Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
L’EX LEGHISTA CHE A MACERATA SPARO’ ALL’IMPAZZATA CONTRO I NERI PERCHE’ “NON LI VOLEVA VEDERE” HA CAMBIATO IDEA: “SONO COME MIEI FRATELLI”
Secondo la Costituzione il carcere non serve solo a punire ma anche a rieducare e a restituire un cittadino alla sua comunità perchè le condanne “devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Speriamo – ma è solo una speranza adesso – che entrato razzista un giorno riesca a riassaporare il gusto dell’umanità e della solidarietà
E’ accusato di strage aggravata dall’odio razziale, di sei tentati omicidi, di porto abusivo d’arma e danneggiamenti, ma Luca Traini, il 29enne che sparò all’impazzata per Macerata colpendo immigrati, in carcere starebbe vivendo un periodo di ravvedimento
Come riporta Il Corriere Adriatico, infatti, l’uomo in cella avrebbe fatto amicizia con due detenuti di colore.
“All’inizio non voleva vedere nessun immigrato, poi di due racconta: ‘Uno è come mio fratello, l’altro è un simpaticone'”, si legge nella relazione dello psichiatra Massimo Picozzi, così come ripresa dal quotidiano.
Traini era presente all’udienza del processo in Corte d’assise a Macerata, dove Picozzi, nominato dai giudici, ha parlato per circa due ore, rispondendo soprattutto alle domande del difensore. “Fu un gesto organizzato compiuto da una persona capace di intendere e di volere”, ha ribadito lo psichiatra.
Nella perizia richiesta dal Tribunale e firmata dallo psichiatra Massimo Picozzi, Traini si mostra diverso dall’uomo che il 3 febbraio, in un folle raid razzista, aveva sparato a sei persone di colore per vendicare la morte di Pamela Mastropietro.
“E’ una vera e propria conversione, – sottolinea il quotidiano, – quella registrata dal perito nel corso dei tre colloqui avvenuti in carcere il 12, il 13 e il 16 giugno”.
Traini, “si è messo a nudo, ha parlato del passato, dei suoi turbamenti presenti e del sogno di sposarsi e avere un figlio, anzi una bimba”, ha riferito Picozzi.
L’esperto ha parlato per circa due ore, rispondendo soprattutto alle domande del difensore di Traini, Giancarlo Giulianelli.
Interrogando Picozzi, il legale ha fatto presente che il servizio penitenziario di Piacenza, dove Traini è stato in osservazione e cura per trenta giorni durante l’estate, ha svolto una relazione concludendo che il 29enne presenta disturbi della personalità ed è emotivamente instabile.
Una conclusione simile a quella della perizia di parte eseguita su incarico della difesa dallo psichiatra Giovanni Camerini, secondo cui l’imputato sarebbe parzialmente incapace di volere a causa di un disturbo bipolare.
Ma Giulianelli ha contestato anche il fatto che la perizia di Picozzi è stata eseguita dopo che l’imputato era stato in cura presso il carcere di Piacenza, con assistenza psichiatrica, colloqui e somministrazione di farmaci, che avrebbero avuto un effetto positivo sulla personalità di Traini, mentre la perizia di Camerini risale a subito dopo i fatti.
Il processo è stato aggiornato al 3 ottobre, quando si aprirà il dibattimento e si potrebbe andare a sentenza.
(da Globalist)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
NELL’AUTHORITY DELL’ENERGIA SISTEMATI PARLAMENTARI TROMBATI E FUNZIONARI DI PARTITO… E PURE IN CONFLITTO DI INTERESSI: VENGONO DA AZIENDE CHE ORA DOVREBBERO CONTROLLARE
Come tutelare al meglio i diritti dei cittadini-clienti delle società di servizi pubblici? Come garantire qualità e trasparenza alle famiglie e alle aziende che pagano la bolletta per ricevere energia e acqua?
Forse per tener fede alla promessa di cambiamento, il governo Cinque stelle-Lega ha appena scelto un modo senz’altro innovativo per dare una risposta a questi interrogativi.
A fine agosto si è insediato il nuovo collegio dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, in sigla Arera.
Ebbene, quattro dei cinque commissari designati dal consiglio dei ministri sono stati per anni a libro paga di società soggette al controllo della stessa Authority.
Tra loro c’è l’ex parlamentare del centrodestra Stefano Saglia, che poco prima di insediarsi nel nuovo incarico ha dato le dimissioni dal consiglio di amministrazione di Terna, gestore pubblico della rete elettrica.
Stefano Besseghini, sponsorizzato dalla Lega e Andrea Guerrini, in quota Cinque stelle, risultano invece entrambi amministratori di aziende di servizi partecipate da enti locali.
Besseghini, nominato presidente di Arera, siede nel consiglio della Ala di Magenta, provincia di Milano, mentre Guerrini è presidente dell’Asa di Livorno, città amministrata dalla giunta grillina del sindaco Filippo Nogarin.
Anche il leghista Gianni Castelli è approdato all’Authority dopo aver trascorso 15 anni sul ponte di comando del gruppo A2A, la multiutility lombarda dell’elettricità e del gas.
La quinta poltrona dell’Arera è invece andata a una dirigente della stessa Authority, Clara Poletti, gradita al Pd.
