annunciato di dimezzarsi lo stipendio: non è così.
E a dirla tutta non è nemmeno una novità  perchè già  Laura Boldrini aveva dato una vigorosa sforbiciata ai costi della politica e al suo stipendio.
Nel marzo del 2013 la Boldrini aveva comunicato in una nota la sua intenzione a rinunciare «all’uso dell’alloggio di servizio e al rimborso delle spese accessorie di viaggio e telefoniche. Inoltre chiedo che l’indennità  di funzione connessa alla carica di Presidente della Camera dei Deputati e il mio rimborso delle spese per l’esercizio del mandato parlamentare siano ridotti della metà . Quanto specificamente a quest’ultima voce, preciso che rinunzio alla parte dovuta ai rimborsi forfettari».
Un articolo del Sole 24 del 21 marzo 2013 spiegava che lo staff della Camera aveva sottolineato che l’indennità  e diaria della presidente della Camera non si possono intaccare.
Si tratta, rispettivamente, di 5mila e 3.500 euro circa al mese. La Presidente aveva invece deciso di dimezzare sia il rimborso spese per l’esercizio del mandato sia l’indennità  di funzione passando nel primo caso da quasi 3.700 euro a oltre 1.800 euro e nel secondo da 3.800 a 1.900 euro.
Nel complesso il taglio operato da Laura Boldrini aveva comportato una riduzione del 30% dello “stipendio” (che come detto è comporto da più voci).
Il Presidente del Senato Pietro Grasso fece ancora di più annunciando il dimezzamento della scorta e la riduzione del cinquanta per cento della sua retribuzione netta mensile che passava così da 18.600 a 9.000 euro al mese.
Inoltre Grasso aveva stabilito di dimezzare anche il costo complessivo lordo del Gabinetto del Presidente e del fondo consulenza.
L’ultima dichiarazione dei redditi della Presidente della Camera uscente ammontava a 137.337 euro, poco meno di 40mila euro in più rispetto a quanto dichiarato dai francescani parlamentari del M5S che mediamente dichiarano 98mila euro.
Roberto Fico si dimezza lo stipendio? Non proprio
Il percorso virtuoso di riduzione dei costi della politica era già  iniziato ben prima dell’avvento di quella che i pentastellati chiamano la Terza Repubblica.
Sia la Boldrini che Grasso avevano già  rinunciato ad una fetta della loro retribuzione in nome di una progressiva razionalizzazione delle spese e taglio degli sprechi. Roberto Fico ha dichiarato di voler fare ancora di più e meglio di aver deciso “di rinunciare totalmente alla mia indennità  di funzione da presidente della Camera”.
Questo però non significa che Fico si è “dimezzato lo stipendio” visto che a concorrere alla retribuzione mensile di un parlamentare non c’è solo l’indennità  di carica (alla quale per altro i 5 Stelle hanno sempre rinunciato) ma anche le numerose voci elencate sul sito della Camera (e parallelamente su quello del Senato).
È da vedere se Fico rinuncerà , come ha fatto la sua predecessora, anche all’alloggio di servizio e al rimborso delle spese accessorie di viaggio e telefoniche e chiederà  il dimezzamento del rimborso delle spese per l’esercizio del mandato.
Su quest’ultimo punto ad esempio i 5 Stelle hanno regolarmente usufruito dei rimborsi forfetari.
Ancora più complessa la questione della scorta. Molti supporter pentastellati danno ormai per certo che il Presidente della Camera della GGente abbia rinunciato ad auto blu e scorta.
In realtà  la legge 133/2002 stabilisce che è il Ministero dell’Interno ad assegnare i servizi di scorta e che non è facoltà  del Presidente potervici rinunciare. Insomma la scorta è un obbligo, ed è giusto e doveroso che la terza carica dello Stato non possa affidare la sua sicurezza unicamente nelle mani degli onesti cittadini che sognano la Terza Repubblica
La lettera con cui Roberto Fico chiede il taglio dell’indennità 
In tarda mattinata il Presidente della Camera ha scritto sulla sua pagina Facebook che ha deciso “di rinunciare totalmente e con effetto immediato all’indennità  di carica che mi spetterebbe come presidente della Camera dei deputati”.
Roberto Fico rinuncerà  quindi allo stipendio aggiuntivo di 4.668,45 euro al mese a cui avrebbe avuto diritto in virtù del suo incarico. Ciò comporta, spiega il Presidente della Camera, “un risparmio di circa 280.000 euro di risorse pubbliche per l’intera legislatura”.
A dimostrazione del suo impegno Fico ha pubblicato la lettera con cui comunica agli uffici la sua intenzione a rinunciare all’indennità  d’ufficio. A differenza della lettera inviata da Laura Boldrini   non c’è alcun riferimento alla rinuncia all’uso dell’alloggio di servizio e al rimborso delle spese accessorie di viaggio e telefoniche nè al taglio del rimborso delle spese per l’esercizio del mandato parlamentare.
Quindi Fico non rinuncia a quei privilegi.

