Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
MACRON SA MUOVERSI A TUTELA DEGLI INTERESSI FRANCESI, DI MAIO E SALVINI SONO DEI DILETTANTI ALLO SBARAGLIO
Ore 15.30 circa del primo lunedì di settembre: a Palazzo Chigi inizia il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva. A Tripoli invece si spara.
Ma nella riunione del governo italiano non se ne parla: non una parola, riferiscono più fonti di governo.
Eppure il caos scoppiato in questi giorni in Libia tocca direttamente gli interessi italiani: quelli strategici in Africa, quelli legati ai flussi migratori.
Ed è un caos allarmante perchè di fatto potrebbe mettere fine all’esperienza di Fayez al-Serraj alla guida dell’unico governo riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto soprattutto dall’Italia.
Ma a Roma il caos libico spiazza il governo, lo ammutolisce nelle sedi deputate alle decisioni, come il primo consiglio dei ministri dopo l’estate, dove però mancano sia il premier Giuseppe Conte (in vacanza a New York) sia il vicepremier Luigi Di Maio (al tavolo sul caporalato a Foggia).
Governo spiazzato: esclude categoricamente l’intervento militare, prende fiato con la polemica politica. Contro Emmanuel Macron.
Il primo ad accusare la Francia è Matteo Salvini: lo fa da due mesi, oggi ritorna sull’argomento. “Sono molto preoccupato per la Libia. Evidentemente c’è dietro qualcuno”, dice il leader leghista dopo aver lasciato a metà la riunione del consiglio dei ministri per recarsi alla festa patronale di Santa Rosa a Viterbo.
“Nulla succede per caso. Il mio timore è che qualcuno, per motivi economici nazionali, metta a rischio la stabilità dell’intero Nord Africa e conseguentemente dell’Europa”. Qualcuno come la Francia? ”Penso a qualcuno che è andato a fare una guerra e non doveva farlo e a qualcuno che fissa delle date delle elezioni senza interpellare gli alleati, l’Onu, i libici. Le forzature, le esportazioni di democrazie e la fissazione di date elettorali a prescindere da quel che pensano i cittadini, non hanno mai portato nulla di buono”. Esclusi però “interventi militari: non servono a nulla”.
Stavolta il ministro degli Interni non è solo.
Passa qualche ora e contro Macron si scaglia pure Roberto Fico, cioè quanto ci sia di più lontano da Salvini nell’alleanza tra Lega ed M5s. “Sulla Libia sono molto preoccupato — dice il presidente della Camera ospite alla Festa del Pd a Ravenna – perchè c’è una tensione enorme ed è qualcosa di cui l’Europa si deve fare carico assolutamente. E’ un problema grave che ci ha lasciato senza dubbio la Francia”.
Dopo Fico arriva Elisabetta Trenta: bisogna “lavorare tutti nella stessa direzione, vale a dire per la cessazione delle ostilità ” in Libia, scrive il ministro della Difesa a sera su Facebook, “il presidente Fico ha ragione: la Francia, in questo senso, ha le sue responsabilità !”.
Anche Trenta esclude un “intervento militare, in risposta agli scontri che si stanno verificando: non prendo minimamente in considerazione l’argomento”.
A parte escludere (l’invio di una task force italiana in Libia è stata smentita già all’ora di pranzo con una nota ufficiale del governo), sulla Libia il governo legastellato sta a guardare.
Spiazzato da una situazione che non si aspettava. Salvini ha sempre considerato la Libia il porto sicuro dove rimandare i migranti respinti in Italia.
Adesso gli scontri di Tripoli gli tolgono argomenti. Libia porto sicuro? “Chiedetelo a Parigi”, risponde. Si può anche chiedere all’Eliseo, ma sul campo la situazione resta preoccupante e svantaggiosa per l’Italia.
In pratica, in vista delle elezioni che Macron ha fissato per il 10 dicembre, si sono rimessi in azione tutti i clan in lotta tra loro in Libia, è l’analisi dell’intelligence italiana.
Tripoli in pratica è diventata loro territorio di conquista: occupata, quartiere per quartiere, dai clan provenienti da fuori città , da Misuraca, Tobruk e gli altri centri abitati del paese.
Tutti vogliono influenzare il processo elettorale, vogliono contare, prendere il potere: come se a Tripoli non ci fosse un governo a tenere l’ordine. Come se non ci fosse al-Serraj.
Questa lotta senza quartiere ha praticamente azzerato gli ultimi due anni di lavoro diplomatico del governo al-Serraj.
In pratica è come se il suo governo non ci fosse stato. Tornati a due anni fa: prima cioè della nascita di un governo libico riconosciuto dalla comunità internazionale, un governo che facesse da contraltare al potere stabilito a Tobruk dal generale Haftar, sostenuto da Francia ed Egitto.
Insomma un vero caos per l’Italia. Non solo per la propaganda di Salvini sui ‘porti sicuri’. Gli italiani in Libia sono stati sistemati al sicuro, dicono fonti di intelligence. Tutto ciò che non era necessario, è stato portato via. Ma la decisione politica?
Il consiglio dei ministri di oggi si arena sui tabù libici, serve solo a fare una panoramica delle cose da fare dopo l’estate: dalle norme anti-corruzione di cui parla il Guardasigilli Alfonso Bonafede, al dossier Genova, di cui parla il collega delle Infrastrutture Danilo Toninelli. L’esecutivo decide di riconvocarsi entro la fine della settimana. Tripoli può attendere.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
IL PRESIDENTE DELLA CAMERA PROTAGONISTA ALLA MANIFESTAZIONE PD DI RAVENNA
Si è fermato a lungo tra gli stand della Festa dell’Unità , Roberto Fico. Tra abbracci, pacche sulle spalle, strette di mano. Un caffè bevuto in piedi. E una pausa per firmare il libro degli ospiti.
È il primo 5 Stelle – ma anche l’unico – a partecipare alla festa del Pd (Di Maio, invitato, ha dato forfait). E il feeling con i militanti democratici scatta subito. “Non partecipavo a una festa dell’Unità da 15 anni”, dice.
Visita anche lo stand dei deputati Pd che ospita l’installazione dal titolo “Tienimi le mani, non annegherai”, contro le scelte del governo sui migranti.
E poi sale sul palco, per il confronto con l’ex ministro delle Infrastrutture, Graziano Delrio, moderato dal direttore dell’Espresso Marco Damilano.
La prima risposta è sul caos in Libia: “Una situazione ereditata dalla Francia”. Ma subito passa al tema dell’immigrazione, su cui la sintonia con buona parte del popolo dem è evidente. “I profughi dovevano scendere tutti dalla Diciotti fin dal primo giorno”, dice. “E io sono intervenuto perchè accadesse”.
Insomma, una presa di distanza da Salvini, una delle tante in questi mesi. Ma precisa: “Prendo posizione oggi, lo facevo anche quando ministro dell’Interno era Marco Minniti. Perchè intervengo quando si vogliono fare accordi con la Libia, che non è un paese sicuro, visto che molti sindaci sono collegati alle milizie, che tengono in mano i centri di detenzione, che sono veri e propri business”.