Dopo settimane di faticosi negoziati, l’intesa tra Lega e Cinque stelle è arrivata a fine luglio, quando il consiglio dei ministri e poi il Parlamento hanno dato via libera ai nomi proposti dal ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, d’intesa con il titolare dell’Ambiente, Sergio Costa.
Tra gli esperti del settore nessuno mette in dubbio la competenza professionale dei singoli componenti del collegio che si è insediato pochi giorni fa, il 30 agosto.
I dubbi riguardano piuttosto l’opportunità di delegare la regolazione del mercato a ex amministratori di società vigilate.
Anche se i membri del collegio lasceranno tutti gli incarichi aziendali, sulle loro decisioni non potrà non gravare l’ombra di un conflitto tra la loro precedente posizione e quella attuale.
La legge affida all’Arera il compito di «tutelare gli interessi dei consumatori e promuovere la concorrenza». In altre parole vanno garantite ai cittadini qualità dei servizi e tariffe eque.
Obiettivi che, a quanto pare, il governo conta di poter raggiungere consegnando l’authority a quattro professionisti che fino a poco tempo fa erano schierati, per così dire, sul fronte opposto della barricata, dalla parte delle aziende.
A ben guardare, però, non è solo una questione di opportunità .
Tre delle recenti nomine appaiono in contrasto con una norma del 2013. Il decreto legislativo numero 39 dell’8 aprile enumera i casi di “inconferibilità ” di incarichi di vertice nelle amministrazioni pubbliche, comprese le autorità indipendenti. Nell’elenco degli esclusi compaiono anche «coloro che nei due anni precedenti abbiano (…) ricoperto cariche in enti di diritto privato» regolati dall’ente che conferisce l’incarico.
A prima vista questo è proprio il caso di Besseghini, Guerrini e Saglia. Tutti e tre, quando sono stati designati dal governo come nuovi componenti del collegio di Arera, erano amministratori di aziende di servizi pubblici che devono rendere conto all’Authority.
Castelli si salva per pochi mesi: le sue dimissioni dal consiglio di Serenissima gas (gruppo A2A) risalgono a maggio 2016.
Anche quest’anno, come sempre in passato, le nomine sono state il frutto di una spartizione tra i partiti. È la prima volta però che l’Arera sperimenta un assetto che alcuni esperti del settore definiscono, ironicamente, a trazione privata.
Il collegio uscente, in carica dal 2011, era presieduto da Guido Bortoni, già direttore centrale della stessa Arera. Gli altri componenti erano a suo tempo stati scelti tra magistrati amministrativi e contabili come Rocco Colicchio e Luigi Carbone.
Oppure vantavano curriculum da economisti, con esperienze, diversi anni prima, in aziende di servizi pubblici. È il caso di Valeria Termini, consigliere della romana Acea fino al 1997, e Alberto Biancardi, all’Enel come assistente del presidente Piero Gnudi nei primi anni Duemila.
Con il governo gialloverde, però, il vento è cambiato. Arera apre le porte ai militanti di partito, anche ex parlamentari.
Castelli, per esempio, è un leghista di lungo corso. Già nel 1993 era in consiglio comunale a Milano e affiancava un giovanissimo Matteo Salvini.
Negli anni successivi sono arrivati gli incarichi in Aem, conservati anche dopo che la società della metropoli lombarda è diventata A2A in seguito alla fusione con la bresciana Asm.
Infine, nelle settimane sorse, il nome di Castelli è riemerso tra i papabili per l’Arera. In altre parole, dopo aver trascorso oltre dieci anni ai piani alti di una delle più grandi aziende energetiche nazionali, l’ex segretario milanese della Lega, classe 1950, avrà ora il compito di sorvegliarne l’attività , tutelando gli interessi dei consumatori.
Ha fatto politica tutta la vita anche Saglia, che dalla militanza giovanile nelle file dell’estrema destra è infine approdato nei giorni scorsi all’Authority delle reti. L’esordio in Parlamento risale al 2001, sui banchi di Alleanza Nazionale.
Nel 2009 arriva l’incarico di governo, come sottosegretario allo Sviluppo economico. Due anni dopo, Mario Monti sostituisce Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi e il parlamentare bresciano, passato al Popolo della Libertà , abbandona la poltrona al ministero.
Nel frattempo però Saglia si era costruito la fama dell’esperto in materia energetica e in veste di sottosegretario aveva gestito per conto del governo alcuni importanti dossier.
Tra gli altri, per esempio, la revisione della concessione con cui è stata affidata a Terna, azienda a controllo pubblico, la gestione della rete elettrica dell’alta tensione, in linguaggio tecnico la trasmissione e il dispacciamento dell’energia.
Quel provvedimento ha confermato e in parte migliorato le condizioni e le tariffe del servizio che lo Stato affida alla società , che è quotata in Borsa. Nel 2017, il bilancio del gruppo si è chiuso con profitti lordi, il cosiddetto ebitda, pari a 1,6 miliardi su 2,2 miliardi di ricavi. Una redditività altissima, il 72 per cento, paragonabile a quella di Autostrade per l’Italia di cui molto si è discusso nelle ultime settimane.
Nel 2014, meno di tre anni dopo aver concluso l’esperienza di governo, l’ex sottosegretario è entrato nel consiglio di Terna.