(da “NextQuotidiano”)

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OPEN ARMS, CADE L’ACCUSA DI ASSOCIAZIONE A DELINQUERE, E’ MISERAMENTE CROLLATO IL CASTELLO DI CARTE DELLA PROCURA DI CATANIA

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

GLI ATTI TRASFERITI PER COMPETENZA ALLA PROCURA DI RAGUSA CHE HA 20 GIORNI PER DECIDERE, LA NAVE NEL FRATTEMPO RESTA SOTTO SEQUESTRO… PER MOLTO MENO ORLANDO MANDAVA ISPEZIONI, IN QUESTO CASO TACE VERGOGNOSAMENTE

Cade il reato di associazione a delinquere contestato dalla procura di Catania, resta per ora   quello di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, destinato a cadere presto.
Il Gip etneo oggi ha convalidato il fermo della nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms, bloccata dal 18 marzo a Pozzallo, dichiarandosi incompetente e affidando la questione al gip di Ragusa che avrà  20 giorni di tempo per decidere.
La decisione del gip di Ragusa non avalla la tesi della procura di Catania sulla nave della Ong Proactiva ferma al porto di Pozzallo
Il gip di Catania Nunzio Sarpietro si è dichiarato incompetente ritenendo non sussistere il reato di associazione per delinquere ma soltanto quello di immigrazione clandestina. In sostanza, ha rigettato l’ipotesi del procuratore di Catania Carmelo Zuccaro.
Ora gli atti saranno trasferiti alla Procura di Ragusa. Il presidente dell’ufficio gip del tribunale di Catania   Sarpietro ha esaminato personalmente la delicata questione che ha rilanciato le polemiche sulla mano pesante da più di un anno usata dalla Procura di Catania.
La nuova vicenda giudiziaria che ha fermato una nave umanitaria (dopo la Iuventa della Ong tedesca Jugend ancora sotto sequestro a Trapani dopo nove mesi) è nata dopo un salvataggio conteso avvenuto il 15 marzo quando, in acque internazionali, la Open Arms ha tratto in salvo 117 migranti su richiesta della sala operativa della Guardia costiera di Roma che dopo, però, ha comunicato agli spagnoli che ad assumere il coordinamento delle operazioni era la Guardia costiera libica.
Una novità  assoluta visto che la Libia non ha riconosciuta la competenza di alcuna zona di Ricerca e soccorso.
La motovedetta libica avvicinatasi alle lance della Open Arms poco dopo ha preteso la consegna delle donne e dei bambini a bordo sotto la minaccia dell’uso delle armi e davanti al rifiuto passivo dell’equipaggio un paio d’ore dopo ha desistito dal suo intento ordinando alla nave di procedere verso nord.
A quel punto la Proactiva ha chiesto a Roma l’assegnazione di un porto dove sbarcare i migranti ma per piu’ di 24 ore non l’ha ottenuto in virtù della richiesta ( anche questa inedita) di far pervenire una richiesta ufficiale del governo spagnolo.
Secondo la Procura di Catania, la Open Arms avrebbe dovuto chiedere l’approdo a Malta, porto più vicino al quale si erano avvicinati per evacuare una neonata di tre mesi in gravi condizioni. Ma gli spagnoli non lo hanno fatto perche’ Malta notoriamente non accoglie migranti.
Alcune ore dopo l’Italia ha dato il nullaosta all’approdo a Pozzallo dove il giorno dopo la nave e’ stata sequestrata dal procuratore Zuccaro che ha motivato il suo provvedimento con l’assunto secondo il quale la Ong voleva a tutti i costi sbarcare i migranti in Italia favorendo cosi’ l’immigrazione clandestina.
Nei giorni scorsi, a sostegno della Proactiva c’è stata una grande mobilitazione di piazza che ha fatto proprio lo slogan ” la solidarietà  non è un reato”.
Venendo meno l’accusa di associazione a delinquere e rimanendo in piedi solo l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina ai sensi dell’articolo 1 comma 3 della legge 286/98 la competenza territoriale passa alla Procura di Ragusa.
E Catania, a differenza di Ragusa, è procura distrettuale ed è competente per i reati associativi.
Il procuratore di Ragusa Fabio D’Anna non ha voluto commentare la decisione del Gip del Tribunale di Catania Nunzio Sarpietro. “Prima fatemi leggere gli atti”, ha detto D’Anna. E’ probabile che a seguire il caso dell’Open Arms sia il sostituto Monica Monego.