Di fronte agli attacchi ricevuti da Salvini, spiega: “A me della mia difesa e di creare la polemica costantemente non frega assolutamente niente. Neanche di rispondere a Salvini. Io dico ciò che penso perchè il M5s io l’ho costruito. Conosco il mio Movimento al punto da sapere che nei limiti del contratto di governo si può muovere, ma troppo al di là non si potrà più muovere”.
Come dire, un’intesa di breve periodo da cui non ci si può aspettare troppo. E sottolinea: “Lega e 5Stelle lavorano su un contratto, non su un’alleanza. E alle europee andremo da soli”.
“Ciò che io non tollero è che sull’immigrazione si parli con la pancia e non si racconti chi sono queste persone”.
Occorre “parlare con intelligenza di queste questioni non polarizzando gli scontri, perchè altrimenti “ci vanno di mezzo solo le perIl regolamento di Dublino va modificato, ma non certo in direzione dei Paesi di Visegrad e di Orban, ma verso la divisione delle quote di migranti”.
Inoltre, “dobbiamo riuscire a costruire un altro regolamento di Dublino, con la partecipazione di tutta Europa per avere 3 punti: se arrivi in Italia, arrivi in Europa e dobbiamo farcene carico tutti; poi corridoi umanitari, hotspot dove possibile farlo per analizzare le pratiche asilo per arrivare qui con l’aereo e non per mare rischiando di morire”, sottolinea la terza carica dello Stato.sone”.
Delrio risponde a una domanda sulla consultazione fallita ad aprile, quella per provare a far nascere un governo 5Stelle-Pd. Assicura che non è stata colpa di Renzi: “Non c’erano le condizioni per un accordo, la maggior parte degli elettori di 5Stelle e Pd era contraria”. E poi, sul partito democratico: “Non abbiamo bisogno di cambiare nome”. Ma questa è un’altra storia, quella della lunga battaglia per il Congresso dem.
(da agenzie)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
UNA GIGANTESCA MACCHINA ACCHIAPPA CONSENSO: “COSTRUIAMO LA REALTA’ CREDIBILE”
Dopo la tragedia di Genova, anche coloro che hanno in antipatia Lega e M5S non possono più negare che nel governo c’è un ministero che funziona bene. L’unico che porta a casa risultati eccellenti e in tempi rapidi. Un dicastero modello che dà linfa quotidiana all’esecutivo.
Ecco: il ministero della Propaganda, seppure non ha un vero e proprio titolare, è il fiore all’occhiello del gabinetto grilloleghista, con un obiettivo prioritario: quello di accrescere il più possibile i consensi da raccogliere poi nelle urne.
In questo senso, l’ovazione pilotata ai due vicepremier ai funerali di Stato delle vittime del crollo del Ponte Morandi e le bordate di fischi contro il mite segretario del Pd Maurizio Martina segna uno spartiacque, anche politico, della Terza Repubblica appena cominciata.
La compagine governativa s’è mossa davanti alla catastrofe promettendo di colpire duramente – prima ancora che magistratura o i tecnici imbastissero un’indagine sulle cause del crollo – Autostrade per l’Italia e i Benetton (assurti a simbolo di tutte le odiate èlite che si sono ingrassate ai danni del popolo); indicando gli avversari politici (il Pd su tutti) come complici dei potenti, e dunque correi della sciagura.
Una strategia comunicativa forte, un mix di prese di posizione sensate, di forzature ipocrite e anche dichiarazioni del tutto irrazionali, che ha però efficacemente trasformato il governo, agli occhi della maggioranza degli italiani, in un “giustiziere” senza macchia e senza paura.
Un disegno mediatico collaudato durante la campagna elettorale.
Ma, al netto degli eventi genovesi, come funzionano gli ingranaggi dell’organismo pentaleghista?
Innanzitutto il Ministero della Propaganda, come tutti gli altri, ha capi, luogotenenti e sottoposti; ma è l’unico che non chiude mai i battenti. Quelli che contano davvero si contano su una mano, ma gli addetti e i collaboratori esterni sono centinaia e lavorano 24 ore su 24 senza concedersi pause. Sabati e domeniche compresi.
Anche se diviso in due direzioni teoricamente concorrenti (quella affidata agli architetti della comunicazione leghista Luca Morisi, Andrea Paganella e Ida Garibaldi; l’altra capeggiata dai grillini Pietro Dettori e Rocco Casalino), al ministero fantasma M5S e Lega lavorano per ora di comune accordo, spalla a spalla, monitor a monitor.
La strategia è basata su diversi campi d’azione.
In primis sullo sfruttamento capillare di Facebook, di Twitter, di YouTube, piattaforme conquistate con software sofisticati che moltiplicano i messaggi promozionali e monitorano minuto per minuto il “sentiment” degli utenti, in modo da capire cosa vuole la gente e cosa darle per accontentarla.
Il ministero, dunque, sforna a getto continuo campagne e video su Internet che muovano indignazione verso i nemici del “cambiamento”, oltre a tonnellate di news (vere, verosimili o fasulle poco importa) in grado di esaltare i leader.
Le tecniche di Morisi e di Dettori, potenti social manager di Lega e M5S, sono diverse, ma sulla personalizzazione del messaggio propagandistico hanno idee simili: se Salvini s’è posto fin dall’inizio come capo indiscusso del partito, da un po’ anche la Casaleggio Associati ha abbandonato “l’uno vale uno”, e investe ogni sforzo strategico su pochissimi soggetti politici.
Oltre al web, al ministero presidiano militarmente anche le televisioni: deputati e senatori della maggioranza vengono indottrinati in modo da usare, nei tg e nei talk, solo slogan semplici e comprensibili a tutti, studiati per smuovere emozioni basiche come rabbia, rivalsa, paura.
Nessun sottoposto può rilasciare dichiarazioni senza il permesso dei due “sottosegretari” in pectore del ministero, in cui imperano Rocco Casalino – portavoce di Conte e gran visir di tutta la comunicazione del Movimento, e Iva Garibaldi, la zarina di Matteo.
Loro compito è pure quello di convincere – con le buone o le cattive – conduttori e giornalisti a trattare gli ospiti spediti negli studi con il guanto di velluto, in modo da fare sempre bella figura.
Chi non sta alle regole, rischia di andare in onda senza i politici che fanno share.
I risultati del lavoro indefesso del ministero sono evidenti: lo strano governo ircocervo vive con il Paese una luna di miele senza precedenti, con sondaggi che oggi regalano ai due partiti percentuali di consenso bulgare (a metà agosto tutti gli istituti di ricerca davano a M5S e Lega circa il 65 per cento delle preferenze totali, equamente divise). Dati mostruosi, soprattutto se confrontati con l’immobilismo dell’esecutivo, che nei primi cento giorni ha fatto in verità poco o nulla di concreto.
A parte il “decreto dignità ” ed escludendo la guerra ai migranti e l’abolizione dei vitalizi (operazioni gestite sempre dal ministero della Propaganda), sfogliando il registro delle cose fatte dal gabinetto Conte ci si imbatte in pagine immacolate.