Adesso Saglia cambia un’altra volta casacca. Dovrà , tra l’altro, sorvegliare la società di cui è stato amministratore dal 2014 fino a pochi giorni fa. Prima ancora, nel suo ruolo di governo, Saglia rappresentava l’azionista nonchè concessionario di Terna. Tre casacche, una sola persona.
Un campionissimo delle porte girevoli.
(da “L’Espresso”)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
SMENTITO DAGLI ESPERTI, MA INTANTO SI INCREMENTA L’ODIO RAZZIALE… NEI PAESI CIVILI CHI DIFFONDE NOTIZIE FALSE CHE POSSONO CREARE ALLARME SOCIALE FINISCE IN GALERA
È un chiodo fisso, da anni, delle campagne elettorali leghiste: i migranti portano le malattie infettive.
E oggi, nei panni di ministro dell’Interno, Matteo Salvini – nel giorno in cui il premier Conte riferisce in Parlamento sul caso Diciotti – è tornato ad alimentare l’allarme con un post su Facebook.
L’ha fatto commentando le dichiarazioni del presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, sulla fuga di un immigrato malato da una struttura di accoglienza profughi a Sandrigo, in provincia di Vicenza.
“Immigrato malato e in fuga, forse inconsapevole della gravità della sua condizione. Quanti casi come questo? Purtroppo la tubercolosi è tornata a diffondersi”, scrive Salvini
Immediata la smentita della Società italiana di medicina delle migrazioni, per voce del presidente Maurizio Marceca: “Non abbiamo in Italia alcun allarme tubercolosi legato agli immigrati. Bisogna trattare questo tipo di tematiche con molto senso di responsabilità , perchè quando si parla di tbc si rischia di creare allarme, anche laddove un allarme non esiste”.
“Intervenendo con affermazioni poco scientifiche – ha aggiunto Marceca – si rischia di creare panico sociale. La popolazione deve sapere che non c’è allarme e che abbiamo tutti gli strumenti per governare il fenomeno”.
Poi arriva la rassicurazione della prefettura: “Il protocollo è stato rispettato come da normativa, quindi sotto l’aspetto sanitario non c’è nulla da temere”, dice il viceprefetto vicario di Vicenza, Lucio Parente, riferendosi al migrante.
“Allo stesso tempo – ha aggiunto Parente – abbiamo interessato tutte le forze di polizia, a cui abbiamo segnalato l’allontanamento dello straniero, che al momento risulta irreperibile e non sappiamo dove si trovi”.
“Se Salvini fosse nato a Roma il suo soprannome sarebbe ErBugia. Più che titolare del ministero dell’interno mi pare ministro delle bufale”, dice il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni di Liberi e Uguali.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
NEL 2010 SCRIVEVA SULLA RIVISTA DEGLI STUDENTI DI GIURISPRUDENZA PAROLE DI FUOCO CONTRO LE NAZIONALIZZAZIONI E A FAVORE DEL LIBERO MERCATO
Oggi che è ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio è impegnato a condurre una battaglia frontale contro flessibilità e liberismo.
Da quando è al governo Di Maio si è battuto, con il decreto dignità , a fianco dei lavoratori precari della Gig Economy. Dopo il disastro di Genova e il crollo del Ponte Morandi si è speso contro le privatizzazioni invocando la nazionalizzazione di Autostrade.
In questi giorni invece il ministro è andato all’attacco del lavoro domenicale nei centri commerciali, proponendo lo stop alle aperture dei negozi la domenica.
Qualcosa però nelle decisioni del governo e dei voltafaccia del vicepremier pentastellato (ad esempio quello clamoroso — rispetto alle promesse elettorali — sull’Ilva) dovrebbe quantomeno invitare alla prudenza tutti coloro che continuano a vedere nel MoVimento 5 Stelle un argine al capitalismo e al liberismo sfrenato.
Non solo perchè perchè il M5S, in quanto partito “post-ideologico”, ha dato prova di volere tutto e il contrario di tutto ma anche perchè il suo Capo Politico qualche anno fa la pensava in maniera diametralmente opposta sul lavoro flessibile.
Scriveva nel 2010 il giovane futuro vicepremier che “in Italia non abbiamo mai assimilato il concetto di flessibilità ”.
Un utente Twitter (@Mr_Gredy) ha scoperto che lo scriveva sulla rivista degli studenti della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli.
In quel vibrante pezzo di bravura in difesa del liberismo Di Maio definiva “amarcord” quello di Tremonti sul posto fisso.
Non male per uno che si trova oggi, ad otto anni di distanza, a guidare l’esecutivo della nostalgia. Quello che vorrebbe tornare ai gelati che c’erano quando c’era la lira, ai flipper, alla naja, alle malattie infettive prima delle vaccinazioni, e — diciamocelo — ad un’Italia più ingenua e pura (leggasi: senza immigrati tra le palle).
Quando Di Maio criticava le nazionalizzazioni
Il giovane Di Maio nel suo articolo ci va giù duro. La colpa è sempre dei vecchi partiti (il famigerato pentapartito) che hanno pur cercato «di avviare il nostro modello economico verso quello liberale». Ma mentre «creavano leggi per flessibilizzare il lavoro» non creavano le condizioni in base alle quali la nostra economia avrebbe potuto «obbedire alla prima regola del mercato liberale: domanda/offerta».
