Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
LO SDOGANAMENTO DI BOCCIA E MARCHIONNE… “IL PAESE HA BISOGNO DI STABILITA’ E DI RIFORME, DI MAIO HA DATO GARANZIE DI MODERAZIONE, SALVINI CAVALVA TEMI CHE NON CI PIACCIONO COME I DAZI E L’ANTIEUROPEISMO. SERVE UN’EUROPA FORTE CONTRO I DAZI DI TRUMP, NON SLOGAN”
Fino a qualche mese fa i 5 stelle erano considerati dalle èlite economiche italiane il rischiomaggiore, in quanto velleitari, naif e incompetenti.
L’ex presidente di Confindustria, Luca Montezemolo, nello scorso dicembre diceva chiaro e tondo in un’intervista a Qn che i grillini “sono un pericolo per l’Italia, non hanno esperienza e non hanno competenza”.
Inoltre era palese il tifo che gli industriali prima delle elezioni facevano per un governo di larghe intese, che continuasse il lavoro fatto dagli esecutivi Renzi prima e Gentiloni poi.
Oggi invece da Milano il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, fa una importante apertura di credito al Movimento, definito per la prima volta come “un partito democratico” con cui confrontarsi e di cui “non avere paura”.
Più o meno le stesse parole che usa a Ginevra il numero uno di Fca, Sergio Marchionne: “Gli M5s non mi spaventano, ne abbiamo viste di peggio”.
Che cosa è cambiato? Da dove nasce questa svolta? E dove può portare?
HuffPost ha consultato diverse fonti interne a Viale dell’Astronomia che spiegano il ragionamento che fanno in queste ore ai piani alti di Confindustria.
Innanzitutto, bisogna partire dalle tre parole chiave che vengono ripetute come un mantra: “realismo”, “stabilità ” e “governabilità “.
Cosa significano? Presto detto: il paese non può tornare nelle secche, bisogna continuare sulla strade delle riforme e della crescita, quindi lo scenario da evitare più di tutti è quello di uno stallo politico che porti a nuove elezioni fra qualche mese.
Per evitare un nuovo ricorso alle urne, però, bisogna in qualche modo far nascere un esecutivo, pur sapendo che nei fatti non sarà facile.
Prima delle elezioni il piano A per gli industriali era quello che vedeva un sostegno deciso a un eventuale governo di larghe intese, che continuasse il lavoro svolto da Gentiloni e Renzi.
È infatti un dato di fatto che la Confindustria di Boccia sia stata finora di osservanza strettamente renziana — basta ricordare come si schierò a favore del Sì al referendum — anche perchè il segretario dimissionario del Pd ha portato in dote provvedimenti fondamentali come il Jobs Act e Industria 4.0.
“Tramontata però l’ipotesi delle larghe intese — ci spiegano fonti vicine a Boccia — bisogna essere realisti, laici, e cioè fare i conti con quello che concretamente può succedere. La campagna elettorale con la sua propaganda e i suoi annunci roboanti è una cosa, la quotidianità del governo è un’altra”.
E qui viene il bello.
Perchè fra le due opzioni a oggi sul campo e cioè Salvini o Di Maio, gli industriali preferirebbero il secondo, magari alleato a un Pd che in qualche modo fosse capace di influenzarne le scelte di politica economica.
“Il problema di Salvini — ci dice una fonte di Assolombarda — sta nel fatto che cavalca due temi che non ci piacciono per niente, come i dazi e l’antieuropeismo”.
Non è un caso che sempre oggi il presidente Boccia abbia dichiarato su questi due temi usando parole che al leader leghista certamente non possono far piacere.
Da una parte infatti sostiene che “l’antieuropeismo dei partiti che hanno vinto le elezioni si deve trasformare in riformismo europeista” e dall’altra sottolinea come “serva un’Europa forte contro i dazi annunciati da Trump”.
Su questi temi invece i 5 stelle sembrano più malleabili di Salvini, hanno aperto da tempo un canale di comunicazione con la business community e negli ultimi mesi hanno cambiato le posizioni più estreme, soprattutto sull’appartenenza alla moneta unica e all’Unione europea.
“Andate a rileggere l’intervista fatta non a caso dal Sole24Ore ad Andrea Roventini, il candidato potenziale al Tesoro dei 5 stelle — ci consiglia la stessa fonte -. Non ci sono proposte eccentriche e anzi l’uscita dall’euro è categoricamente esclusa”.