«Non siamo affatto preoccupati dall’arrivo dell’autunno e dai lavori sulla Finanziaria. Sappiamo che difficilmente potremo realizzare subito le promesse su flat tax e reddito di cittadinanza», dice un alto dirigente del ministero, sponda Salvini.
«Ma al tempo della post-verità e dei fatti alternativi (copyright Donald Trump, ndr) il principio di realtà è un paradigma sopravvalutato. La realtà è una “percezione”, un “racconto” ben fatto. Oggi noi e quelli della Casaleggio siamo quelli che costruiscono le realtà più credibili. Renzi e Berlusconi, che pure sono stati due maestri dello storytelling, sono rimasti indietro. Le loro tecniche sono antidiluviane. Non hanno nemmeno capito che ormai le campagne elettorali non finiscono mai. Se non stai sul pezzo 24 ore su 24, scompari».
Andiamo con ordine, partendo da una delle stanze più segrete del ministero virtuale.
È il regno di Luca Morisi, che se per molti è un perfetto sconosciuto, in realtà è oggi uno degli uomini più influenti d’Italia.
Insieme a uno staff di una decina di persone, è lui ad aver condotto le operazioni mediatiche che hanno portato in tre mesi Salvini dal 17 per cento dei voti al 30 per cento delle preferenze segnalato in questi giorni dai sondaggi.
Mantovano, laurea e dottorato in filosofia, 44 anni ma faccia da eterno ragazzino, Morisi è una via di mezzo tra Casaleggio e Steve Bannon, ed è la mente (o l’anima nera, secondo i critici) dietro le mosse comunicative (e dunque politiche) del capo del Carroccio.
Ex consigliere provinciale della Lega nella sua città , ideatore nel lontano 2004 di un sito che solidarizzava con il ministro Giulio Tremonti appena cacciato dal secondo governo Berlusconi, Morisi ha conosciuto Salvini tra il 2012 e il 2013, e ne ha di fatto accompagnato tutta la scalata a via Bellerio.
Morisi dal 2009 è titolare della srl Sistema Intranet, una srl che ha firmato un contratto da 170 mila euro l’anno con la Lega; in passato ha fatturato centinaia di migliaia di euro con le Asl di mezza Lombardia, secondo i malpensanti grazie alle entrature con i direttori sanitari in quota Lega.
Inizialmente s’offre a Matteo solo come esperto del web. Ma ben presto Salvini ne intuisce il talento e lo promuove a suo principale consigliere mediatico.
Oggi Luca analizza il flusso dei dati sulla rete, attraverso un sistema informatico personalizzato che lui stesso chiama «la Bestia», e imbecca il frontman del Carroccio sulla polemica o la dichiarazione che può diventare virale sui social.
È lui ad inventare il nomignolo “Il Capitano”, con cui tutti i leghisti chiamano oggi il capo, ed è sempre lui a spingerlo a mettersi felpe e a posare a torso nudo per “Oggi”, vendendo poi le foto originali su eBay.
È ancora lui a ordinare con una email, nel settembre del 2015, ai parlamentari leghisti di non fare auguri pubblici di compleanno a Bossi, grande rivale di Salvini.
Il guru è il primo a spiegare al Capitano che deve concentrare tutte le sue energie non solo in tv e sul territorio, ma soprattutto girando video da diffondere sui social.
Non solo su Twitter, il social per addetti ai lavori amato anche da Matteo Renzi, ma soprattutto su Facebook, dove gran parte degli italiani passa intere giornate guardando filmati e condividendo messaggi e informazioni.
«In cassa non c’è un euro, come facciamo con le sponsorizzazioni?», gli chiede Matteo. «Nessun problema, con “La Bestia” moltiplicheremo i tuoi contatti a dismisura spendendo poco o nulla», gli risponde Morisi.
Detto fatto: a dicembre 2014 i like di Salvini sono già 518 mila, ma in tre anni e mezzo Luca li porta a quasi 3 milioni, quintuplicandoli.
Morisi “forza” l’algoritmo di Facebook per far apparire la faccia e le ruspe di Salvini anche sulle pagine di persone che mai avrebbero visitato la sua.
Inventa concorsi come il “VinciSalvini” promettendo che con un like veloce a un post del Capitano si può vincere una foto, una telefonata o un incontro con il leader, e adesso qualcuno teme che Morisi sia riuscito a creare un enorme database di informazioni sensibili di tutti coloro che si sono iscritti al concorso.
«Nulla di illegale», spiegano dalla Lega. È un fatto che oggi nessun politico in Europa abbia un seguito social paragonabile a quello del leader leghista, che può ostentare anche un impressionante “engagement”, ossia il tasso che misura l’interazione online dei seguaci.
Su Facebook Salvini ha quasi tre milioni di fan, Di Maio è sui due milioni (ma negli ultimi sei mesi è cresciuto di ben 800 mila follower), mentre Renzi e Berlusconi sono bloccati a poco più di un milione, con tassi di crescita ridicoli: 13 mila fan in più per l’ex segretario del Pd, 23 mila per il Cavaliere di Arcore, che probabilmente avrebbe dovuto seguire prima i consigli che gli imbeccava il suo media manager, Antonio Palmieri.
Morisi però non è solo uno smanettone. Anche se lo nega con vigore, il “digital philosopher” e “social megafono”, come si autodefinisce, suggerisce a Salvini anche qual è il contenuto politico migliore da veicolare: dai cartelloni sessisti contro Alessandra Moretti alle dirette Facebook sui tetti del Parlamento, fino al cambio di colore del partito (dal “verde” padano al più moderato “blu” fregato ai presunti alleati di Forza Italia), Luca tutti i santi giorni dice a Salvini quali sono i messaggi politici che funzionano meglio.
Analizzando i video sulla pagina Fb di Salvini dal 4 marzo a oggi, con decine di milioni di visualizzazioni complessive, lo schema è ancora più chiaro.
Morisi propaganda soprattutto filmati di reati commessi dagli immigrati (da quando è ministro dell’Interno abbiamo contato oltre una decina di “video choc” su neri e clandestini, contro appena due dedicati a criminali italiani), esalta il corpo del capo (il film di Salvini che fa il bagno nella piscina della villa sequestrata ad un boss è stato visto da quasi un milione di persone, i selfie a torso nudo a Milano Marittima da oltre 1,6 milioni), ridicolizza avversari politici, come Renzi, Boldrini, finanche il disegnatore Vauro o i «radical chic buonisti di Capalbio che non portano i migranti a casa loro».
Milioni di like e visualizzazioni premiano anche fake news, come quella che due settimane fa raccontava come a Vicenza fosse scattata una protesta di alcuni richiedenti asilo arrabbiati perchè «volevano vedere Sky».
Una balla già smentita dalla prefettura, ma che la coppia Salvini-Morisi ha cavalcato ugualmente. Sperando forse di rinnovare il successo di un filmato dello scorso febbraio intitolato «Spero che questo video lo veda Renzi», in cui Salvini, tornato giornalista, affermava che alcuni immigrati avevano organizzato un picchetto davanti a un centro profughi perchè pretendevano di vedere le partite di calcio sulla tv satellitare. Il video era finito per settimane sulla homepage di YouTube.
Altri pezzi forti sono stati postati da Morisi nella giornata campale del 4 marzo, nelle ore in cui bisognava convincere gli ultimi indecisi.