(da agenzie)

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LINK CAMPUS, L’UNIVERSITA’ IN CUI DI MAIO STUDIA IL POTERE TRA BOIARDI E 007

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

VIAGGIO NELL’ATENEO EMBLEMA DEL NUOVO M5S DOVE DI MAIO PESCA I MINISTRI

«Ci mancano Harry Potter e il Grande Puffo, giusto loro: poi siamo al completo». In un vialetto della Link Campus University, Elisabetta Trenta da Velletri, 51 anni, vicedirettrice del master in intelligence e sicurezza, nove pagine di curriculum pesante, presentata al mondo come ministra della Difesa di un eventuale esecutivo M5S appena un paio di settimane dopo aver conosciuto Luigi Di Maio, sbuffa vistosamente, da grillina prima maniera quale è.
Tutti i riferimenti simbolici che i giornalisti hanno intravisto nell’università  privata in cui lei insegna non esistono mica, sostiene. I servizi segreti, la massoneria, i disegni occulti: macchè. È tutto «molto più semplice», arringa lei in montgomery blu e scarpe Hogan azzurre, appena fuori dal suo ufficio, ultimo piano dell’edificio “Romagnoli”, stanza “i” che divide con tre colleghi, tra pranzi consumati in loco, ciotola dell’insalata sulla scrivania, professori che si affacciano ironici («Toc toc, c’è il ministro?»), studenti che si precipitano a salutare la prof «adesso, finchè è senza scorta».
Sarà  pure più «semplice» ma – c’è da dire – tra legami con Malta, professori coinvolti nel Russiagate, democristiani doc, lezioni di intelligence a mazzi, ottimi rapporti col Vaticano, partnership con l’università  di Mosca, partecipazioni societarie inglesi, ex ministri e prossimi ministri sparsi a frotte tra aule e viali, il problema non sembra essere l’eventuale assenza di Harry Potter e Grande Puffo
Ecco la Link Campus University, università  privata, lezioni in inglese, obiettivo tremila studenti, creatura del democristiano e sette volte ministro Vincenzo Scotti, 85 anni, fino al 2011 filiazione dell’università  di Malta, poi italiana, oggi (anche) cuore pulsante del grillismo rampante – apparentemente come fu la Luiss per il renzismo, ai tempi in cui la Boschi teneva lezioni sulle riforme, a volerla raccontare ottimistica e a pelo d’acqua. Un legame molto diverso, in realtà .
Dove, tanto per cominciare, M5S sta pescando la sua classe dirigente: l’assessora del digitale a Roma Flavia Marzano, le ministre dello shadow cabinet di Di Maio come la Trenta o come anche Paola Giannetakis, criminologa molto più in tiro e (sottolineano) meno curriculata della prima; i candidati alle politiche, come lo sono state anche le due professoresse (una al proporzionale, l’altra all’uninominale); i possibili assessori regionali come Nicola Ferrigni, direttore del Master in Sicurezza Pubblica e Soft Target, indicato come papabile dalla Lombardi.
Fino alla rimarchevole circostanza che pure il deputato M5S Angelo Tofalo, da membro del Copasir, ha frequentato il master in Intelligence, cioè le lezioni della Giannetakis («Ma ha fatto tutti i colloqui come gli altri e pagato la retta per intero», circa 14 mila euro, chiarisce il direttore generale Pasquale Russo, ex sindacalista, esperto di Reti fin dagli anni Ottanta, passate collaborazioni con Letta, Bassanini e D’Alema)
«Ah voi siete l’università  grillina?» è la domanda che si sente rivolgere, ormai, chi va a fare orientamento nei licei. Emblema, la Link, della svolta moderata e lobbista impressa dalla guida di Luigi Di Maio.
Quella di un M5S con meno grilli per la testa, e in compenso un sacco di intense relazioni con tanta gente che conta, di luce come d’ombra.
Un movimento cui il nuovo capo ha dato un profilo più filo americano, filo israeliano, europeista – la “svolta”, manco a dirlo, Di Maio l’ha pronunciata proprio nell’Aula magna della Link, davanti alle opportune rappresentanze diplomatiche, e con quelle statunitensi e israeliane in piena levitazione.
Un passaggio che ha agevolato l’avvicinamento di personaggi come la Trenta: «La politica mi è sempre piaciuta, e l’ho anche fatta. Ma con la mia storia, in un movimento no Nato e no euro non ci sarei potuta stare», chiarisce infatti lei, che milita dal 2013 ma per la verità  conosce il M5S sin dalle origini, per via del fratello minore Paolo, capogruppo in consiglio comunale a Velletri e attivista dai tempi dei Vaffa day.
Un M5S, quello alla Di Maio, che però ha legami a qualsiasi latitudine, come si conviene a un potere che vuol restare, che è determinato a non andare via. Come la Dc? Un po’ come la Dc, diciamo.