E per quanto riguarda invece altre proposte su cui Confindustria non è molto d’accordo, come il reddito da cittadinanza o l’abolizione del Jobs Act e della Fornero? Anche in questo caso gli industriali battono su di un punto: bisogna vedere quanto queste promesse siano legate alla campagna elettorale e quanto possano essere concrete. “L’atteggiamento è quello di una curiosa sospensione di giudizio — ci dice un’altra fonte confindustriale -. Osserviamo i loro comportamenti, ma senza pregiudizio”.
Anche perchè la speranza confindustriale è che un ipotetico sostegno, esplicito o esterno, del Pd possa essere una buona garanzia a che le riforme dell’era Renzi-Gentiloni non vengano smontate totalmente.
Insomma, i 5 stelle e Di Maio in particolare, iniziano a essere visti come una reale opzione di governo.
Del resto fra ieri e oggi due economisti francesi di peso usi a frequentare le èlite italiane e internazionali hanno tenuto a far sapere pubblicamente come M5s sia ormai molto diverso dai partiti sovranisti, come Lega o Front National.
Ha iniziato ieri Jean Paul Fitoussi, professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, dicendo che “la Lega è populista, M5S no”.
E gli ha fatto eco oggi alla Stampa Pascal Lamy, ex commissario europeo, per due mandati direttore dell’Organizzazione mondiale per il commercio, ora presidente emerito dell’Istituto Jacques Delors guidato da Enrico Letta: “Non sono come il Front National”.
Insomma, lo sdoganamento di Di Maio e soci è ufficialmente iniziato.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
E NEL VIDEO MESSAGGIO IL CAVALIERE SI GUARDA BENE DALL’INDICARLO COME PREMIER DESIGNATO DAL CENTRODESTRA
Il paradosso è quello di una vittoria per non andare al governo.
È nel corso del vertice di Arcore che viene letta così la strategia di Matteo Salvini: “Matteo non vuole fare il governo, altrimenti non si impunterebbe sull’incarico. Lui spera che Cinque stelle e Pd riescano a fare la maggioranza per fare il leader dell’opposizione e divorare il centrodestra”. Perchè i numeri sono numeri.
Al centrodestra mancano più di quaranta deputati e più di una ventina di senatori per avere una maggioranza.
Ed è chiaro che per “allargare” non basta lo “scouting”, ma serve la politica, con le sue grandi manovre e la capacità di tessere accordi.
Attorno al tavolo c’è tutto lo stato maggiore di Forza Italia a villa San Martino, capigruppo, fedelissimi, anche Gianni Letta e Antonio Tajani.
Nel corso del brainstorming, domanda Silvio Berlusconi: “E se rompessi con Salvini?”. Qualcuno risponde: “Non ci capirebbero e non ci seguirebbero i nostri”.
È il paradosso di una vittoria che toglie, per ora, margini di manovra. E che consegna un canovaccio obbligato al Cavaliere costretto a farsi concavo e attendista.
Perchè Salvini pretende di essere indicato come premier, nelle consultazioni, onorando il patto sottoscritto in campagna elettorale. In parecchi hanno notato anche molto come si sia “istituzionalizzato”, nella postura e nella comunicazione, finita la campagna elettorale. E non è un caso neanche che questa settimana — per uno come lui è una notizia — ha ridotto le uscite pubbliche e non andrà in tv, perchè un premier in pectore, finita la campagana elettorale, concede interviste solo se ha qualcosa da dire.
Ecco. Berlusconi, che pure vorrebbe percorrere altre strade, non può dire di no perchè “non possiamo spaccare il centrodestra”.
È per questo che, almeno per ora, ha accettato l’idea di una “delegazione comune al Quirinale” dei tre partiti del centrodestra per andare alle consultazioni. Solo una delegazione, non un gruppo parlamentare unico evidentemente, ma comunque un segnale fortemente unitario. Per percorrere altre strade, in assenza di forza, ci vuole tempo perchè solo il tempo può far maturare novità .
L’auspicio dell’alleato, in questo centrodestra che resta separato in caso, è un incubo per Berlusconi che in governo Pd-Cinque stelle vede il male assoluto, politico e aziendale perchè nel programma ci sarebbe, senza dubbio il conflitto di interesse.
Ed è per questo che, in un videomessaggio, il Cavaliere non dice esplicitamente “sì a Salvini premier”: rivendica l’incarico al centrodestra senza però indicare il nome, esprime fiducia nel capo dello Stato e nella sua saggezza, assicura “risposte positive”. Tradotto, prende tempo, nella consapevolezza che magari siamo anche entrati nella Terza Repubblica ma che le regole di questo passaggio assomigliano tante a quelle della prima.
E se le larghe intese sono franate nelle urne, la soluzione, semmai ci sarà , sarà il frutto di lunghe attese.