Ci sono le immagini di una donna a Siena sfrattata dalla sua casa («prima gli italiani!», dice il sottopancia del video da 12 milioni di visualizzazioni; la notizia era vecchia di quattro mesi), o quelle su presunti clandestini «che buttano il cibo e distruggono il centro».
Cronache locali del lontano 2016, ma ottime per la propaganda anche due anni dopo: ad oggi contano la bellezza di 30 milioni di visualizzazioni.
Al dipartimento leghista del ministero della Propaganda i dati della “Bestia” e i modi per usare al meglio l’algoritmo di Mark Zuckerberg vengono esaminati anche dalla Garibaldi (i due vivono di alti e bassi), dal socio di una vita Paganella, da big come Giorgetti e Siri, dai ragazzi dello staff di Morisi come Andrea Zanella, Daniele Bertana e Leonardo Foa.
Quest’ultimo è il figlio di Marcello , il giornalista sovranista e putiniano che i leghisti vorrebbero senza se e senza ma come nuovo presidente Rai o, in second’ordine, come direttore di un tg. Ma alla fine della fiera è Salvini che decide la sintesi finale.
Nel piano occupato dal Minculpop grillino, invece, non sempre è il capo politico ad avere l’ultima parola. I “sottosegretari” alla Propaganda Dettori e Casalino hanno infatti un rapporto strettissimo anche con Davide Casaleggio, presidente della società omonima e dell’associazione Rousseau, la piattaforma operativa del M5S.
Figlio di Gianroberto, l’uomo che prima di tutti aveva compreso le enormi potenzialità della rete, è proprio Davide a dare l’ok definitivo alle strategie propagandistiche del “grillo magico” di Di Maio.
Dettori, unico dipendente di Rousseau, è un ragazzo schivo e silenzioso, e meno esuberante dell’ex Grande Fratello Casalino, beccato a fare spin a favore del movimento persino durante i funerali delle vittime del crollo del ponte Morandi.
Ma in realtà è Pietro l’artefice principale del successo mediatico del M5S: ha curato per anni il blog di Grillo, ha realizzato i siti moltiplicatori di notizie (e di bufale) come “La Fucina” e “Tze-Tze”, ha scritto lui stesso post non firmati che davano la linea su decisioni legate alle votazioni o alle espulsioni.
Mentre Beppe Grillo faceva il “passo di lato” aprendo un nuovo blog sganciato dai Cinque Stelle, Dettori ha costruito quasi da solo il nuovo hub del partito sui social, lavorando sugli algoritmi per diffondere il verbo attraverso decine di siti ufficiali e ufficiosi, e realizzando, dal nulla, il successo delle pagine social delle star del movimento, come quelle di Di Maio, di Di Battista, di Virginia Raggi e, più di recente, del premier Giuseppe Conte (già seguito da 800 mila persone).
Se Morisi lavora verticalmente quasi solo per i profili di Salvini, Dettori e la Casaleggio preferiscono una rete con più siti e pagine che si rimandano l’un l’altra.
Qualcuno racconta persino che sia stato proprio Dettori – dopo il gran rifiuto di Sergio Mattarella a nominare il no euro Paolo Savona come ministro dell’Economia – a suggerire ai vertici l’ipotesi da fine mondo, quella dell’avvio dell’iter di impeachment del presidente della Repubblica.
Al ministero della Propaganda giurano invece sia stato Di Maio in persona, aiutato dal fido Casalino, a realizzare l’operazione finora più fruttuosa messa in piedi dal dipartimento grillino, quella che aveva al centro la cancellazione del contratto da 150 milioni di euro per il cosiddetto “Air Force Renzi”.
Per annunciare la notizia urbi et orbi Di Maio ha deciso di girare lo spot direttamente dentro la carlinga dell’aereo da 300 posti (voluto dal vecchio esecutivo Pd per scarrozzare ministri e imprenditori nelle missioni istituzionali all’estero, il veicolo è stato sfruttato pochissimo, uno spreco evidente anche al piddino più sfegatato).
Ebbene, il video ha ottenuto in pochi giorni oltre 5 milioni e mezzo di visualizzazioni sulla pagina di Di Maio, ma – come segnala Luca Ferlaino di SocialcomItalia – «prendendo in esame tutte le pagine grilline si superano ormai i 10 milioni di spettatori. Sono numeri da finale di coppa del Mondo».
La risposta di Renzi, messa a punto insieme al social media manager del partito Alessio De Giorgi, evidenzia bene la differenza tra la capacità di fuoco dell’apparato propagandistico del governo e quello dell’opposizione: nel video, che conta su un flusso di visualizzazioni dieci volte minore rispetto a quello di Di Maio e Toninelli, il leader dem si difende assiso dietro a una scrivania, mostrando in bella vista proprio il modellino dell’Airbus: l’effetto finale è quello di un autogol, di una pilotina contro un incrociatore.
Dettori e Casalino sono anche gli uomini che hanno spinto di più per far approvare subito l’abolizione dei vitalizi dei parlamentari, festeggiata dal vicepremier con un live-Facebook seguito e applaudito da milioni di italiani.
«Noi attacchiamo i giornali per creare una contrapposizione funzionale, ma sappiamo che non contate più nulla nella formazione del consenso», concludono dalle stanze del ministero.
«Di Maio e Salvini, Dettori e Morisi, hanno capito che la gente le notizie, vere o fasulle che siano, ormai non le vuole più “leggere”, ma le vuole solo “vedere”.
In tv, certo, ma ancor di più sullo smartphone. Quanti pensano che leggeranno l’articolo che stai scrivendo? Se sei fortunato qualcuno si soffermerà sul titolo, al massimo sulle prime righe. E se metti questa mia dichiarazione alla fine del pezzo, puoi stare sicuro che non la leggerà quasi nessuno».
(da “L’Espresso”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
BATTAGLIA IN CORSO, SERRAI SEMPRE PIU’ DEBOLE… FARNESINA: “PRONTI A OGNI EVENIENZA”
Più che un caos armato, ormai è un tentativo di golpe. Obiettivo praticato: far cadere il governo guidato da Fayez al-Serraj.
La battaglia di Tripoli ha questo come posta in gioco. Il premier cerca di resistere e ha dato mandato alla milizia Forza Anti Terrorismo di Misurata, guidata dal generale Mohammed Al Zain, di entrare nella capitale per organizzare un nuovo cessate il fuoco e far terminare le violenze nella periferia sud della città .
Ma a pochi chilometri dal centro sono ripresi gli scontri.
Tripoli resta un campo di battaglia con “violenti scontri fra la 7/a Brigata e la sicurezza centrale» in corso nell’area Abu Salim: lo riferisce un tweet dell’emittente Al Ahrar citando una “fonte della sicurezza” e riferendosi alla milizia ribelle che sta attaccando Tripoli e ad una (che la sta affrontando in un zona a meno di 6 km in linea d’aria da Piazza dei Martiri, il centro della capitale libica, situato sul mare).
Il bilancio degli scontri scoppiati la scorsa settimana è di almeno 47 morti, tra cui numerosi civili, e 130 feriti. Lo ha comunicato il ministero della Sanità libico, secondo quanto riferito dai media locali.