Il paragone è doc, opera di Vincenzo Scotti in persona, il quale già  due anni fa sospirava, tra la brama e la nostalgia: «Sono gli unici rimasti a fare politica». Per quel che riguarda la sede dell’università , Casale San Pio V, il genius loci democristiano è vibrante: dimora estiva di sette Papi, in concessione alla Link per sessant’anni a canone variabile tra gli 800 mila e il milione e 200 mila euro (restauri e manutenzione straordinaria escluse ma obbligatorie) è un luogo che cadrebbe a pennello in un film di Paolo Sorrentino. Una prosecuzione del Divo tendenza Grande Bellezza. A otto minuti a piedi dalla Domus Pacis e a quindici dalla Domus Mariae, posti che hanno fatto da cornice scenografica a pezzi di storia della Democrazia cristiana nel quadrilatero magico alle spalle del Vaticano.
Ma, a differenza di quelle epoche, qui, nel caso del M5S, non è affatto chiaro chi contamini chi, e chi governi che cosa: il punto sarebbe centrale nello svolgersi di quello che pure la Trenta considera un «esperimento politico».
Premeditazione e casualità  si intrecciano continuamente, in effetti. Ad esempio, Di Maio stesso non sapeva, quando andò alla Link university in febbraio, che avrebbe preso lì due delle ministre del suo eventuale governo.
È   Trenta stessa a raccontare di averlo conosciuto giusto quel giorno. Il capo M5S ignorava di avere tra i professori ben tre candidati del Movimento. «Ci incontrammo dieci minuti, gli dissi che potevo dare una mano, ma intendevo consulenze, spiegazioni». Invece dopo qualche altro contatto è arrivata la proposta: «Mi ha telefonato un suo collaboratore, per chiedermi se ero disponibile. Ho pensato a uno scherzo»
Ecco, in effetti, cosa accade alla Link: la compenetrazione.
È il luogo fisico in cui il Movimento 5 stelle si fa establishment, potere, influenza; e un certo establishment si muta a Cinque stelle.
«La prima e la terza Repubblica s’incontrano», dice il vaticanista Pietro Schiavazzi, nume tutelare dei primi avvicinamenti alla Chiesa di Di Maio, anche lui manco a dirlo docente alla Link university. Un talento proteiforme del potere.
Qui, in effetti, ci si può imbattere in interi pezzi di storia. Vi insegna l’ex ministro Franco Frattini, il democristiano Ortensio Zecchino, il cossighiano Paolo Naccarato, l’ex sottosegretario Antonio Catricalà , ma pure l’uomo che racchiuse la sua vita in un referendum: Mario Segni. Basta? Non basta. A volte vi si incontra Zingaretti: non Nicola, governatore del Lazio, ma Luca, il commissario Montalbano, arruolato nel Dams, guidato da Alessandro Preziosi.
Del resto – giusto per chiarire quanto siano «semplici» le cose – alla Link ha insegnato per anni (prima di sparire) uno come Joseph Mifsud, il professore maltese finito nel Russiagate perchè secondo il procuratore Muller già  nell’aprile 2016 avrebbe offerto ai collaboratori del futuro presidente Trump – segnatamente a George Papadopoulos – materiale compromettente sulla Clinton. Nella sua ultima intervista a Repubblica, Mifsud risultava barricato proprio nel suo ufficio alla Link. E si raccomandava: «Dite che non mi avete visto». Non l’hanno più visto, in effetti.
Le sue tracce sono state rapidamente cancellate dal sito dell’Università  – dove pure fino a poco fa presiedeva il corso di Relazioni internazionali. Così come pure sono spariti, i riferimenti a Mifsud, dal sito di Stephan Roh, avvocato tedesco residente in Svizzera che lo aveva come consulente nel suo studio. Anche Roh, almeno fino al 2017, era tra i consiglieri della Link: e risulta tutt’ora socio di minoranza, attraverso la londinese Drake global Ldt, che detiene il 5 per cento della Global education management, la società  di servizi che con un capitale da 18 milioni di euro fa da cassaforte all’università .
«Tutte queste trame che stanno sui giornali sono proprio delle fake news», sospira Vanna Fadini, amministratrice unica e socia di maggioranza della Global, facendo dondolare la lunga collana di perle Chanel, nella stanza più alta del Casale, là  dove si narra che Pio V ebbe la visione della vittoria a Lepanto. L’espansione della Link è pronta a continuare, un aumento di capitale è stato già  deliberato.
Così come la partnership con la prima università  statale di Mosca, la Lomonosov – alla quale è intitolata una sala della Link. Già  l’estate scorsa i moscoviti sono venuti per un campus: torneranno la prossima.
Arriverà  anche un corso di lingua russa. Nell’attesa, Scotti si immerge nell’ennesimo incontro per parlare anche del futuro a Cinque stelle, a Villa Malta, dove ha sede il periodico Civiltà  cattolica, in una giornata di studio organizzata dalla Fondazione Formiche, con l’ambasciatore Giampiero Massolo, già  vertice dei Servizi. E il valzer, grillino e non, continua.