Perchè? La spiegazione del futuro ministro è semplice, la classe politica «ha continuato a “drogare” il nostro mercato con incentivi alle aziende (sedicenti) in crisi, con “la nazionalizzazione” delle aziende fallite o con la creazione di condizioni concorrenziali che avrebbero fatto rabbrividire qualunque antitrust del mondo».
Di Maio faceva anche qualche esempio delle storture.
Una su tutte? Alitalia le cui vicende il vicepremier spiegava così: «Alitalia, che in una normale economia liberale sarebbe stata acquistata dal miglior offerente (air france), invece è stata salvata con fondi statali e poi fatta sembrare “l’operazione finanziaria di una cordata di imprenditori”, che tra l’altro ha causato il licenziamento di più dipendenti di quelli previsti dal piano air france (7000 contro 3000)».
È lo stesso Di Maio che avrebbe voluto riaprire la gara sull’Ilva per cederla ad una società controllata dal Cassa Depositi e Prestiti o che tramite l’house organ del suo partito prometteva che avrebbe fatto chiudere lo stabilimento siderurgico? Sì.
È lo stesso che è al governo con Danilo Toninelli, il ministro che se ne uscì con l’idea di far tornare il 51% di Alitalia di proprietà dello Stato? È sempre lui.
Di Maio conclude il suo inno all’economia di mercato spiegando che «è stato dimostrato, anche in crisi precedenti a quella attuale, che i modelli economici più flessibili sono quelli che riescono a superare facilmente le difficoltà , proprio perchè favoriscono maggiori livelli occupazionali, e soprattutto favoriscono una vera mobilità ».
Purtroppo, concludeva sconsolato, «in Italia, la flessibilità è sempre stata solo uno slogan». Oggi invece Di Maio vuole chiudere i negozi la domenica.
Il problema ovviamente non è che il ministro abbia cambiato idea, in fondo all’epoca aveva appena 24 anni, il problema è la facilità con la quale si è posizionato sulla sponda opposta.
Otto anni fa Di Maio, già in attività con il MoVimento 5 Stelle (si era candidato alle comunali di Pomigliano D’Arco) spiegava che il privato non deve più essere serbatoio elettorale.
Due giorni fa condivideva un comunicato stampa di Eurospin a sostegno del suo progetto di vietare le aperture domenicali.
Qualcuno potrà dire che finalmente Di Maio si è accorto di cosa è meglio per gli italiani. Le malelingue invece diranno che il vicepremier è una banderuola pronta a cambiare opinione pur di andare al potere.
Il dubbio rimane: cosa pensa veramente Luigi Di Maio?
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
SULLA LETTERA DEGLI ACCATTONI RAZZISTI IL SIMBOLO DI GLADIO, TIPICO SEGNO DI APPARTENENZA AI CAZZARI STRAGISTI
“Zecca sei nel mirino”. Una scritta minacciosa e un proiettile da guerra dentro una busta indirizzata al procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio.
Questa mattina, è scattata la massima allerta al palazzo di giustizia della città dei templi, per un plico arrivato via posta. S
ulla lettera, il simbolo di Gladio, l’organizzazione paramilitare clandestina nata nel dopoguerra per contrastare un’eventuale invasione sovietica, un simbolo poi associato alla stagione dei misteri sulle stragi italiane.
“Nel mirino” c’è il magistrato che nei giorni scorsi ha avviato l’indagine sul ministro dell’Interno Matteo Salvini, per il blocco della nave Diciotti al porto di Catania. Il fascicolo è ormai al tribunale dei ministri di Palermo.
Per quella busta minacciosa sono subito intervenuti i carabinieri del comando provinciale di Agrigento e un’inchiesta è stata aperta dalla procura di Caltanissetta, competente per le indagini che riguardano i magistrati del distretto agrigentino.
Nei giorni scorsi, Patronaggio aveva già ricevuto altre minacce, soprattutto attraverso i social. Identico il riferimento, all’inchiesta “Diciotti” e all’ispezione fatta sulla nave, il 22 agosto. Quel giorno, il procuratore volle verificare di persona le condizioni dei migranti che venivano trattenute sulla nave. “Condizioni critiche”, le definì. E subito dopo il suo intervento, venne autorizzato lo sbarco dei minori. Ma il caso non era ancora risolto.
Oggi pomeriggio, si terrà un comitato per l’ordine e la sicurezza convocato dal prefetto di Agrigento Dario Caputo. All’esame, l’ipotesi di rafforzare le misure di protezione per il procuratore di Agrigento, che è comunque già scortato dagli anni Novanta, da quando a Palermo faceva parte del pool antimafia.
“Desidero esprimere solidarietà al procuratore di Agrigento per le minacce di morte che gli sono state rivolte con un metodo grave ed inquietante – dice Cosimo Ferri, componente Commissione Giustizia Camera dei Deputati – Occorre respingere con forza questi episodi che feriscono non solo il magistrato, ma le istituzioni e lo Stato. La risposta deve essere corale e deve consentire una reazione efficace anche da parte della politica”.