Gli scontri sono iniziati quando la Settima Brigata, di stanza a Tarhouna (città a 60 km da Tripoli), ha attaccato alcune aree della zona sud della capitale in mano a milizie che sostengono il governo di concordia nazionale. La 7/a brigata per quasi un anno e fino all’aprile scorso era stata dipendente dal Governo di accordo nazionale (in particolare il suo ministero della Difesa) ma poi era stata sciolta come ricordato di recente dallo stesso Serraj. La milizia è guidata dai fratelli Kany (da qui l’altro nome con cui è nota: Kaniyat).
Dalla settima brigata di Tarhouna dicono di volere riconquistare Tripoli per spazzare via i miliziani di Serraj, che accusano di essere corrotti, per formare un nuovo esercito nazionale unificato.
Dicono anche di avere rifiutato il denaro offerto loro da Serraj stesso (circa 250 dollari a testa) per convincerli a ritirarsi dalla capitale. In questa fase degli scontri, stando alla fonte di Al Ahrar, acombattere la 7/a è dunque la “Forza di sicurezza centrale Abu Salim”, una milizia guidata da Abdul-Ghani Al-Kikli, detto “Ghneiwa” da cui l’altro nome della formazione.
Assieme alle Brigate Rivoluzionarie di Tripoli (Tbr, note anche come “Prima Divisione” del Ministero dell’Interno, gestite da Haitham al-Tajouri), al gruppo islamista fortemente anti-Haftar e anti-Isis detto “Nawasi” (o “Ottava Divisione”) e alle Forze Speciali Radaa (di cui è leader Abdel Raouf Kara), le Abu Salim sono uno dei quattro pilastri dell’attuale controllo del territorio a Tripoli. L’obiettivo dei miliziani — secondo il Consiglio presidenziale, altro nominativo del governo Serraj – —”è quello di interrompere il processo pacifico di transizione politica” cancellando “gli sforzi nazionali e internazionali per arrivare alla stabilizzazione del Paese”.
Approfittando dei combattimenti, almeno 400 detenuti sono evasi dal carcere nella periferia sud di Tripoli a seguito di una rivolta, ha annunciato la polizia giudiziaria. “I detenuti sono riusciti a forzare le porte e uscire” dopo “un tumulto e una rivolta” dovuti a combattimenti tra milizie rivali in prossimità del carcere di Aine Zara, secondo la polizia. Non è stato chiarito per quale genere di reati fossero in carcere i detenuti evasi.
Molti dei detenuti del carcere di Ain Zara sarebbero sostenitori dell’ex leader libico Muammar Gheddafi, condannati per le violenze durante la rivolta del 2011.
Un colpo ulteriore alla capacità di Serraj di garantire la sicurezza nel Paese è arrivato con la scomparsa di Mohamed al Haddad, comandante della Zona militare centrale. Pare sia stati sequestrato dalle milizie rivali nella sua città natale, a Misurata. Haddad era stato nominato da Serraj stesso con il compito di garantire il rispetto del cessate il fuoco tra le milizie.
In Libia ci sono due governi: uno è quello riconosciuto dall’Onu, guidato a Tripoli dal primo ministro Serraj, appoggiato Turchia e Qatar. L’altro è quello del generale Khalifa Haftar, comandante della Cirenaica, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Egitto, in modo esplicito, e “sottotraccia” ma neanche tanto dalla Francia.
Ognuno dei due governi ha una propria banca centrale e una compagnia petrolifera nazionale.
In più, nel resto del Paese imperversano centinaia di milizie armate, che si combattono per ottenere più potere e ricchezza, anche alleandosi con i trafficanti di esseri umani o sviluppando il contrabbando di armi o di petrolio.
Per resistere al golpe orchestrato da Haftar, Serraj deve pagare pegno alle milizie rimastegli fedeli, le quali hanno guadagnato nel tempo molto potere sull’esecutivo di Serraj, diventato col tempo sempre più debole.
Secondo gli analisti, in cambio della difesa del governo sostenuto dall’Onu, i miliziani fedeli avrebbero ottenuto risorse sempre maggiori, a cui ora anche le altre milizie, quelle finora escluse, puntano con forza. E Serraj non è riuscito a smobilitare le forze irregolari e a integrarle nel suo sistema di difesa e in un apparato di sicurezza, suscitando la reazione delle altre milizie che si sono coalizzate nel corso degli ultimi mesi e ora — con la scusa di ribaltare un sistema corrotto che “affama i libici” — pretendono “una fetta della torta”, in particolare derivanti dai pozzi petroliferi.
Dagli scontri di Tripoli agli appelli di Bruxelles. Un portavoce della Commissione europea è intervenuto per chiedere ” a tutte le parti in Libia di cessare immediatamente le ostilità .
Non c’è soluzione militare per la situazione nel Paese, solo politica. L’escalation della violenza sta minando una situazione che è già fragile. La violenza porterà solo altra violenza a svantaggio dei libici”. L”Onu ha convocato per domani, 4 settembre, un vertice d’emergenza sulla sicurezza a Tripoli.
Si legge in una nota: “Sulla base delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza e dell’offerta del Segretario generale delle Nazioni Unite di mediare e di rispondere alle richieste delle varie parti, compreso il governo di accordo nazionale riconosciuto a livello internazionale, Unimil (la missione di supporto delle Nazioni Unite in Libia, ndr) invita le varie parti interessate a un incontro allargato”, recita un comunicato del Palazzo di Vetro. Unsmil ha convocato per domani alle 12 “in un luogo che verrà annunciato in seguito” le varie parti coinvolte nella recente escalation di violenza a Tripoli. Nella nota diffusa da Unsmil si legge che l’obiettivo dell’incontro è quello di avviare un “dialogo urgente sull’attuale situazione della sicurezza a Tripoli”. La convocazione segue quanto scritto nelle “pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza Onu”.
La battaglia di Tripoli è seguita con particolare attenzione, e inquietudine, da Roma. Anche se l’ambasciata italiana ufficialmente resta aperta, sono stati fatti evacuare alcuni diplomatici mentre dalla Farnesina fanno sapere che “siamo pronti ad ogni evenienza”.
Restano invece sul territorio i dipendenti dell’Eni. L’azienda ha infatti dichiarato, contrariamente alle notizie circolate precedentemente, che allo stato attuale “non c’è personale espatriato presente a Tripoli e che le attività nel paese al momento procedono regolarmente”. Attraverso una nota il governo italiano “smentisce categoricamente la preparazione di un intervento da parte dei corpi speciali italiani in Libia. L’Italia continua a seguire con attenzione l’evolversi della situazione sul terreno e ha già espresso pubblicamente preoccupazione nonchè l’invito a cessare immediatamente le ostilità assieme a Stati Uniti, Francia e Regno Unito”, si legge in una nota di Palazzo Chigi.
