Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
UN DECRETO IMMIGRATI RAZZISTA E INCOSTITUZIONALE CHE MATTARELLA POTREBBE NON FIRMARE… LO SCONCIO SCAMBIO CON IL M5S SUL REDDITO DI CITTADINANZA
Più che la classica “perplessità ” su questo o quel codicillo è lo spettro di una “crisi istituzionale” che si materializza al Colle attorno al decreto migranti.
Perchè tutti gli elementi portano alla conclusione che Salvini, proprio sul decreto, sta costruendo il contesto per una forzatura .
Ha concesso qualche limatura, solo formale, su alcuni punti senza però mettere in discussione l’impianto complessivo. E al Quirinale non si esclude che Mattarella possa non firmarlo, come nelle sue prerogative, qualora dovessero rimanere evidenti profili di incostituzionalità .
A quel punto si scatenerebbe l’inferno, con la presidenza della Repubblica trasformata nel grande bersaglio della crociata securitaria del ministro dell’Interno.
La forzatura è già nella scelta del “decreto” e non del disegno di legge, in nome della necessità e urgenza che non si capisce dove siano.
E non si capisce perchè, sulla stessa materia, non sia stata scelta la strada di un disegno di legge.
E c’è un dettaglio che ha fatto scattare il warning nelle istituzioni più alte. E riguarda la “bozza” in discussione. Da che mondo è mondo è sempre accaduto che gli uffici del Viminale la mandavano al Quirinale, anche per un confronto preventivo. Stavolta è arrivata solo alla fine, dopo che già al Colle era stata mandata da altri uffici e non dal Viminale.
Il dettaglio racconta di una scelta di drammatizzazione da parte del leader della Lega. L’ipotesi che il capo dello Stato possa non firmare è tutt’altro che remota, anche se il testo è cambiato in queste ore.
Ma su dettagli . E si presta a diversi rilievi di costituzionalità su parecchi punti: la revoca della cittadinanza italiana concessa agli stranieri per reati sempre più numerosi, la sospensione del processo di cittadinanza in casi fissati dal decreto, la restrizione dei permessi umanitari.
Questioni su cui magari la formulazione giuridica è stata resa più accettabile ma che, nel loro impianto, rischiano di entrare in collisione con i principi costituzionali.
Chi è di casa al Colle racconta di una preoccupazione aumentata dal fatto che i Cinque Stelle non stanno svolgendo un ruolo di argine.
Come non hanno esercitato questo ruolo sulla presidenza della Rai, con la forzatura di Marcello Foa che rappresenta anche uno schiaffo a Mattarella. Le appassionate crociate sovraniste, gli attacchi a Mattarella sul caso Savona, gli interventi, come commentatore esperto, su Russia Today, il canale satellitare russo che fa parte delle reti finanziate dal Cremlino: quel nome rappresenta l’ennesimo tassello, ultra-politico, di un mai dismesso “piano B”, la cui essenza è una diversa collocazione politica del paese, nei suoi riferimenti culturali e internazionali.
Fiumi di inchiostro sono stati versati — prima, durante e dopo il voto — su quanto al Quirinale, secondo una logica inclusiva e morotea, si puntasse su un processo di “costituzionalizzazione” dei Cinque stelle, secondo l’antica logica “evolutiva” per cui l’attraversamento delle istituzioni fa maturare nuove consapevolezze e una nuova cultura. Invece sta accadendo l’opposto.
Non l’evoluzione del primo partito della coalizione che tempera la Lega, ma l’egemonia del salvinismo che sta facendo scoppiare le contraddizioni dentro il Movimento, con l’insofferenza dell’ala, diciamo così, più di “sinistra” di Fico.
L’argine politico non c’è. E il decreto migranti ne è l’ennesima prova.
Quello che invece è in atto è il più classico degli scambi, con la manovra come contropartita. Do ut des, nella carne viva dei valori.
Come sulla Rai, con Di Maio che incassa la poltrona del Tg1 in cambio della presidenza a Foa.