Interviene anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: “Un fatto gravissimo e inquietante, che riporta l’Italia indietro nel tempo a un periodo buio della Repubblica. Un fatto che per i suoi contorni non può non avere una risposta pronta e immediata da parte del presidente del Consiglio e del ministro della Giustizia, perchè è ormai evidente che le posizioni razziste e violente di una parte politica stanno inquinando i pozzi della cultura democratica e della convivenza civile in Italia, una convivenza che nel dialogo e nell’accoglienza hanno i propri capisaldi”.
Solidarietà anche dal presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava e dal gruppo parlamentare di M5S all’Ars: “Solidarietà al procuratore Patronaggio e condanna senza se e senza ma – scrivono in grillini in una nota – per ogni forma di intimidazione e violenza”.
Poi, arriva il tweet del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: “Massima solidarietà al procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, da parte di tutto il ministero per le minacce ricevute. Chiederei agli esponenti politici, almeno in questi casi, di evitare strumentalizzazioni”.
Parla anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Francesco Minisci: “Sconcerto e preoccupazione”. E poi: “Assicuriamo che l’azione dei magistrati non sarà mai condizionata da vili atti intimidatori come questo, che condanniamo con fermezza”. Il sindaco di Agrigento, Lillo Firetto, parla di “gesto da vigliacchi e irresponsabili. Sosteniamo Patronaggio”.
(da agenzie)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
LA MINACCIA, LA SMENTITA, LA TELEFONATA CON CONTE: FIBRILLAZIONI NEL GOVERNO
Più che un governo, con una sua visione d’insieme e una sua ispirazione di politica economica, pare una sorta di Yalta, con i due partner impegnati a potenziare, nella manovra, le proprie sfere di influenza e il ministro Tria impegnato a difendere i confini dei conti.
Ed è proprio questo che il titolare dell’Economia ha spiegato nel colloquio col Conte, quando ha letto una minacciosa agenzia ispirata dai Cinque Stelle, in cui gli veniva recapitato una specie di ultimatum anonimo: “O trova i dieci miliardi per il reddito di cittadinanza o via”.
Mettere in discussione i confini equivale a scatenare l’inferno sui mercati, perchè puoi anche ingaggiare un duello rusticano con l’Europa, ma poi c’è lo spread.
E come ha detto Tria a Cernobbio “è inutile cercare 2 o 3 miliardi nel bilancio dello Stato per finanziare le riforme, se ne perdiamo 3 o 4 sui mercati finanziari a causa del rialzo dello spread”.
Questo è il nodo che resta non sciolto, al netto della smentita di circostanza di Palazzo Chigi per chiudere, almeno per ora, il caso: il confine.
Ovvero quell’1,6 nel rapporto tra deficit e Pil che Tria non intende superare, consapevole che questo significherebbe “scherzare col fuoco” e far precipitare il paese in una drammatica incertezza.
E rischia di accendere il falò la richiesta arrivata a via XX settembre di superare il 2 per cento, per trovare qualche risorsa in più per coprire il reddito di cittadinanza e l’elenco di misure considerate imprescindibili da ognuno per la tenuta del proprio blocco.
E c’è un motivo se nei giorni scorsi, il pragmatico sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti ragionava con qualche collega di governo che, per come stanno andando le cose, una volta fatta la finanziaria, con tutta la fatica del caso, “è meglio tornare a votare” perchè è evidente che lo schema di Yalta mostra la sua fragilità .
Nazionalizzazioni, giustizia, opere pubbliche: è evidente che, dopo l’entusiasmo iniziale, la quotidiana fatica del governo ha mostrato come ci sia una incompatibilità sostanziale, di approccio e cultura politica, tra le due forze.
E con i sondaggi che danno il centrodestra oltre il 40 per cento la tentazione del voto, con la prospettiva di avere il “Capitano” a palazzo Chigi rischia di diventare irresistibile.
È un ragionamento che, per ora, non convince Salvini. Il quale ha spiegato al suo sottosegretario il rischio dell’operazione perchè, quando apri una crisi, sai come inizi ma non sai mai quando finisci e magari può finire che ti ritrovi un governo tra Pd e Cinque Stelle che trasformerebbe una fuga per la vittoria in una operazione da manuale del masochismo.
Sia come sia, tutto racconta di un mutamento di clima e di contesto, in cui la manovra economica, da primo atto del governo di cambiamento si è trasformata nell’inizio della campagna elettorale per le europee del prossimo maggio.
L’ansia sul reddito di cittadinanza si spiega così, e poco importa se nei fatti la misura pensata è un’altra cosa: l’effetto, come gli 80 euro per Renzi, deve essere di moltiplicatore politico più che di shock economico.
La cifra di dieci miliardi consentirebbe di allargare il cosiddetto reddito di inclusione, che attualmente copre un milione e mezzo di poveri, a oltre cinque milione di bisognosi.
Bisognosi e votanti, con le loro famiglie e i loro parenti, certamente sensibili alla riconoscenza elettorale verso una politica che comunque elargisce sussidi, anche senza creare lavoro o rilanciare l’economia.
E se per Di Maio è irrinunciabile questa misura, per Salvini “quota cento” è cruciale per parlare alla sua “sfera di influenza”, quei lavoratori con 62 anni e 32 di contributi che, in prevalenza, sono gli operai dei nord o i lavoratori del pubblico impiego.
Ecco la Yalta su cui forzare i confini di Tria.