Al di là delle bordate polemiche e dei rimpalli di responsabilità , una cosa è certa: la Libia è oggi più che mai un Paese senza guida, precipitato nel baratro di un caos armato fomentato dall’esterno. L’incubo che torna a materializzarsi è quello di una “nuova Somalia” alle porte dell’Italia. Una terra di nessuna dove a dettar legge siano milizie, tribù e signori della guerra spacciati per statisti.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
MARGELLETTI, PRESIDENTE DEL CENTRO STUDI INTERNAZIONALE: “MACRON PERSEGUE L’INTERESSE NAZIONALE”
La Francia segue un’unica regola in Libia: perseguire l’interesse nazionale, anche a costo di staccarsi dalle posizioni dei suoi alleati europei, uno su tutti l’Italia.
Anche questa è una delle cause dell’instabilità libica che si protrae, ormai, dalla caduta del regime di MuÊ¿ammar Gheddafi nel 2011, e che oggi si traduce nella nuova escalation di violenza che ha portato all’avanzata su Tripoli delle milizie ribelli della Settima Brigata, considerata vicina al generale Khalifa Haftar, appoggiato da Parigi. “La Francia, storicamente, agisce fuori dai propri confini perseguendo gli interessi nazionali, anche andando contro, come in questo caso, a quelli della coalizione di cui fa parte — spiega Andrea Margelletti, presidente del Centro Studi Internazionali — un atteggiamento più spregiudicato che l’Italia, invece, non ha mai avuto”.
“Si dice che nessun afghano sia in vendita, ma in affitto. Lo stesso vale per la Libia: dietro ai ribelli che avanzano su Tripoli ci sono gli interessi comuni dei capi della milizia e del generale della Cirenaica, anche se non è lui a manovrarli direttamente”, prosegue Margelletti.
Una situazione complessa, quella libica, che deve essere analizzata da un doppio punto di vista: interno ed esterno.
“Mentre internamente — continua l’analista — la situazione è fluida e soggetta a repentini cambiamenti, con milizie che perseguono diversi interessi e che non possono essere inserite all’interno di macro alleanze, lo scenario esterno è caratterizzato da una lotta tra diversi Paesi che cercano di portare la situazione libica dalla propria parte, per favorire i propri interessi nazionali. Fino a quando questa lotta tra Stati rimarrà equilibrata, difficilmente assisteremo a un processo di stabilizzazione della Libia”.
Il riferimento è soprattutto alla Francia del Presidente Emmanuel Macron, che sostiene, senza farne mistero, il generale Haftar, mentre la maggior parte dei Paesi europei, Italia in testa, è vicina al Presidente Sarraj voluto dalle Nazioni Unite.
“Non avere un approccio unitario sulla Libia — dice Margelletti — è una disgrazia. La Francia, storicamente, agisce fuori dai propri confini perseguendo gli interessi nazionali, anche andando contro, come in questo caso, a quelli della coalizione di cui fa parte. Un atteggiamento più spregiudicato che l’Italia, invece, non ha mai avuto. Forse sarebbe il caso di iniziare”.
In ballo ci sono interessi politici e strategici, soprattutto per l’Italia che ha nella Libia “il proprio Messico”, visto che dai porti del Paese partono la quasi totalità dei migranti diretti verso le coste siciliane, ma anche economici, legati soprattutto alle risorse naturali (petrolio, terre rare…).
Arrivare allo scontro frontale con i francesi, però, non farebbe che allungare o mettere a rischio il processo di stabilizzazione del Paese, ancora oggi in alto mare: “Dobbiamo adottare la strategia del dialogo con la Francia e raggiungere una posizione comune — insiste Margelletti — Problemi tra il governo italiano e quello transalpino? Quando gli interessi collimano, gli screzi delle settimane precedenti si annullano molto velocemente”.
Margelletti si dice anche stupito delle indiscrezioni secondo cui si starebbe valutando l’intervento di forze speciali italiane per contrastare l’avanzata dei ribelli della Settima Brigata verso Tripoli.
L’analista, che è anche l’unico membro onorario del Cofs, il Comando interforze per le operazioni delle forze speciali italiane che si occupa della pianificazione delle operazioni per tutte le Forze speciali italiane, spiega che questa eventualità è irrealizzabile e avrebbe poco senso anche da un punto di vista militare: “Ma chi ipotizza certi scenari sa come funzionano le forze speciali? — conclude — I reparti speciali si chiamano ‘incursori’. Significa, appunto, che compiono delle incursioni, delle operazioni precise, mirate e a breve termine, con un dispiegamento molto limitato: 15, 20, 30 uomini. Non si schierano gli incursori contro un esercito, seppur non regolare, che avanza verso una città ”
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
UNO STATO DI DIRITTO NON DEROGA MAI DAI SUOI PRINCIPI, NON SI USANO I CORPI DI PERSONE IN FUGA DA PAESI IN GUERRA
Gli Stati di diritto e le società civili si distinguono da quelli barbari per il fatto che accettano limiti. Accettano e si impongono l’idea che vi son cose che non si possono fare, mai, in nessuna circostanza, per nessun motivo.
Ma il governo italiano ha preteso di fare gli interessi dei cittadini usando i corpi di un centinaio di persone in fuga da paesi in guerra, per cercare di costringere altri paesi europei a farsene carico. Di fronte a quanto accade l’opinione pubblica si divide tra chi prova vergogna e chi è incapace di vergogna.
La Costituzione riconosce a tutti gli individui i diritti fondamentali e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà . Non solo le prescrizioni del diritto, ma anche l’etica fondamentale per cui gli italiani vantano la loro umanità richiede di considerare ogni essere umano come persona, da rispettare nella sua individuale dignità : non numero anonimo in una massa, ma persona.
A ciascun individuo si riferiscono i precetti di non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te (Vangelo) e di non usare le persone altrui come mezzo, anzichè come fine (Kant). La posta in gioco è grande e terribile. A venir insidiato è l’imperativo etico del soccorso a chi si trovi in pericolo.
Un’obbligazione giuridica e politica che viene prima di ogni ordinamento e di ogni norma e che è alla base dei processi di formazione delle comunità e delle organizzazioni sociali.
Secondo l’articolo 10 della Costituzione italiana, lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica. Quello straniero non può essere respinto, ancor meno con un provvedimento collettivo, verso un paese non riconosciuto dalle convenzioni internazionali come “luogo sicuro”.
Secondo il rapporto Guterres, reso pubblico dalle Nazioni Unite nel marzo del 2018, nei campi della Libia si consumerebbero quotidianamente torture, stupri, violazioni sistematiche dei diritti fondamentali della persona.
È verso questo scenario di orrore che vogliamo indirizzare i profughi che l’Italia e l’Europa dichiarano di non poter accogliere?
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
RISCHI ENORMI PER I NOSTRI INTERESSI ECONOMICI IN UNA TRIPOLI TRASFORMATA IN CAMPO DI BATTAGLIA: IN BALLO 130 MILIARDI DI EURO
Ora l’Italia rischia di finire sotto le macerie libiche. Trascinata nel baratro da un Governo, quello di Fayez al-Serraj, sempre più debole e sotto assedio in una Tripoli trasformata da giorni in un campo di battaglia, dove è stato decretato lo stato d’emergenza.