Attese innanzitutto per quel che accade nel Pd. Le dimissioni “post-datate” non hanno tolto di mezzo Renzi che, almeno così pare, resterà segretario per tutta la durata delle consultazioni. E finchè c’è Renzi c’è speranza perchè non accetterà mai un’intesa coi Cinque Stelle.
Mentre con un candidato più moderato di Salvini a Palazzo Chigi magari si potrebbe riaprire un’interlocuzione. Qualche telefonata di sondaggio informale c’è stata, in questa fase in cui tutti si muovono al buio, anche sul Colle più alto dove ancora una schema non c’è. E deve aver capito qualcosa anche Salvini che alla sinistra si è rivolto alla sinistra non per “allargare”, costruendo un nuovo schema, ma di fatto con un prendere o lasciare: “Chi vuole sostenere questo programma lo accettiamo. Ma non faremo accordi partitici”.
È complicato, per ora, chiedere a Salvini di rinunciare a essere proposto a favore di un candidato che abbia più numeri in Parlamento, perchè questa figura al momento non c’è. E qualora ci fosse non è detto che Salvini la sosterrebbe, anzi.
È una situazione vissuta da Berlusconi come una trappola che limita il gioco e la fantasia politica. E alimenta una certa insoddisfazione complessiva che, come sempre, lo porta a cercare capri espiatori di una campagna che non ha funzionato, visti i risultati.
L’ultima idea è di affidare l’organizzazione ad Adriano Galliani, l’amministratore delegato del Milan, appena approdato a palazzo Madama col mandato di “rilanciare” Forza Italia. Chissà . È un grande classico della casa promettere le rivoluzioni, a caldo, per poi lasciare le cose come stanno, smaltiti i fumi della sconfitta.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
IL PD SI FA ANTI-RENZIANO: NO AL GOVERNO CON IL M5S, MA RENZI LASCI SUBITO … IPOTESI MARTINA PER LA REGGENZA
Processo a Matteo Renzi: potrebbe essere quello definitivo. Appuntamento per lunedì ore 15 al Nazareno: direzione nazionale del Pd. Il segretario dimissionario non dovrebbe esserci: finora è dell’idea di non partecipare, la relazione introduttiva la farà il vice, Maurizio Martina, che molti già guardano come ‘reggente transitorio’ del partito del dopo-Renzi. Già , perchè per la direzione di lunedì, minoranze e pezzi di maggioranza si stanno organizzando per chiedergli di andare via subito: dimissioni immediate.
La questione sta maturando da ieri: dalla conferenza stampa al Nazareno che ha lasciato di stucco i più nel partito. Tutti (tranne il Giglio magico, s’intende) si aspettavano che Renzi lasciasse. Come ha fatto Walter Veltroni nel 2009, come ha fatto Pierluigi Bersani nel 2013, dopo passaggi elettorali difficili.
E invece no: Renzi ha solo annunciato le dimissioni che scatteranno dopo l’insediamento del nuovo Parlamento e la formazione del governo. Motivo ufficiale: legare il Pd all’opposizione, no ad un governo con la destra o con il M5s. Finimondo.
Dal capogruppo del Senato Luigi Zanda fino al premier Paolo Gentiloni, i ministri Minniti e Finocchiaro, Franceschini. Più le aree di minoranza di Andrea Orlando e Michele Emiliano e pezzi di partito che finora erano con il segretario.
Ora sono tutti contro di lui. Non per la linea politica. Anzi: il punto, dicono, non è quello. Zanda, per dire, il capofila della reazione, dice che anche lui è contrario ad un governo con il M5s, ci mancherebbe: “Prova ne sia ogni mia dichiarazione di questi anni contro il M5s”, spiega ai suoi il capogruppo uscente. Il punto non è la linea: solo Emiliano, Francesco Boccia e Sergio Chiamparino – per ora – aprono sul dialogo con il M5s. Franceschini pure è contrario: “Mai pensato a un governo con il M5s o con la destra”, dice il ministro. Insomma, per i più, il punto non è la linea. Stavolta il punto è il leader: Renzi.
Nel Pd fervono le telefonate, i messaggi, i passaparola. Si ricostruiscono gli ultimi anni: “E’ dal 2014 che non vinciamo più le elezioni — dice una fonte del gruppone che si sta organizzando contro Renzi — Certo, non è solo colpa di Renzi ma evidentemente la sua guida non ha funzionato. Occorre prenderne atto, dare un segnale”.
E il momento è ora. Altri non ce n’è. Perchè in primavera ci sono le comunali e lasciare alla vigilia di un altro test elettorale sarebbe disdicevole.