(da “L’Espresso”)

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DI MAIO PRONTO A SACRIFICARE LA SUA SQUADRA: “NESSUNO E’ INTOCCABILE”

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

SI TRATTA SUI DICASTERI ECONOMICI… NO DEI GRILLINI A MINISTRI FORZISTI

Un tentativo per la conquista di Palazzo Chigi si farà . Anche perchè sono già  sul campo tutte le premesse necessarie allo sviluppo di una trattativa.
Da una parte c’è la «fiducia» reciproca tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini, esternata pubblicamente con la benedizione di Beppe Grillo.
Dall’altra, rimangono i punti di contatto su cui lavorare per un programma condiviso. I due fattori hanno viaggiato in parallelo nella formazione dell’accordo per le presidenze di Camera e Senato, e con lo stesso metodo potrebbero oggi portare a una spartizione dei ministeri.
Il grande bivio sulla strada delle larghe intese riguarda la presidenza del Consiglio, direzione Centrodestra o M5S.
«Chi farà  il premier avrà  meno ministeri di peso»: questo è il punto di partenza emerso dai primi contatti con i possibili alleati. Poi, i veti incrociati.
Da una parte il «no» grillino a possibili ministri di Forza Italia, dall’altra lo stop di Berlusconi alla presidenza del Consiglio a Di Maio.
Il primo obiettivo, sottolineato sulle agende di Salvini e Di Maio, è quindi mantenere l’equilibrio nella spartizione delle poltrone.
Poi, ci sarà  spazio anche per la riconoscenza e le ricompense. Ma c’è un messaggio che l’ambasciata pentastellata ha inviato ripetutamente al centrodestra negli ultimi giorni: «Alcuni ministeri dovranno avere una linea comune per essere efficienti e quindi non potranno essere lottizzati».
Sono due i triangoli ministeriali inscindibili nella mente di Di Maio: «Il primo è per i ministeri di Interno, Difesa e Esteri. E ancor di più per quelli di Economia, Lavoro e Sviluppo economico».
Mentre contano sempre meno, nelle alchimie che dovranno tenere in piedi l’alleanza, i nomi dei ministri presentati prima delle elezioni dal leader M5S.
«Nessuno è intoccabile», ragionano nel quartier generale pentastellato. E la prima a cadere dovrebbe essere, con ogni probabilità , Paola Giannetakis. La criminologa eletta con i Cinque stelle, lanciata per il ministero dell’Interno targato M5S, è stata abbandonata dai vertici già  da tempo, e con maggior convinzione oggi che la poltrona pesante potrebbe finire a Salvini, che non scalpita per andare a Palazzo Chigi.
E così, nell’ottica pentastellata dei ministeri indivisibili, la Lega potrebbe anche indicare Guglielmo Picchi per la Farnesina, fautore dell’incontro tra Salvini e Donald Trump e sembrerebbe anche del meeting a Milano con l’ideologo del populismo americano Steve Bannon.
Per fare filotto, in lista c’è infine Guido Crosetto al ministero della Difesa in quota Fratelli d’Italia.
Sul secondo triangolo di ministeri economici Di Maio aveva lanciato i turbo-keynesiani Andrea Roventini, Pasquale Tridico e Lorenzo Fioramonti, rispettivamente all’Economia, al Lavoro e allo Sviluppo economico.
Nelle trattative partirebbero indietro, però, rispetto agli uomini del centrodestra.
La Lega potrebbe indicare al Tesoro Giancarlo Giorgetti (che è anche una delle carte coperte di Salvini per Palazzo Chigi), al Lavoro il forzista Renato Brunetta e allo Sviluppo economico uno tra i due ideologi della Lega, gli economisti Alberto Bagnai e Claudio Borghi.
E al Movimento 5 stelle? Rimane in lista Riccardo Fraccaro, uscito bruciato dalla corsa per la presidenza della Camera, e che potrà  essere consolato con il ministero ai Rapporti con il parlamento e per la Democrazia diretta.
Un altro uomo di Di Maio da ricompensare per la sua fedeltà  sarà  Alfonso Bonafede, a cui il candidato premier M5S aveva assicurato la poltrona del Guardasigilli, oggi contesa dal nome in ascesa della leghista Giulia Bongiorno.
Tra i ministri indicati in anticipo da Di Maio, c’è anche qualcuno rimasto nelle grazie del leader. Da Giuseppe Conte, indicato per il ministero della Pubblica amministrazione, al generale Sergio Costa all’Ambiente.
I leader sfogliano le loro liste, annotano nomi, sondano disponibilità  (soprattutto al femminile). Ognuno tenendo le proprie carte ben coperte. Tutti in attesa di ascoltare i messaggi che arriveranno dal Quirinale durante le consultazioni. E nessuno che si fidi davvero della fiducia riposta nell’altro.