Dalla nostra ambasciata a Tripoli è iniziato il rientro di parte del personale diplomatico. La sede resta ancora aperta, ma i piani per il rimpatrio totale sono già stati predisposti, e se non sono stati ancora attuati è per evitare una fuga che assesterebbe un colpo micidiale alla nostra immagine e credibilità a livello internazionale.
Al-Serraj è sempre più all’angolo: la “cupola” di milizie che ne garantisce la sopravvivenza — formata dai “rivoluzionari” di Haithem Al Tajouri, i salafiti di Abdul Rauf Kara e dagli uomini di Abdul Ghani Al-Kikli e, appunto, Hashm Bishr — sembra incrinarsi tanto è vero che Serraj è stato costretto a richiamare a Tripoli, dopo che ne erano state scacciate nel 2014, le milizie di Zintan che nei mesi scorsi avevano stretto uno storico accordo di pace con gli arci-nemici di Misurata.
Quest’ultimi, sono corsi in aiuto del premier assediato. Tuttavia, il “ritorno” degli Zintani a Tripoli, come dei Misuratini, non poteva incontrare il favore di alcuni pezzi da novanta della cerchia del Premier riconosciuto, da qui il caos che è tornato a regnare sulla capitale.
In politica estera non c’è niente di peggio che restare in mezzo al guado. E il governo gialloverde lo ha fatto in Libia.
Da mesi, Giuseppe Perrone, l’attivissimo ambasciatore a Tripoli, aveva avvertito Roma delle crescenti difficoltà che Serraj incontrava non solo nell’allargare lo schieramento di forze — tribù e milizie — a sostegno del suo Governo, ma anche del fatto che a rafforzarsi sempre più era l’antagonista principale dell'”uomo di Roma” (Serraj): il generale Khalifa Haftar, l’ex ufficiale di Gheddafi, l’uomo forte della Cirenaica.
Forte non solo sul piano interno — con un esercito che conta oltre 40mila uomini, il sostegno del parlamento di Tobruk e di alcune tra le più radicate e potenti tribù libiche — ma anche sul piano esterno, potendo contare sull’appoggio esplicito della Francia e dell’Egitto, e di quello, meno sbandierato, ma altrettanto pesante, di Russia ed Emirati Arabi Uniti.
Nel momento, ritardato, in cui a Roma si è compreso di aver puntato sul “cavallo perdente”, si è cercato di correre ai ripari, cercando di riaccreditarsi verso Haftar e le forze che lo sostengono, attraverso la benevola intercessione del presidente-generale egiziano, Abdel Fattah al-Sisi.
Era soprattutto questo il senso politico della missione agostana al Cairo del titolare della Farnesina, Enzo Moavero-Milanesi. Troppo tardi.
Perchè, nel frattempo, al-Sisi aveva cementato il patto di azione con il suo omologo francese, Emmanuel Macron, nel ribadire che, caos o non caos, i libici dovevano andare al voto, presidenziale e legislativo, nei tempi decisi dalla Conferenza di Parigi del luglio scorso: a dicembre 2018.
Una ipotesi contro cui Roma si è apertamente schierata, come aveva ribadito esplicitamente la ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, nella sua missione lampo, a luglio, a Tripoli. In quell’occasione, la ministra aveva incontrato Serraj e gli uomini che contano nel governo di Tripoli, senza però aver modo e possibilità di interloquire con personaggi vicini ad Haftar.
Ed ora, come scritto più volte e documentato da HuffPost, l’Italia rischia seriamente di essere fatta fuori dalla “partita libica”.
Con pesanti ricadute non solo sulla questione migranti ma su terreni cruciali agli interessi nazionali: petrolio, ricostruzione e sicurezza.
Eni ricopre oggi un ruolo predominante con i suoi 320mila barili di petrolio estratti ogni giorno contro i 31mila della Total, ma i rapporti diplomatici ed economici possono mutare proprio in virtù delle alleanze che in Libia sono divise tra Italia e Francia.
Haftar controlla aree chiave per l’esportazione del petrolio, la principale ricchezza del Paese. Per sabotare la cabina di regia italiana, sottolineano a Roma, Parigi “userà ” i suoi più fedeli alleati libici, a cominciare, per l’appunto, da Haftar.
Una avvisaglia in proposito si è avuto lo scorso 8 agosto, quando il parlamento di Tobruk, saldamente in mano ai fedelissimi di Haftar, ha dichiarato l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone persona non grata, secondo quanto si legge in un documento del Comitato affari esteri pubblicato dal giornalista libico Faraj Aljarih. Nel documento si condannano “nei termini più forti” le dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatore “a un’emittente satellitare” sulle elezioni in Libia, “in cui ha chiesto con insistenza di rinviare le elezioni”, considerate una “flagrante interferenza negli affari interni della Libia, una violazione pericolosa alla sovranità nazionale e un’aggressione alla scelta del popolo libico”. §
“Un’offesa che richiede le scuse italiane”, si legge nel documento. Non basta. L’autoproclamato Esercito nazionale libico (Libyan National Army, Lna) del generale Haftar, ha avvertito il governo di Roma di “non trattare la Libia come una ex colonia”. Gli italiani, ha detto il portavoce del “feldmaresciallo” Haftar, si sono scusati in precedenza per le azioni compiute durante l’occupazione della Libia.
“Se manterranno queste scuse, allora saremo amici e avremo interessi comuni in termini di sicurezza e stabilità politica”, ha aggiunto il portavoce.
Poi l’uomo di Haftar è andato al nocciolo della questione che contrappone Haftar e Francia all’Italia: “Il ruolo italiano è apparso in competizione con quello francese: abbiamo avuto la conferenza di Parigi (tenuta il 29 maggio scorso) e ora abbiamo l’Italia che organizza una conferenza a Roma, ma non sappiamo quali fazioni saranno rappresentate. Se ci lasciassero fare da soli, risolveremmo i nostri problemi”.
Tra Italia e Francia si gioca in Libia una delicatissima partita petrolifera. La grande spartizione della Libia è un affare da almeno 130 miliardi di euro.
Una torta miliardaria che non chiama in causa solo l’Eni. Perchè in Libia, in campi diversi ma tutti strategici – a cominciare dalla ricostruzione di una rete ferroviaria ad altre infrastrutture strategiche – sono impegnate, tra le altre, Finmeccanica, Impregilo, Edison, Saipem e Unicredit…
A farsi garante del rispetto degli impegni – leggi contratti — stilati è il governo di al-Serraj e le istituzioni, bancarie e petrolifere, che da esso dipendono.
Ecco perchè se cade Serraj, per l’Italia sarebbe un guaio serio, molto serio.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
DECARO: “RISCHIO DI NUOVI SCONTRI, NON SI PUO’ CACCIARE LA GENTE VULNERABILE SENZA DARE UNA ALTERNATIVA”
“Una circolare non può cambiare una norma, e cioè il decreto legge 14 del 2017 che regola l’esecuzione degli sgomberi“.
Il presidente dell’Associazione nazionale dei comuni italiani, Antonio Decaro, in un’intervista a Repubblica critica il giro di vite del Viminale sulle occupazioni abusive.
Stando alla circolare inviata ai prefetti, gli immobili occupati vanno censiti al più presto e gli sgomberi devono essere tempestivi “rinviando alla fase successiva ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze”.