Quelli posti finora consentono un gioco assai limitato perchè con l’1,6 nel rapporto tra deficit e Pil hai ben poco da spendere: dei 25 miliardi circa disponibili, al netto di Iva e spese indifferibili, ne restano una decina, insufficienti per andare in campagna elettorale portando risultati tangibili.
Il senso del minaccioso ultimatum recapitato al Tesoro è proprio questo: “Non decide Tria, decidono Cinque Stelle e Lega. Decidono i margini e quanto destinare a questa e quella misura”.
Il problema, più che Tria, sono però i numeri. Il professor Conte, ancora un po’ digiuno in Economia, nel corso accelerato di questa mattina ha capito il rischio: con una crescita all’1 per cento prevista per il prossimo anno, l’Europa ti può concedere mezzo punto di flessibilità rispetto a quanto previsto, dunque al massimo l’1,6-1,7, altrimenti è costretta, secondo le regole, ha spedire una bella lettera appena il cdm ha approvato la manovra in cui ricorda quale deve essere l’aggiustamento strutturale. E a quel punto l’effetto sui mercati è immediato.
Queste cose Salvini le sa bene e infatti, coerentemente con la sua nuova linea prudente in materia di politica economica, ha evitato frizioni col titolare del Tesoro.
In fondo, già incassati i suoi dividendi di consenso sull’immigrazione, ha capito da tempo che la Flat Tax non si può fare e certamente non sarà colto da crisi di panico se ci saranno pochi denari per il reddito di cittadinanza o meglio di inclusione o quello che è, vissuto dal suo blocco sociale come un “sussidio statale a chi non lavora o magari fa lavori in nero”.
Perchè la campagna elettorale è campagna elettorale. Non è solo tra il governo e il resto del mondo, ma innanzitutto tra i due partner di governo.
Soprattutto tra due partner impegnati a interpretare il ruolo dei difensori del popolo contro l’establishment e contro le elite finanziarie, nazionali e internazionali, che in questi anni lo hanno vessato.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
L’AGENZIA SVELA IL PRESSING M5S SUL TITOLARE DELL’ECONOMIA E ALLA NOTIZIA SALE GIA’ LO SPREAD
“In manovra ci aspettiamo 10 miliardi per il reddito di cittadinanza o chiederemo le dimissioni del ministro Tria”. È quanto dicono fonti qualificate del M5s all’Ansa, commentando il dibattito interno al governo in vista della legge di bilancio. Il tema tiene banco tra i parlamentari pentastellati, che sottolineano l’importanza della misura, bandiera M5s.
“Se vogliamo tutelare prima gli italiani – dichiara il vicepresidente della commissione Lavoro Davide Tripiedi – la prima cosa da fare è il reddito di cittadinanza”.
Poi arriva la smentita. “Risulta infondata la notizia secondo cui il M5s avrebbe esercitato pressioni sul ministro Tria, anche in riferimento a sue possibili dimissioni”, viene reso noto dal Movimento 5 stelle.
“Il reddito di cittadinanza deve entrare nella legge di bilancio. O c’è o c’è un grave problema per questo governo. Noi lo facciamo, agli italiani abbiamo fatto una promessa”, aveva detto il vicepremier Luigi Di Maio a Carta Bianca.
In sintesi, la manovra dovrà contenere anche il reddito di cittadinanza altrimenti si aprirà un problema per il governo.
“O c’è o c’è un grande problema per questo governo. Lo facciamo tenendo i conti in ordine, ma lo facciamo”.
Peggiora la situazione sui mercati finanziari dopo le indiscrezioni secondo cui il M5S sarebbe pronto a chiedere le dimissioni del ministro dell’Economia, Giovanni Tria, nel caso in cui non venissero destinati 10 miliardi di euro per finanziare il reddito di cittadinanza.
Piazza Affari, dopo una mattinata poco mossa, è girata in calo con il Ftse Mib che, dopo essere scivolato fino a un -0,8%, cede ora lo 0,4% mentre lo spread btp-bund, che era sceso a 247 punti dopo l’asta dei Bot, si è allargato fino a 257 punti base per poi attestarsi a 254 punti.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
L’UNICO CAFFE’ CHE DOVREMMO CONSUMARE E’ QUELLO CHE CRESCE IN ITALIA: CIOE’, NESSUNO… PIANTA AFRICANA, COLTIVAZIONI IN AMERICA LATINA, PORTATA IN EUROPA DAI MUSULMANI: SALVINI, COSA ASPETTI A CHIUDERGLI I PORTI?
“Starbucks, quella solidale anche con i chicchi di caffè, macinati tenendo conto dell’etica nella loro spremuta, e nel consumo di Co2, terra, sudore e deodoranti di chi li raccoglie, ebbene la grande catena dal caffè venduto al doppio di una tazzulella made in Italy, quella catena non ne ha azzeccata una”, scrive il vicedirettore del Giornale Nicola Porro sul suo blog.
Effettivamente da una società che aveva iniziato chiamandosi Il Giornale e spiegando ai consumatori americani che quel nome impronunciabile lo aveva scelto “in omaggio al giornale più autorevole d’Italia” non è che ci si possa aspettare un grande discernimento a proposito di cose nostrane…
Nel frattempo Diego Fusaro, filosofo dell’interrelazione tra Marx e Casa Pound, a sua volta scende in campo postando una tavolata con pane e pomodoro, ostriche al limone, mozzarella e birra Ichnusa, in nome del: “E voi andate da Starbucks a bervi il caffè cosmopolita, pecoroni! Io mangio e bevo italico, sempre”.