(da “La Stampa”)

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LOTTA TRA DUE PALLONI GONFIATI FANCAZZISTI. DI MAIO: “IO A PALAZZO CHIGI O NON SE NE FA NULLA, ALLA LEGA MINISTERI IMPORTANTI”

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

SALVINI: “ALLORA IL PREMIER NON LO FA NESSUNO DEI DUE”

A un certo punto, lo scambio di poltrone sarà  inevitabile. Sarà  quello il momento in cui Luigi Di Maio offrirà  il suo compromesso a Matteo Salvini: «Siamo pronti a offrirgli i ministeri più importanti».
In cambio, il leader grillino vuole che venga rispettata l’unica condizione che lo vede irremovibile: «O faccio io il premier o non se ne fa nulla».
Per Di Maio è una questione di «indirizzo politico», una polizza per la sopravvivenza del Movimento nel futuro governo giallo-verde.
Ma c’è anche una questione di ambizione personale.
A differenza di Salvini, Di Maio potrebbe non avere più un’altra chance, perchè la sua carriera politica è sottoposta alla regola dei due mandati. Certo, in futuro tutto potrebbe cambiare, la regola essere cancellata, oppure limitata alle cariche elettive e non di governo. Ma per ora è un principio scolpito nelle tavole della legge grilline.
Di Maio ha capito la tattica che ha in testa Salvini. È semplice: è pronto a fare da specchio al capo politico del M5S.
Chi era che diceva che si sarebbe data priorità  al programma e non alle poltrone? Di Maio. Chi era a evocare il senso di responsabilità  di tutti i partiti per il bene degli italiani? Di Maio.
Sono le stesse argomentazioni che ora Salvini gira al grillino. Il leghista non sta facendo altro che interpretare alla lettera quello che diceva Di Maio. Ma sta facendo anche di più: ha detto di essere disposto al passo indietro («Non dirò “io il premier o morte”. Chi lo farà  è l’ultimo dei miei problemi») e ha decisamente aperto al reddito di cittadinanza, ma come «strumento per reintrodurre nel mondo del lavoro chi oggi ne è rimasto fuori».
Chi sta seguendo le trattative racconta che Salvini e Di Maio «si sentono spessissimo al telefono». In questo strano corteggiamento, il capo del Carroccio è molto più attivo: propone, parla, disegna scenari.
Domenica ad alcuni parlamentari ha detto chiaramente: «Il governo non sarà  guidato nè da me nè da Di Maio. Fidatevi, finirà  così». Salvini vuole stanare il grillino, che invece aspetta, silente, ma categorico nella sua richiesta.
Per uscire dall’angolo in cui lo sta spingendo il possibile alleato, il leader del Movimento sta studiando una contromossa: «Facciamo come in Germania – ragiona con il suo staff – Firmiamo un contratto sul programma. Il partito di maggioranza relativa nomina il premier, il partner di governo prende i ministeri più importanti». Nel governo di larghe intese di Angela Merkel, i socialdemocratici hanno conquistato Finanze, Esteri, Lavoro, Ambiente e Famiglia.
A Salvini, secondo i calcoli del M5S, farebbero gola Economia o Sviluppo economico, Interno (per la campagna sull’immigrazione), Difesa, Agricoltura e magari Trasporti, considerando l’importanza di molte infrastrutture traducibili in posti di lavoro e in consenso.
Nei piani di Di Maio non ci sarebbe spazio per alcun forzista nel governo. Perlomeno come ministro.
La speranza dei 5 Stelle è che il centrodestra si frantumi e Silvio Berlusconi, intenzionato ad avere un piede nell’esecutivo, vada all’apposizione.
In questo modo Salvini ne uscirebbe indebolito e non potrebbe rivendicare di avere il 37% della coalizione contro il 32% del M5S.
Basta vedere come Danilo Toninelli non ha mancato di sottolineare che non tutto il centrodestra ha rispettato i patti nelle votazioni sulle presidenze delle Camere. E come prontamente ha risposto l’azzurra Maria Stella Gelmini: «Noi siamo stati leali e abbiamo votato compatti Fico».
Se le alchimie funzionassero come vorrebbe il M5S, Di Maio è persuaso che Salvini avrebbe tutto il vantaggio ad accettare i ministeri di peso, nella convinzione di poter controllare il governo e lasciare ai 5 Stelle onori e soprattutto oneri che spettano a chi guida la presidenza del Consiglio.
Dovesse andare diversamente, «piuttosto torniamo al voto o all’opposizione» si ripetono tra di loro i 5 Stelle ai vertici, per darsi la carica di fronte all’ipotesi che non sia Di Maio il premier.
Il leader li conforta, rasserenato dalla fiducia che nutre per il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. I grillini percepiscono una certa freddezza del Quirinale all’idea che sia Salvini il primo a ricevere l’incarico e ad avere l’opportunità  di formare un governo.
Il leghista ha già  detto di essere pronto a lasciare spazio «a un terzo nome». Di Maio no.