Ma soprattutto nel Pd è partita la guerra per la gestione dei primi passi della nuova legislatura. A cominciare dalla scelta dei capigruppo. Cruciale: perchè sono loro che salgono al Colle per le consultazioni sul governo con il capo dello Stato. Insieme al leader del partito, se vuole.
Quella dei capigruppo è una partita dalla quale Renzi non vuole restare fuori. Dall’altro lato, le aree intenzionate a chiedergli di andarsene subito immaginano che, insieme ai capigruppo, al Quirinale possa salirci il reggente Martina, figura considerata meno divisiva nel Pd.
Per ora, però, al di là dei toni molto furiosi con Renzi, anche i suoi rivali interni vorrebbero evitare strappi fragorosi. Vorrebbero evitare di arrivare ad una conta in direzione lunedì: potrebbe risultare lacerante. E così figure come il ministro Graziano Delrio stanno più defilate, non si schierano con l’uno o con l’altro nel tentativo di tenere unito il gruppo dirigente.
Sono giorni delicatissimi dopo la batosta elettorale. Ne va dell’unità del partito o di quello che è rimasto.
Come Renzi, anche gli anti-Renzi passano al setaccio i gruppi dei nuovi eletti per capire quante truppe avrà il segretario che dipingono come ‘l’ultimo giapponese’.
“Non se n’è andato per garantire la linea di opposizione a un governo con il M5s. Ma questa linea si tiene da sola. Non c’è bisogno che resti: ora è solo un ingombro”, dicono, ipotizzando al massimo un governo di scopo con ‘tutti dentro’, un governo a tempo con Pd, centrodestra, M5s per rifare la legge elettorale e tornare al voto. Ma, prima, Renzi lasci la guida del Pd: subito.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
UNA MAGGIORANZA NON PUO’ PRESCINDERE DALLA PRESENZA DI UNO DEI DUE PARTITI, QUESTO DICE LA MATEMATICA
Mentre la politica è l’arte del possibile, la matematica è la scienza dell’esattezza.
Così, in attesa che intervenga la politica a riallineare (e forse sgretolare) i gruppi parlamentari usciti dal voto, per capire che maggioranza si potrà formare nel nuovo parlamento a sostegno di un governo bisogna guardare ai numeri.
E la matematica ci dà una sola certezza: o il M5s o la Lega (o entrambi naturalmente) dovranno sostenere il nuovo esecutivo.
Per farlo, bisogna capire a quale partito fanno capo i singoli eletti nei collegi uninominali, scelti con il voto di coalizione.
E se per il M5s è immediato (tutti gli uninominali sono del partito, che non era coalizzato) – anche se resta il caso degli espulsi per il caso rimborsi – e per il Pd è semplice (ai dem 21 uninominali alla Camera e 9 al Senato, a Svp 2 e 2, +Europa e Civica Popolare 2 e 1, Insieme 1 e 1), il calcolo è più complesso per il centrodestra.
Ma confrontando vincitori nei collegi con le liste di partito pubblicate prima del voto, la divisione è la seguente.
A Forza Italia 44 seggi uninominali alla Camera e 22 al Senato; alla Lega 49 e 21; a Fratelli d’Italia 13 e 9; Noi con l’Italia 4 e 6.
Questa divisione ci dà i nuovi schieramenti di Montecitorio e Palazzo Madama, divisi per partito di appartenenza
Anche se mancano ancora gli eletti all’estero (e un collegio uninominale è da definire) i nuovi equilibri sono chiari.
Intanto sappiamo già da domenica sera che nessuna delle coalizioni che si sono presentate alle urne può raggiungere la maggioranza di Camera e Senato da solo.
Il centrodestra è quello che ci va più vicino, con 260 seggi su 316 alla Camera e 135 su 161 al Senato.
Il M5s si ferma a 221 e 112, mentre il centrosinistra ne ottiene 112 e 57.
Quindi la maggioranza – al di là delle dichiarazioni di principio di queste ore – andrà trovata in un equilibrio diverso all’interno delle Camere, con i gruppi che si riallineeranno.
Ma quali sono le alternative possibili per fare una maggioranza?
Come detto la certezza è una sola: o il M5s o la Lega dovranno far parte della nuova maggioranza.
Di più: senza il M5s c’è una sola possibilità , e mette insieme tutti gli altri partiti, da Leu a Fratelli d’Italia. Un’alleanza politicamente difficile da immaginare.
Escludendola, tutte le altre possibilità includono il Movimento 5 Stelle.
Ai grillini basterebbe la Lega per fare un governo giallo-verde che avrebbe 32 seggi di maggioranza alla Camera (348 su 316 necessari) e solo 9 al Senato (170 su 161).