E qualcuno ha subito rilevato che sì, la birra Ichnusa si fa la pubblicità come icona della Sardegna, ma insomma è pur sempre nel gruppo Heineken. Sede centrale: Amsterdam.
Ma è solo un problema di birra?
“Sta storia degli americani che ci propinano i loro prodotti come se fossero le uniche cose buone al mondo deve finire! Diciamo no alla moda alimentare mondialista! Diciamo NO al pomodoro!”, ha ad esempio subito twittato Johnny Palomba: comico fantasma, ma ugualmente sferzante.
Ma possiamo fermarci al pomodoro? Sì: se oltre agli antimondialisti si vuole fare anche i neo-borbonici dovremmo giustamente concentrare il fuoco su un prodotto che è uno dei massimi ricordi della conquista piemontese del Mezzogiorno.
Credete voi che prima che il piemontese commendator Cirio si mettesse a diffondere le sue scatole di passata a partire dalle forniture per il Regio Esercito, nel Regno del Sud ci fosse questa mania di mettere il pomodoro dappertutto?
Ma a contribuire all’abbandono della nostra più antica e autentica tradizione gastronomica l’America non ha contribuito solo con i pomodori.
E le patate, allora? Sono forse menzionate le patate tra i cibi ammessi nella Bibbia? Per questo molti credenti ortodossi russi fecero resistenza quando quella nota globalizzatrice cosmopolita della zarina Caterina volle costringere i russi a coltivarle e mangiarle, allontanandoli dalle radici del vero mangiare slavo.
Si può seriamente sostenere che il minestrone sia erede della tisana dei romani, nel momento in cui qualche pecorone cosmopolita ha avuto l’idea di sostituire quell’americanata dei fagioli all’antica e verace tradizione italica delle fave.
Pitagora cosa era che vietava di mangiare: le fave o i fagioli?
C’erano fagioli alle nostre latitudini quando Enea sbarcava sulle rive del Tevere? Ancora peggio: si può seriamente sostenere che la polenta sia erede della puls dei legionari romani, dopo che quegli altri notori associati a Soros della Repubblica di Venezia hanno avuto l’altra idea di sostituire quella americanata del mais alla semola di farro della nostra italica tradizione?
Attenzione, però! Non c’è mica solo l’America.
E non è dal Medio Oriente che per prepararci all’invasione dell’Islam ci hanno invaso di kebab e cuscus? Peggio: di albicocche, ciliegie e pesche!
Quel cialtrone di Lucullo quando le riportò in Italia dalle sue spedizioni ci tenne anzi fin dal nome a ostentare che le pesche — persiche si dice ancora in tanti dialetti — le aveva prese in Persia. E le ciliegie — cerase — da Cerasunte, attuale Turchia.
Le albicocche — dall’arabo ar-barquq — sono addirittura cinesi: manco si dovessero comprare il Milan e l’Inter! Naturalmente sappiamo tutti che in Italia si usava il miele per dolcificare, e che lo zucchero a parte far venire il diabete e rovinare i denti viene dalla Nuova Guinea, e ce lo hanno portato gli arabi quando hanno conquistato la Sicilia.
Insomma, chi mette lo zucchero nel caffè mostra una chiara vocazione alla dhimmitudine, come avrebbe detto Oriana Fallaci. Anzi, e che ci importa poi se il caffè sia Starbucks o Segafredo!
L’unico caffè che dovremmo consumare è quello che cresce in Italia. Cioè, nessuno. Pianta africana, dalla regione etiopica di Caffa, coltivata oggi tra America Latina e Sud-Est asiatico, portata a sua volta in Europa dai musulmani: Salvini, che aspetti a chiudergli i porti?
E che vogliamo dire poi della mozzarella? Le bufale: immigrate clandestine dall’Asia al seguito di scafisti longobardi. Insulto alla genuina tradizione italica!
Ma a voi risulta che i personaggi omerici mangiassero polli? Porchetta, rigorosamente. O i buoi del Sole Iperione. Certo, poi il Sole Iperione un po’ si incazzò, con i marinai di Ulisse. Ma mai come si incazzò Catone il Censore quando vide che i legionari romani di ritorno dalla Grecia agli ordini di quel cosmopolita di Scipione si erano messi a condire l’insalata con l’olio? Ma vi rendete conto? Perchè cavolo i romani l’insalata la chiamavano acetaria? Appunto perchè si condiva rigorosamente con l’aceto!
L’olio di oliva da che mondo e mondo si era usato sulla pelle per proteggere dal sole e dalle zanzare! Giusto ai greculi poteva venire l’idea di mangiarlo, con tutti i grassi che contiene!
Ecco, avete finito da dove inizia la piaga del junk food? Aveva ragione Cicerone che quando vide l’olio nell’acetaria iniziò a gridare “O tempora o mores!”.
Meno male per lui che è morto e non deve vedere quel cosmopolita di Fusaro mettere sul pane quell’americanata del pomodoro e quella grecata dell’olio di oliva! Veramente, o tempora o mores!