Stavolta lo scambio è sulla manovra. Salvini è pronto ad allargare le concessioni sul “reddito di cittadinanza” in cambio del sostegno al decreto che gli consegna la patente dello “sfolla-immigrati”.
Il consiglio dei ministri è previsto per lunedì. Mancano tre giorni per evitare il primo, vero conflitto istituzionale dell’era sovranista.
Al momento però non si intravedono grandi frenatori. Il blocco sovranista scambia decimali di Pil e diritti. E il capo dello Stato si appresta a portare da solo la croce della Costituzione sulle spalle. A meno che non si accontenti di qualche modifica formale.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
MATANO VERSO IL TG1, GUELFI AL TG2… TANTO VALE COLLEGARSI CON LA TV DI STATO DI MOSCA O I SITI NAZISTI DI BANNON
C’è chi parla di telefonate concitate, sms furenti, autocandidature lanciate a tempo scaduto. Ma, a parte qualche ritocco in extremis, la Rai dell’era Salvini-Di Maio, secondo qualcuno, è già fatta. I contendenti non hanno aspettato l’incoronazione ufficiale di Marcello Foa – dopo il voto del cda ormai presidente Rai in pectore, in attesa della Vigilanza – per mettere a punto ognuno la propria strategia. La partita non si giocava nè a San Macuto nè a Saxa Rubra collegate da sempre da inossidabili porte comunicanti. In palio le direzioni di Rete e le testate dei Tg. E tutti possano immaginare cosa voglia dire navigare a vista in attesa che si definiscano ruoli e mansioni: circa 1350 giornalisti rimasti per quasi tre mesi a vagare nella terra di nessuno, in balìa di pressioni e promesse.
Ma andiamo con ordine. Il posto più ambito resta la direzione del Tg1. Il tg delle 20 è la casamatta, il presidio da occupare. Lo è stato per anni, e a quanto pare, nonostante il cambio della guardia, continuerà a esserlo.
Fino a qualche tempo il favorito sembrava Gennaro Sangiuliano (Genny per gli amici) considerato in senso un po’ troppo tranchant il “luogotenente” di Matteo Salvini. In realtà , prima di accostarsi al leader leghista, Sangiuliano, vice direttore del Tg1, docente e saggista, ha percorso un lungo percorso, a volte un po’ contorto, però. Dalla svolta moderata che lo portò ad An e poi a Forza Italia (dopo lo scontro Berlusconi-Fini), alle acrobazie del Carroccio.
Per lui una poltrona di prestigio ci sarà , ma, a quanto pare non sarà al tg più ascoltato d’Italia. Favoritissimo per la direzione è Alberto Matano, 46 anni, da 3 a questa parte conduttore scelto dell’ora di punta.
Alle spalle qualche anno di gavetta, il giornalista calabrese è considerato uno di area grillina. Unico neo: la trasmissione andata in onda su RaiTre “Sono innocente” che non lasciò molte tracce nell’audience.
Alla direzione di Rete andrà , tranne colpi di scena, Marcello Ciannamea, 53 anni, gradito alla Lega, attuale direttore della Direzione palinsesto e consigliere di amministrazione Auditel.
Anche la casella del Tg2 sembra assegnata. In pole position Luciano Ghelfi, vicino alla Lega. Una lunga esperienza sia in Parlamento che a Rai Quirinale, Ghelfi potrebbe essere insidiato solo da un eventuale ripescaggio di Sangiuliano. Una sorta di premio di consolazione che potrebbe interferire con gli equilibri immaginati per ora solo a tavolino.
Nel risiko delle nomine, l’attuale direttrice del Tg2 Ida Colucci potrebbe finire dalle parti del presidente Mattarella, cioè al Colle, un ruolo che potrebbe finire anche ad Andrea Montanari.
Come ogni spoils system che si rispetti la conseguenza anche questa volta sarà un ampliamento del cimitero degli elefanti. Direttori e megadirigenti parcheggiati nel nulla. Non succederà al Tg3 dove, secondo le previsioni, dovrebbe restare sia Luca Mazzà che Stefano Colletta, chiamato lo scorso anno a sostituire alla direzione della Terza Rete Daria Bignardi.