Ma mancano ancora i seggi esteri al conteggio e con l’apporto di Fratelli d’Italia, una maggioranza tricolore avrebbe 380 deputati e 186 senatori. Potrebbe dar vita a un governo stabile.
Se invece M5s e Lega non trovassero un accordo politico, il Pd diventerebbe necessario. Infatti nessun’altra combinazione potrebbe garantire una maggioranza.
Due le ipotesi sul campo: il M5s con il Pd (ed eventualmente i suoi compagni di centrosinistra, +Europa, Insieme, Civica Popolare, Svp più l’eletto della coalizione in Val d’Aosta al Senato) 356 deputati e 174 senatori.
Maggioranza non ampissima, che potrebbe essere aiutata da Leu con i suoi 14 deputati e 4 senatori.
L’alternativa? Governo del presidente o nuove elezioni.
(da “La Repubblica”)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
IN 24 ANNI NESSUN VINCITORE DELLE POLITICHE E’ MAI STATO RICONFERMATO AL GIRO SUCCESSIVO…A FAR LA DIFFERENZA E’ CHI SI ASTIENE PER PUNIRE IL PROPRIO SCHIERAMENTO
Mentre impazzano le analisi sul voto del 4 marzo e sui futuri scenari di governo, c’è un dato di fatto che meriterebbe di essere approfondito: nell’ultimo quarto di secolo, in Italia chi ha vinto le elezioni ha sempre perso al giro successivo.
Ossia, in 24 anni nessuno l’ha mai spuntata in due corse di seguito. 1994: vince il centrodestra di Silvio Berlusconi (che governa solo sette mesi). 1996: vince il centrosinistra di Romano Prodi (con successivo ricambio di vari governi “rossi”). 2001: vince il centrodestra di Berlusconi (che regge con qualche rimpasto fino a fine legislatura). 2006: vince il centrosinistra di Prodi (con una maggioranza risicata che dura poco). 2008: vince il centrodestra di Berlusconi (che nel 2011 si dimette aprendo la strada a Mario Monti e ai suoi tecnici). 2013: vince il centrosinistra di Bersani (per una manciata di voti: Enrico Letta fa le larghe intese, poi arriva Renzi, infine, dopo la sconfitta del referendum costituzionale, Paolo Gentiloni). 2018: il Pd e il centrosinistra vanno ai minimi termini, il centrodestra ha la maggioranza relativa dei voti (vedremo i seggi) e i 5 Stelle sono il primo partito.
E’ un caso?
O — al netto di singole responsabilità ed errori, e di ogni legislatura che fa storia a sè — governare porta male, a destra come a sinistra?
E quando si torna alle urne la voce di chi sta all’opposizione arriva agli elettori sistematicamente più forte e chiara rispetto a quella di chi ha governato? E se sì, perchè?
Difficile dare una risposta, la materia è più da politologi che da giornalisti (chi conosce buoni studi scientifici in materia li segnali pure, grazie). Quel che è certo è che per tutta la Seconda repubblica è andata così.
Così come sarebbe meritevole di analisi un secondo punto, collegato al primo: la gigantesca volatilità del voto fra un’elezione e l’altra, accentuata negli ultimi anni.
Arrotondando, nel giro di una legislatura il Pd passa dal 25% (Politiche 2013) al 40% (Europee 2014) al 18% (Politiche 2018).
Negli stessi cinque anni la Lega nord balza dal 4% (Politiche 2013) al 6% (Europee 2104) fino all’attuale 17% (Politiche 2018).
Per non dire dei 5 Stelle, che in una botta sola accelerano da zero al 25% (Politiche 2013), scendono al 21 (Europee 2014) e oggi sfondano al 32% (Politiche 2018).
Che cosa determina questi sbalzi ormonali?
E ancora, con l’eccezione dei 5 Stelle, le alterne fortune dei maggiori partiti si sovrappongono perfettamente alle parabola dei rispettivi leader: ascesa e caduta di Renzi, ascesa di Salvini e, per Forza Italia, l’ultraventennale altalena di Berlusconi.
L’estrema personalizzazione della politica, nel bene e nel male, è un terzo punto su cui riflettere.
Uno studio pre-elettorale dell’ottobre 2017 dell’Istituto Cattaneo (dall’illuminante titolo Regole incerte, elettori mobili e partiti disorientati. Quale sarà il prossimo scenario politico elettorale?, di Marco Valbruzzi e Rinaldo Vignati) sottolinea come, in generale, gli elettori che passano da un fronte all’altro sono relativamente pochi (salvo ovviamente la nascita da zero dei 5 Stelle, che inevitabilmente hanno preso da altri, più dal centrosinistra che dal centrodestra secondo il Cattaneo).