Ma “la legge — ricorda Decaro — stabilisce che nel Comitato metropolitano vada fatta la concertazione tra comuni, forze dell’ordine e regione. In quella sede si trova il piano di abitazioni alternative, soprattutto per tutelare soggetti vulnerabili, ma in generale per tutti quelli che ne hanno diritto. Adesso invece si dice che la prefettura può ordinare lo sgombero di un edificio e poi, in un secondo tempo, il comune ha il compito di trovare dove mettere chi è in condizioni di fragilità . Ancora una volta, i sindaci vengono lasciati da soli”.
Parlando all’Adnkronos, Decaro aggiunge che “si rischia che a ogni sgombero accada quello che è accaduto in via Curtatone“, a Roma.
Riferimento a quando, lo scorso anno la polizia usò gli idranti per allontanare da piazza Indipendenza i migranti fatti sloggiare da un palazzo occupato.
A temerlo è il presidente dell’Anci Antonio Decaro, dopo la circolare del Viminale ai prefetti in base alla quale gli immobili occupati vanno censiti al più presto e gli sgomberi devono essere tempestivi “rinviando alla fase successiva ogni valutazione in merito alla tutela delle altre istanze”. “Si veda cosa è successo a Roma dove lo sgombero fatto dal prefetto creò una serie di problemi”.
I sindaci si aspettano “iniziative che risolvano l’emergenza abitativa che c’è soprattutto nei grandi centri”, spiega il sindaco di Bari. “Ci sono fondi bloccati perchè Stato e Regioni si devono mettere d’accordo, ci sono case sequestrate alla criminalità che le prefetture non mettono a disposizione, ci sono fondi per ristrutturare le case confiscate ma Viminale e Agenzia per i beni confiscati non riescono sbloccarli, ci sono fondi del Pon legalità per il Meridione da usare per la riqualificazione di case sequestrate alla criminalità ma le Regioni non li mettono a disposizione. C’è un’ottima legge del 2014 che permette di avere dall’Agenzia del Demanio degli immobili per l’emergenza abitativa ma noi Comuni non abbiamo fondi per poterli ristrutturare”.
“Una circolare non può superare una norma. Se vogliono, devono fare un’altra legge o un decreto: questa è la terza circolare che riguarda i comuni nel giro di poco tempo, ci aspettiamo almeno di essere sentiti”.
Su questo tema, assicura Decaro, i sindaci sono tutti d’accordo: “Quando ci si scaricano responsabilità siamo sempre abbastanza allineati. Nell’ultimo mese ci siamo ritrovati davanti diverse responsabilità , come avere 10 giorni di tempo per fare il monitoraggio delle infrastrutture viarie o come la circolare che modifica quella precedente sugli eventi e dice che è il sindaco a decidere se un evento è rischioso o meno”.
(da “il Fatto Quotidiano”)
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Settembre 3rd, 2018 Riccardo Fucile
LA TRASFORMAZIONE DELLA TV GENERALISTA IN CANALE INFORMATIVO
Negli ambienti Mediaset, con ampollosità che appare francamente eccessiva, la chiamano “la rivoluzione totale di Retequattro”.
Ma al posto di Danton, Marat e Robespierre, la rete berlusconiana mette in campo nientemeno che Gerardo Greco (neodirettore del Tg4, un passato Rai ad Unomattina e ad Agorà ), Roberto Giacobbo (sì, quello di “Voyager-Cazzenger”, secondo la parodia di Crozza) e Piero Chiambretti, il giovane comico valdostano che si avvia però a festeggiare i 63 anni. Manca solo il ritorno di Emilio Fede.
Obiettivo della “rivoluzione copernicana”, come l’ha definita lo stesso Chiambretti nel corso della presentazione mondan-monegasca davanti al direttore di rete, Sebastiano Lombardi: trasformare la tv generalista (e cenerentola) del gruppo di Segrate in un canale prevalentemente informativo. E non è detto che non ci scappi un Pulitzer.
Sulla tavola apparecchiata a pixel saranno servite ben cinque serate in prime time. Con piatti pieni di manicaretti politici e di attualità .
L’antipasto sarà offerto in guanti bianchi dall’onnipresente ed eterna signora Barbara Palombelli in Rutelli, che ha fatto l’opinionista praticamente in tutte le emittenti possibili e immaginabili (compresi, per chi l’avesse dimenticato, l’Ottoemezzo con Ferrara su La7 e la Domenica in di Mara Vernier): sarà lei, ogni sera, a condurre una striscia d’introduzione denominata “Stasera Italia”.
Titolo cordialmente un po’ sovranista, come dettano i tempi. Rassicurante conformismo a gogò.
In effetti, a ben guardare, l’originalità non è certo il punto di forza del “new deal”. Non si può desistere dall’immediato paragone con l’esperienza di “La7”: la rete di Cairo è ormai un’ammiraglia del dibattito politico a tutte le ore.
E sta facendo breccia tra i concorrenti. Dalle parti del Biscione — e delle sue emittenti sorelle — si è capito che non si può restare con le mani in mano. Ed ecco il restyling del logo di Retequattro, che ora sembra la posologia consigliata per un medicinale generico.
Via al nuovo corso di una rete costruita apposta per la casalinga di Voghera, un tempo abbagliata dalla prestanza del cavaliere finchè non l’ha tradito con il più giovane e barbuto leader della Lega.
Un’attenzione ancora più scandagliante non può tralasciare, però, la sparizione dai palinsesti di Retequattro di due maestri del giornalismo: Paolo Del Debbio e Maurizio Belpietro.
I due intrattenitori, noti per la moderazione e l’autocontrollo, avranno forse peccato d’eccesso con la loro specializzazione — al pari di un ufficio d’igiene — nell’ispezionare baraccopoli e campi rom dando voce all’etnia indigena, nell’esplorare ghetti suburbani di ogni fattura, anfratti di segregazione e di malaffare, nell’accertare occupazioni abusive, nel fornire di microfono cittadini esasperati dal vicinato non ariano?
E se avessero esagerato con lo zelo, tirando la volata non al loro anziano datore di lavoro, nonchè ex ed aspirante premier elettorale, ma al fustigatore Matteo Salvini nel ruolo di “arrivano i nostri”?
Ecco allora che i dirigenti Mediaset, per tranquillizzare tutti, giustificano la rivoluzione come conseguenza della “fine di un ciclo”.
Del Debbio e Belpietro, alzando il livello della paura sociale tra vittime di furti e di palpeggi multirazziali, avrebbero insomma fatto il loro tempo. Sarà così? “Le scelte politiche non c’entrano” ha assicurato Berlusconi junior con la stessa sincerità che caratterizza il genitore.
E chi sarà garante della ritrovata deontologia da piccolo schermo? Chi altri se non la stessa Barbara Palombelli in Rutelli, buona per tutte le cause, da quelle di Forum a quelle dei Palazzi?
A lei è dunque affidata la prima serata. Sottotitolo “per raccontare la nuova politica”. Quella che vede eclissarsi, ahinoi, proprio l’anziano padrone di casa.
Più che “Stasera Italia”, meglio “Stanotte Italia”.
(da Globalist)
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