Restano quindi da assegnare le caselle cosiddette di consolazione. Tra queste però non rientra la TgR che per numero di giornalisti non è seconda nessuno. Qui si pensa ad una soluzione “milanese”, ergo leghista. Si fanno i nomi di Alessandro Casarin, Maurizio Losa, volto storico di Mani pulite e Roberto Pacchetti, da sempre in quota Carroccio.
Nessuno al momento sembra insidiare la direzione di Antonio Di Bella a RaiNews 24 mentre potrebbe accendersi un ballottaggio per RadioRai. Fino a qualche giorno fa il nome più gettonato era quello di Filippo Corsini, ma non è escluso che la poltrona dell’etere possa far gola a qualcuno da ricollocare.
Per il gioco dei “resti” c’è sempre la Tsp, il Tg parlamento. molto più di uno strapuntino. Senza dire che la distribuzione delle poltrone di mamma-Rai sarà solo un piccolo antipasto, dopo sarà la volta del Csm e dell’Antitrust. Il giro di nomine insomma continua.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
PIOVONO LE REPLICHE: “MASCALZONE”… “DISPREZZO DELLA VITA UMANA DA FAR PAURA”… “STRAGISTA, GUARDIA DEL CORPO DELLA LEGA”
“Per fortuna oggi non ci sono più Ong nel Mediterraneo perchè le operazioni devono farle le autorità competenti”. Lo ha detto il vicepremier Luigi Di Maio, a Radio1. Ed è subito polemica.
“La funzione delle Ong nel Mediterraneo – attacca il dottor Paolo Narcisi, presidente di Rainbow for Africa, la Ong che ha prestato i medici alla nave Iuventa sequestrata a Lampedusa – era quella delle ambulanze che vanno a soccorere chi è colto da infarto. A nessuno verrebbe in mente di togliere le ambulanze altrimenti chi è colpito da attacco cardiaco morirebbe. Togliere le Ong vuol dire non avere più ambulanze nel Mediterraneo ed essere consapevoli che i migranti continueranno a morire annegati. Forse Di Maio non sa cosa significhi, per chi è in pericolo di vita, l’arrivo di un’ambulanza”.
“Capisco il suo sollievo – commenta con sarcasmo il presidente del Pd Matteo Orfini – nessuno potrà testimoniare il disastro che lui e Salvini hanno prodotto. E nessuno fermerà la strage”.
“Parole molto gravi – stigmatizza il capogruppo del pd, Graziano Delrio – e indicative della nuova politica del governo che affronta i drammi dei migranti girandosi dall’altra e lasciando morire le persone in mare”.
“Sto dalla parte delle ong – ha aggiunto Delrio – che con il proprio impegno hanno salvato negli anni migliaia di vite umane in raccordo virtuoso con le autorità statali. La competizione con Salvini sta facendo perdere la bussola a Di Maio”.
“Quella di oggi del vicepremier del M5S mi pare francamente una mascalzonata”, è la reazione del segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni.
“Le Ong non ci sono più nel Mediterraneo, certo – prosegue l’esponente di Liberi e Uguali – ma il problema vero è che al loro posto non c’è nessuno: neanche le competenti istituzioni di cui lui parla. Di Maio mandi piuttosto qualcuno a salvare le vite di chi in questi giorni e in queste ore continua a morire a poche miglia dalle nostre coste. Solo qualche giorno fa la denuncia di altri 100 annegati, di cui almeno 20 minori”.
“E questa tragedia – aggiunge Fratoianni – continua grazie a chi, come Di Maio e il suo governo, ha cacciato le Organizzazioni di volontariato da quel tratto di mare, e non si assume la responsabilità di mettere in campo operazioni istituzionali di salvataggio di uomini, donne e bambini che fuggono dalla guerra, dalle carestie, dalla disperazione”.
“Il Movimento Cinque Stelle ha perso l’anima, se mai l’ha avuta – ha dichiarato il deputato dem Emanuele Fiano – un tempo facevano fuoco e fiamme per le dichiarazioni di Matteo Salvini sull’immigrazione, mi dispiace per Roberto Fico e altri: ormai i 5Stelle sono la guardia del corpo della Lega, della destra europea”. “Cacciare le Ong dal Mediterraneo serve solo ad aumentare le vittime in mare”, ribadisce Alessia Morani, deputata dem.