A far la differenza sono invece gli astenuti: quelli che non vanno più a votare per punire lo schieramento che avevano scelto la volta prima, quelli che invece si risvegliano dal sonno per premiare chi avevano precedentemente snobbato.
Vedremo, quando avremo le analisi dei flussi elettorali del 4 marzo (qui le prime analisi), se da questo punto di vista qualcosa è cambiato (contando che il Pd è reduce, oltretutto, dalla scissione che ha dato vita a Leu e dintorni).
Ma l’andirivieni dei delusi della politica può essere un punto di partenza per provare a spiegare il tema da cui siamo partiti.
Ora, mentre si contano i seggi e le possibili maggioranze, chi può punta legittimamente ad andare a governare.
Fino al prossimo giro di giostra.
(da “il Fatto Quotidiano“)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
HANNO VINTO SOLO IN TRE, HANNO PERSO BONAFEDE, FRACCARO, GIANNETAKIS, FIORAVANTI, BONISIOLI
Il colpo di scena di fine campagna elettorale di Luigi Di Maio è stata la presentazione della futura squadra di governo del MoVimento 5 Stelle.
Una lista di 17 ministri inviata via mail al Presidente della Repubblica. Il MoVimento 5 Stelle aveva promesso una squadra di “supercompetenti”, con molti tecnici e solo due politici di professione (ovvero Alfonso Bonafede e Riccardo Fraccaro).
Insomma una specie di governo Monti ma guidato da uno studente universitario invece che da un professore. Sono otto i ministri del futuro governo Di Maio che hanno affrontato le sfide nei collegi uninominali.
Questi tecnici “non politici” sono stati candidati all’uninominale per il MoVimento 5 Stelle diventando di fatto dei politici.
Tutti, ad eccezione di Bonafede e Fraccaro, senza il paracadute del proporzionale.
La “candidata ministra” dell’Interno Paola Giannetakis ha subito la stessa sorte del ministro dell’Interno uscente Marco Minniti. Nel collegio uninominale di Perugia la Giannetakis è arrivata terza con il 25% dei consensi. Ad aggiudicarsi il collegio è stato il candidato del centrodestra Emanuele Prisco.
Non è andata meglio per il futuro ministro della della Giustizia, Alfonso Bonafede. Candidato all’uninominale (ma con il paracadute del proporzionale) nel collegio di Firenze — Novoli — Peretola ha preso il 18,9%, arrivando terzo dopo Gabriele Toccafondi che ha vinto la sfida per il PD e la candidata del centrodestra.
Bonafede è il “futuro ministro” che ha preso la percentuale più bassa di voti rispetto ai suoi eventuali colleghi.
Anche il membro del comitato dei Probiviri e ministro per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta in pectore Riccardo Fraccaro non riesce ad espugnare il suo collegio.
Fraccaro (che come Bonafede è uno dei delegati agli enti locali del MoVimento 5 Stelle) ha preso solo il 22,97% dei consensi nel collegio di Pergine Valsugana (in Trentino-Alto Adige) ma sarà eletto grazie al listino bloccato.
Tra gli sconfitti brilla il nome dell’olimpionico Domenico Fioravanti, che era candidato a Torino ma al quale il 29% non è bastato per superare il candidato del centrodestra Roberto Rosso che si è aggiudicato l’elezione.
Forse la “vittima” più famosa dell’effetto Appendino che si è abbattuto sul M5S torinese. Resterà fuori dal Parlamento anche il ministro dei Beni Culturali Alberto Bonisioli che a Milano ha preso il 13,80% nel collegio della Camera dove ha vinto Bruno Tabacci, candidato per +Europa con Emma Bonino.
A spuntarla sono stati invece Emanuela Del Re, eletta con il 34% dei consensi alla Camera nel Collegio uninominale di Roma Primavalle e il ministro dello Sviluppo economico (nonchè consulente del M5S per le politiche economiche) Lorenzo Fioramonti che nel collegio romano di Torre Angela è risultato essere il “ministro” più votato con il 36,6%.
Last but no least il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti dell’eventuale governo Di Maio, Mauro Coltorti, che è stato eletto al Senato nel collegio di Ancona con il 33,07% delle preferenze
Assieme a loro entrerà in Parlamento la nutrita pattuglia di neo-eletti e riconfermati che sono già stati espulsi dal MoVimento 5 Stelle.
Se i supercompetenti in larga parte sono stati bocciati dalle urne coloro che sono stati cacciati hanno vinto le sfide all’uninominale.