(da “La Stampa”)

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“SONO DI SINISTRA E HO VOTATO M5S, TEMO DI AVER SBAGLIATO”

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

UNA LETTRICE DEL “FATTO” SCRIVE AL GIORNALE, INTERESSANTE LA RISPOSTA DI TRAVAGLIO

Oggi il Fatto Quotidiano pubblica la lettera di una lettrice, Paola P., che racconta di aver votato MoVimento 5 Stelle e di aver cominciato a pentirsi dopo l’elezione di Elisabetta Casellati al Senato con i voti dei grillini.
La lettera è interessante soprattutto per la risposta di Marco Travaglio, direttore del quotidiano:
Sono un’elettrice di sinistra (anzi, sinistra sinistra); una delle molte persone che, non trovando più appigli in una anche semi-sinistra credibile, con non pochi tormenti ha votato M5S. Li ho votati per certe loro parole d’ordine (reddito di cittadinanza, lotta agli sprechi, posizione decisamente contraria alle grandi opere inutili e a certe spese militari, riforma della Rai, moralità  nell’assegnazione delle cariche pubbliche, ecc.), anche se molti di questi temi non sono apparsi con il dovuto rilievo nella campagna elettorale. Dissento decisamente da loro (e,in particolare,da Di Maio) sui temi dell’immigrazione, a metà  fra la decisa discriminazione di Salvini e l’impostazione securitaria di Minniti (che, infatti, è apprezzato da entrambi).
Questo tema l’ho volutamente dimenticato mentre mettevo la croce sul loro simbolo. Ho apprezzato, negli ultimi due giorni, la resistenza opposta all’elezione di Romani, ma il voto a Casellati (“l’avvocato Ghedini con parrucca e gonna”, come dice Travaglio) mi è parso una vera e propria capitolazione e un’inquietante prefigurazione di altre possibili (probabili?) rinunce in nome di un incarico di governo.
Dov’è finita la strenua opposizione a Berlusconi e alle sue leggi ad personam, di cui Casellati era fra i più ostinati e scandalosi difensori? Il mio voto è andato a loro soprattutto perchè mi faceva paura la prospettiva di un patto Renzi-Berlusconi;ma un patto fra M5S, Salvini e Berlusconi non sarebbe ancora più sciagurato?
Comincio a chiedermi se i molti amici che hanno vivacemente censurato il mio voto (e che, tuttavia, votando il Pd a Bologna, hanno ingoiato la candidatura di Casini) non avessero un po’ ragione.