“Anche sui migranti Di Maio rivendica e difende gli illegali metodi di Salvini – tuona il deputato dem Michele Anzaldi – rivendicare di aver allontanato le Ong dal Mediterraneo significa rivendicare il più alto numero di morti che ne deriva. La mancata presenza delle organizzazioni non governative può portare solo a due risultati: o aumentano i morti perchè nessuno va più a soccorrere chi annega, o aumentano i costi per lo Stato perchè ora quell’assistenza devono darla le navi della Guardia Costiera italiana e della Marina Militare”.
“Come hanno confermato testimonianze e inchieste giornalistiche – ha aggiunto Anzaldi – la Guardia costiera libica al momento non è assolutamente ancora in grado da sola di gestire l’area che dovrebbe essere di sua competenza. Le parole di Di Maio mostrano un disprezzo della vita umana che fa paura”.
“Per Di Maio – dichiara Gennaro Migliore, deputato pd – è un bene che non ci siano più nel mediterraneo le Ong, ossia chi ha salvato i naufraghi. Lo stesso Di Maio che aveva definito le ong ‘taxi del mare’ e che insieme a Danilo Toninelli sta mettendo a rischio centinaia di vite umane. Ancora una volta una dimostrazione della viltà di questo governo. È così che si dimostra degno alleato di Salvini, il padrone del governo che detta le sue regole ai fidi alleati”.
“Stanno assistendo impunemente a una strage – dice ancora Migliore – e fanno battute sulla pelle di chi sta per annegare. Intanto dal vertice europeo l’Italia esce sconfitta e isolata. Lo stesso amico dei gialloverdi, Vicktor Orbà¡n, risponde picche alle richieste del governo. Un Paese come il nostro non merita di essere squalificato da questi cinici rappresentanti”.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
LA MANOVRA ANCORA IN ALTO MARE
La fragilità dell’impatto che lo scambio tra Matteo Salvini e Luigi di Maio ha sull’impianto della manovra si può misurare da due prospettive, speculari tra di loro: da una parte il pressing asfissiante nei confronti di Tria per portare l’asticella del deficit almeno al 2%, dall’altra la fermezza del ministro dell’Economia nel tenere il punto sull’1,6 per cento. I problemi della legge di bilancio restano intatti perchè è il nodo principale che non si è sciolto.
Lo scambio serve a riequilibrare le liste della spesa di Lega e 5 Stelle, in nome di un interesse caro a Salvini, cioè il via libera al decreto su sicurezza e immigrazione, ma non impatta sulla soluzione della questione che crea fibrillazione con il Tesoro, cioè la diversità di vedute su come uscire dallo stallo.
Sono le 8 del mattino quando a palazzo Chigi si riunisce il tavolo sulla manovra, prenotato da Salvini via telefono al premier Giuseppe Conte ieri sera dopo la messa a punto del pacchetto leghista.
Il clima è quello dell’urgenza perchè il decreto sicurezza è in calendario al Consiglio dei ministri di lunedì ma è ancora ostaggio delle resistenze dei 5 Stelle.
È nella composizione della lista delle misure che Salvini porta a Tria, lanciando al contempo un messaggio di tensione a Di Maio, che si innesta la strategia del Carroccio. Dentro quella lista, infatti, ci sono tutti i cavalli di battaglia del centrodestra: superamento della legge Fornero, flat tax, pace fiscale, ma anche turnover per le forze dell’ordine e il taglio delle accise sulla benzina.
Una portata così ingente, quella della lista leghista, che rischia di mandare in tilt la spartizione a metà delle risorse con i 5 Stelle, tra l’altro più indietro rispetto al Carroccio sulle coperture per il reddito di cittadinanza.
Qui si innesta lo scambio, che poggia su due livelli.
Quello politico, sostanziale, di Salvini al reddito di cittadinanza in cambio appunto dell’ok di Di Maio al decreto sicurezza.