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 12th, 2018 Riccardo Fucile
VENTIMIGLIA, LA TITOLARE DEL LOCALE HA RICEVUTO ANCHE SPUTI DALLA FOGNA DI “PERSONE “PERBENE” MA NON DESISTE: “ENTRAVANO BAMBINI CON LE INFRADITO IN PIENO INVERNO E LA PANCIA VUOTA, CHE AVREI DOVUTO FARE?”
A Ventimiglia, in via Hanbury, l’ultimo presidio di umanità in questa zona di confine ha l’insegna bianca e ordinaria di un locale che si presenta come tanti altri.
Ma al bar Hobbit, dedicato al romanzo dello scrittore che sentenziò “Non tutti quelli che vagano si sono persi”, i migranti che provano a lasciare l’Italia, almeno per qualche giorno, non si perdono davvero.
A prendersi cura di loro c’è Delia Buonuomo, quasi sessanta anni, proprietaria del bar da oltre quindici, che provvede a loro come può. E che, visto il boicottaggio degli abitanti del posto, lotta contro la chiusura.
Da anni Delia prepara un piatto caldo per chi non mangia da giorni, mette a disposizione la corrente del negozio per ricaricare i telefoni e permettere ai migranti di parlare con le proprie famiglie, offre caramelle e patatine ai migranti più piccoli.
E poco importa se la popolazione di Ventimiglia ha disertato il bar, se per strada la minacciano o le sputano addosso, se di notte hanno provato a bloccare le porte del locale per boicottare l’attività .
Questa instancabile signora con il grembiule addosso non ha girato le spalle “a chi chiede un piatto di pasta o a chi crepa di freddo. Umanamente non è possibile, come mamma, come nonna – ricorda – e perchè, prima di tutto, il bar è un pubblico esercizio, dove ha diritto ad entrare chiunque”.
Qui i panini con il tonno al pomodoro hanno sostituito da tempo quelli con il prosciutto, non si servono più cocktail e alcolici ma pacchi di biscotti a un euro, perchè “costano quanto un espresso ma riempiono meglio la pancia”, e si distribuiscono giochi e pannolini.
La sua battaglia di civiltà inizia tre anni fa, quando la piccola comunità di Ventimiglia rimane coinvolta nei flussi di transitanti che dall’Italia cercano di raggiungere il resto dell’Europa: “Certo che mille persone al giorno creavano scompiglio, sono persone con esigenze fisiche, quello che i cittadini non capivano è che la colpa non è loro, ma di come l’emergenza viene gestita. Se chiudono le fontane per non permettergli di lavarsi, se i bagni pubblici sono a pagamento, se i bidoni della spazzatura sono pochi, e non bastano già per noi abitanti, il disagio è dietro l’angolo”.
Aperto quindici anni fa, il bar Hobbit offriva caffè e brioche agli abitanti della zona che lavoravano e ruotavano attorno alla stazione.
Poi, più di tre anni fa, il piccolo centro cittadino diventa zona di passaggio per oltre mille persone al giorno: Delia non chiude le porte e diventa presto un punto di riferimento per tutti i transitanti
“Entravano adulti e bambini con le infradito d’inverno e la pancia vuota da giorni” ricorda la proprietaria.
Da quel momento alla parlata ventimigliese si accavalla quella tigrina, araba, inglese. Le mattine non si passano più davanti a un cappuccino a leggere il giornale locale, ma a compilare documenti, bonifici alla posta per rinnovare il permesso di soggiorno, a ricaricare i telefoni per avvisare le famiglie e a imparare le prime parole in italiano.
“L’assistenza che viene data dalla Caritas noi qui la diamo privatamente. Ventimiglia si è spaccata tra chi vuole aiutare i migranti e chi come Salvini vorrebbe affogarli”, racconta Delia. “Da quando abbiamo aperto le porte ai migranti gli abitanti di Ventimiglia nel mio bar non ci hanno messo più piede. Ho ricevuto minacce, mi hanno sputato addosso, di notte hanno bloccato le porte del bar. Ho dovuto installare le telecamere di sorveglianza per non essere più disturbata. Ma una delle due porte ancora non funziona, i pezzi di ricambio costavano troppo”.
E con la fine dell’estate la situazione del bar si fa ancora più precaria: molti dei giovani attivisti di associazioni come Penelope e 20k, che sostengono le attività del locale consumando quello che i cittadini di Ventimiglia si rifiutano ormai di ordinare, sono universitari e con l’arrivo dell’autunno sono costretti ad allontanarsi dalla città . Per Delia il bar non può chiudere, ma andare economicamente avanti è sempre difficile e il prezzo emotivo è alto.
“Ho visto uomini e donne piangere perchè hanno perso la moglie o il marito in mare. Ieri una donna nigeriana è entrata con una bambina piccola, non mangiavano da due giorni. Tutto questo dolore lo subisci indirettamente, all’epoca non ero preparata, ora mi sento provata e stanca” confessa.
“Ma quando i ricordi brutti sono tanti, e quelli belli pochi, basta ricevere una chiamata da chi ce l’ha fatta ad arrivare a destinazione e a ricongiungersi con la propria famiglia, e vuole ringraziarti per l’ospitalità , che tutta la stanchezza sparisce”.
(da “La Stampa”)
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