La risposta di Travaglio è interessante soprattutto per il finale: prima il direttore del Fatto spiega che il centrodestra avrebbe avuto da solo i numeri per portare a casa la presidenza del Senato e che l’indisponibilità  del PD a trattare avrebbe messo in difficoltà  i 5 Stelle alla Camera:
Si sono giustamente opposti al pregiudicato Romani, ma non potevano fare altrettanto con la Casellati per ragioni di opportunità  etico-politica che a quel punto sarebbero valse non solo per lei, ma per tutti gli altri candidato di centrodestra che in questi vent’anni hanno avallato e votato le leggi vergogna e difeso l’indifendibile B.. O meglio: avrebbero potuto farlo,nma in quel caso il centrodestra avrebbe eletto ugualmente il proprio presidente del Senato, e magarisi sarebbe accordato con Renzi per eleggere un renzusconiano alla Camera.
Così il primo partito sarebbe rimasto a bocca asciutta e Roberto Fico non sarebbe al vertice di Montecitorio. Se poi, come lei paventa e io ritengo ancora improbabile, il M5S dovesse trasformare la maggioranza tecnico-istituzionale nata sulle presidenze delle due Camere in una maggioranza di governo, il finale della sua lettera sarebbe perfettamente giustificato. Anzi, forse un po’minimalista.

(da agenzie)

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IL PATETICO AUTOGOL DI FICO IN AUTOBUS DIMOSTRA IL LIVELLO DI DEMAGOGIA CHE GUIDA LA POLITICA ITALIANA

Marzo 27th, 2018 Riccardo Fucile

SE VOLEVA FINIRE SUI GIORNALI IL VOLTAGABBANA FICO C’E’ RIUSCITO, MA NON NEL MODO CHE SPERAVA

Il giorno dopo di Roberto Fico sull’autobus invece che sul taxi come sua abitudine è particolarmente duro.
Il presidente della Camera ha voluto imporre il “low profile” e su Instagram ha pubblicato una serie di fotografie che lo ritraevano sul bus, dimostrando di aver cambiato abitudini rispetto alla scorsa legislatura, quando preferiva invece spostarsi in taxi avendo rendicontato zero euro per le spese dei biglietti dell’ATAC tra i 150 e i 205 euro al mese per le corse in taxi.
Del cambio di prospettiva dava conto stamattina anche Enrico Mentana, che testimoniava di non aver mai visto un eletto dei 5 Stelle “arrivare in parlamento o in stazione o all’aeroporto o in un nostro studio televisivo con un mezzo di trasporto diverso dal taxi, come peraltro la gran parte dei parlamentari degli altri partiti”.
E non era l’unico. Massimo Gramellini sul Corriere della Sera stamattina dà  il buongiorno alla terza carica dello Stato così:
Fico andrebbe lodato. E non solo perchè, nella sua posizione, chiunque altro si sottrarrebbe all’ordalia dei mezzi pubblici, ma per la rapidità  della conversione. Secondo un sito di esegeti dello scontrino, tirendiconto.it, nei cinque anni trascorsi a Roma da parlamentare semplice ha speso quasi ventimila euro in trasporti. Taxi, per lo più.
ppurato che da tre giorni i taxi lo mettono a disagio, cresce l ‘ansia per i suoi spostamenti futuri.
Se a Roma può risolvere tutto con l’Atac (auguri), per gli incontri internazionali ricorrerà  al car sharing? Voglio almeno rassicurare gli autisti della Camera che avrebbero dovuto occuparsi di lui. Riceveranno il reddito di cittadinanza.
Non solo. Anche La Stampa ha notato che Roberto Fico ha scoperto il bus da presidente dopo un anno di viaggi in taxi
Se non fosse che dietro un’immagine, anche se costruita «a prova di telecamere», ci sono spesso più letture. Una la si trova spulciando il sito «tirendiconto.it», quello ufficiale del Movimento 5 Stelle che elenca restituzioni e rendicontazione dei parlamentari e dei consiglieri regionali. Ecco, cercando il nome di Roberto Fico e limitandosi all’ultimo anno della precedente legislatura (il 2017) si scopre questo: il deputato ha speso una media di circa 200 euro al mese in taxi e circa 1,8 euro al mese in bus e metropolitana.
Poco più di un biglietto (da 1,50 euro) in trenta giorni. In un anno fanno 2845 euro per le “auto-bianche” e 22,50 per i mezzi pubblici.
Quest’ultimi sembrano una novità  o quasi per il neopresidente della Camera.
Tant’è che nel video, appena arrivato alla stazione Termini, Fico alla precisa domanda — «cosa farà  oggi?» — si lascia scappare una risposta-lapsus: «In questo momento prenderò il taxi».
Ovviamente, tutto ciò è assolutamente secondario dal punto di vista dell’esposizione mediatica alle foto e ai video mostrati sui telegiornali, che rimangono negli occhi dei cittadini-elettori. E al netto dell’hashtag #robertoficosantosubito su Twitter.
Sarà  una legislatura assai divertente.

(da “NextQuotidiano”)

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