In particolare il massone Catello Vitiello, che ha vinto la sfida all’uninominale a Castellammare di Stabia e che ha già annunciato che andrà a far parte del gruppo Misto. Anche Salvatore Caiata vincitore della sfida di Potenza dovrà far sapere da che parte starà . Non nel M5S, dal quale è stato cacciato perchè è venuto fuori che è indagati, ma lui non sembra intenzionato a voler chiedere le dimissioni ed anzi ringrazia gli oltre sessantamila elettori che lo hanno fatto approdare a Montecitorio.
Antonio Tasso candidato per il MoVimento in Puglia alla Camera ha ottenuto oltre cinquantamila voti (pari al 43,8%) ed è quindi ufficialmente eletto alla Camera dei deputati. Ma anche lui è stato cacciato per aver taciuto la notizia di una condanna passata in prescrizione.
Più complicata dal punto di vista politica la posizione di Carlo Martelli (confermato in Piemonte) e Andrea Cecconi (che ha surclassato Minniti a Pesaro).
(da “NextQuotidiano”)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
IL SINDACO DI AMATRICE: “IL CENTRODESTRA HA PERSO PER COLPA DI PARISI, HA PRESO IL 6% IN MENO DELLA SUA COALIZIONE”
“Gasparri dice che ad aprile dirà la verità ? Anche io, conservo tutti i messaggi con nomi e cognomi. Parisi ha perso per colpa sua. Nessun appoggio a Zingaretti, la lista dello Scarpone va avanti da sola. Questo è un punto di partenza, a breve mi vedrò con molti sindaci per fare un manifesto politico. In campagna elettorale non ho parlato di terremoto, ma da domani riparte il martellamento”.
Così ha parlato Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice e candidato alla presidenza della Regione Lazio su Radio Cusano Campus.
In merito alle accuse di Parisi (“Senza Pirozzi avrei stravinto”).
“Io ho un motto: nella vita o si vince o si impara —ha affermato Pirozzi-. Io vedo i dati, perchè la matematica non è un’opinione. La sommatoria dei partiti che hanno sostenuto Parisi stanno al 36,71%, se lui ha preso il 31% si faccia una domanda e si dia una risposta. Se tutti i partiti votavano per lui avrebbe vinto, a prescindere dal 5% che ho preso io”.
Gasparri a Radio Cusano Campus ha dichiarato che ad aprile dirà la verità su quanto accaduto nel Lazio e per colpa di chi ha perso il centrodestra.
“Anche io dirò come sono andate le cose —ha dichiarato Pirozzi-. Io conservo i messaggi con nome e cognome. Quindi tengano fuori Sergio Pirozzi”.
(da “Huffingtonpost”)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
CON IL PROPORZIONALE PURO, ESPRESSIONE REALE DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA, + EUROPA AVREBBE AVUTO 15 SEGGI, POTERE AL POPOLO 6 SEGGI, CASAPOUND 5 SEGGI E FORZA NUOVA 3
Almeno venticinque seggi in più al Movimento Cinque Stelle, diciotto per Forza Italia, quindici per la Lega, mentre il Pd e i partiti più piccoli ci rimettono in maniera sostanziale.
E’ l’effetto Rosatellum sulle elezioni alla Camera, se confrontato con un eventuale sistema proporzionale puro.
La legge elettorale approvata lo scorso anno e utilizzata per la prima volta il 4 marzo ha un effetto maggioritario garantito dal combinato collegi uninominali, coalizioni e soglie di sbarramento.
Effetto maggioritario di cui hanno fatto le spese soprattutto i partiti di sinistra. §
Il Pd con un proporzionale puro avrebbe avuto 115 seggi invece dei 107 che ha ottenuto (86 proporzionali e 21 maggioritari). Liberi e uguali ne ha persi 7: 21 contro i 14 ottenuti.
Il vantaggio maggiore – come sempre quando una legge applica un correttivo maggioritario – è andato al M5s: avrebbe avuto solo 201 seggi a parità di percentuale, contro i 226 che invece avrà nel nuovo Montecitorio.
È andata bene anche per Fi (86 contro i 103 avuti), Lega (107 contro 122) e Fratelli d’Italia (28 contro i 32 avuti).
Il caso di Fdi è l’unico di un partito piccolo che ha ottenuto un vantaggio, grazie all’intesa con Fi e Lega e la vittoria della coalizione in alcuni collegi maggioritari dove veniva proposto il candidato del partito di Giorgia Meloni.
Grande vantaggio da una legge proporzionale senza soglia di sbarramento lo avrebbero naturalmente i partiti più piccoli: +Europa con il suo 2,5% avrebbe avuto 15 seggi (contro 2, ottenuti nell’uninominale); Noi con l’Italia 8 seggi (contro 4, tutti grazie all’uninominale), 3 seggi a Civica Popolare e Insieme.
Va detto che senza soglia di sbarramento avrebbe fatto entrare in Parlamento anche Potere al Popolo (6 seggi), Casapound (5 seggi) e Italia agli iItaliani (3 seggi).
(da agenzie)
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Marzo 6th, 2018 Riccardo Fucile
CHI VUOLE SUICIDARSI SI SPARA UN COLPO, NON VA IN CERCA DI GENTE DA AMMAZZARE E LI SELEZIONA PURE… CONTINUA LA PROTESTA DELLA COMUNITA’ SENEGALESE, IN CENTINAIA URLANO CORI CONTRO SALVINI, SOLO L’IMAN RIESCE A RIPORTARE LA CALMA… UNA INVIATA DEL PARLAMENTO DI DAKAR RICEVUTA DALLE AUTORITA’ ITALIANE
Doveva essere soltanto un presidio sul ponte Vespucci, per radunarsi lì davanti ai fiori e ai biglietti di scuse: “Caro Idy scusa per questa fine orrenda”, “Idy perdonaci” e tulipani arancioni e rose bianche e gerbere su una sedia di formica, o attaccati alla ringhiera verde del ponte sull’Arno.
Dovevano ritrovarsi lì per un ricordo, quelli della comunità senegalese. Ma la manifestazione è stata un crescendo di tensione.
“E’ un delitto razzista” ha gridato uno e un altro: “Uccidete sempre noi”.
Idy Diene, 53 anni è morto 24 ore prima su quello stesso ponte: con cinque colpi di pistola, tre dei quali a segno, uno sparato a bruciapelo, alla testa, quando l’ambulante senegalese era già a terra.
A confessare l’assassino subito dopo essere stato bloccato e arrestato, è stato Roberto Pirrone, 65 anni, ex tipografo in pensione.
La manifestazione di oggi era iniziata da pochi minuti quando il sindaco, Dario Nardella, è stato costretto ad allontanarsi perchè contestato con insulti e spinte sia dagli stessi immigrati, sia da alcuni italiani. “Vai via, razzista”, gli hanno gridato i manifestanti. Nardella è stato anche raggiunto da uno sputo: autore del gesto un giovane italiano esponente dei centri sociali già identificato.
Poco dopo i manifestanti hanno tentato di spostarsi sui lungarni. Intanto, però, un altro gruppo formato quasi completamente da senegalesi è rimasto sul ponte: circa 200 persone hanno iniziato un’assemblea in lingua italiana dove si parla dell’omicidio di ieri e si criticava fortemente la cultura del razzismo.
Cori contro Matteo Salvini (della Lega). Tra ponte Vespucci e il lungarno Vespucci hanno partecipato centinaia di persone per la maggior parte immigrati africani.
A calmare i manifestanti la richiesta di pregare dell’imam di Firenze Izzedin Elrir.
Al suo richiamo, decine di senegalesi si sono inginocchiati e hanno iniziato la preghiera. “Ho ricordato loro che la nostra fede religiosa ci dice che quando c’è un defunto bisogna pregare Allah e non alzare la voce o, peggio ancora, usare violenza. Hanno capito. Ho anche detto che l’anima di Idy Diene viene accettata in paradiso e Allah provvederà a cancellare i suoi peccati casomai li avesse”, ha poi spiegato Elzir. L’imam ha annunciato che i funerali di Diene saranno celebrati in Senegal ma la decisio definitiva ci sarà solo quando la salma verrà restituita alla famiglia.
Tra i senegalesi di Firenze è ancora lacerante e doloroso, comprensibilmente, il ricordo di Diop Mor e Samb Modou, due immigrati uccisi da Gianluca Casseri, un attivista di CasaPound.
Una delegazione senegalese che comprende il console onorario a Firenze, Eraldo Stefani e la deputata dell’Assemblea nazionale senegalese, Mame Diarra Fam, è stata ricevuta a Palazzo Sacrati Strozzi dall’assessore regionale alla presidenza, Vittorio Bugli.
“Non vogliamo che quanto è successo sette anni fa in piazza Dalmazia e ieri sul ponte Vespucci, accada ancora. Chiediamo che tutto questo finisca, una volta per sempre”, ha detto la deputata in un italiano fluente e corretto.
Mame Fam, che indossava una fascia a strisce rossa, gialla e verde, i colori della bandiera del suo Paese, ha poi aggiunto di non credere alla casualità , quanto piuttosto alla premeditazione, ma di aver fiducia che saranno gli inquirenti italiani a fare chiarezza su questo punto.
(da agenzie)
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