E quello economico, con uno snellimento della flat tax per le imprese, che libera risorse utili ai pentastellati per provare a portare a casa il proprio cavallo di battaglia.
Il sogno leghista della tassa piatta subisce un ulteriore ridimensionamento. L’assetto pensato per 1,5 milioni di partite Iva poggiava su due aliquote di tassazione: al 15% per quelle con ricavi compresi tra 0 e 65mila euro e al 20%, con la garanzia della progressività , per quelle con un giro d’affari compreso tra 65mila e 100mila euro. Resta solo la prima aliquota e quindi un restringimento delle imprese che saranno interessate dal taglio fiscale.
Una rinuncia che la Lega ha potuto concedersi per due motivi. Il primo è che questa rinuncia sarà controbilanciata con la super-Ires al 15% per chi investe in azienda: si farà perchè le coperture – poco meno di 1 miliardo – ci sono (l’Ace o l’assorbimento degli ammortamenti del piano industria 4.0) e quindi il segnale alle imprese comunque resta perchè 1 miliardo è la cifra che corrisponde anche al risparmio che otterrebbero le aziende.
Il secondo è che il disegno complessivo sulla flat tax sarà messo in campo – almeno questo è l’obiettivo – il prossimo anno, quando si spera che le risorse saranno maggiori.
Nello scambio tra Lega e 5 Stelle c’è anche un punto di contatto ulteriore, che preme più ai 5 Stelle ma che non registrerebbe la contrarietà del Carroccio, e cioè quella di condividere la paternità del superamento della legge Fornero attraverso la quota 100. Lo schema che si intende seguire è quello di impronta leghista, cioè la combinazione 62+38, con una platea di circa 492mila lavoratori che potrebbero uscire anticipatamente dal lavoro usufruendo appunto di questa possibilità .
Su questo Salvini non vuole mollare, anche se l’intero pacchetto costa 8 miliardi all’anno. Alcune coperture sono state stabilite, come la possibilità di utilizzare i fondi esubero delle imprese o prevedere un condono dei contributi, ma sono ancora poche rispetto all’impatto totale delle misure.
In una sorta di meccanismo a matrioska, il pacchetto sulle pensioni rischia di gonfiare ulteriormente la portata della manovra.
Anche perchè i 5 Stelle, secondo quanto riferiscono alcune fonti del Movimento, non mollano la presa sul reddito di cittadinanza e vogliono 10 miliardi da finanziare in deficit.
Si ritorna al punto iniziale, quello dell’asticella dell’1,6 per cento. Di Maio ribadisce che bisogna “dimenticare i numerini” mentre il sottosegretario leghista Massimo Bitonci chiede a Tria di arrivare al 2-2,2 per cento.
La manovra è ancora in alto mare.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
IL RAPPORTO DEGLI INGEGNERI DI SPEA-AUTOSTRADE…LA DIREZIONE DELLA VIGILANZA ACCETTO’ L’OMISSIONE
Le foto shock del ponte Morandi di Genova prima del crollo non erano superate, come invece sostiene la società di gestione Autostrade per l’Italia . E non lo sono tuttora. Quelle immagini, oltre a rivelare le condizioni del degrado che ha portato al disastro e ha ucciso quarantatrè persone, dimostrano che il ministero delle Infrastrutture ha approvato alla cieca il progetto presentato dalla concessionaria: senza cioè conoscere le reali condizioni di conservazione del calcestruzzo degli stralli, le bretelle a cui era appeso il viadotto.
Non lo potevano sapere per una ragione: le indagini diagnostiche, fondamentali per misurare il livello attuale di precompressione del cemento armato e il grado di intervento necessario, erano miseramente fallite nell’ottobre 2015 e non sono state ripetute.
Dopo notti trascorse sotto la pioggia aggrappati ai montacarichi a estrarre “carote” di calcestruzzo dalla struttura gli ingegneri di Spea, lo studio di progettazione collegato ad Autostrade, ammettono con 41 pagine di rapporto che su cinque prove ne hanno praticamente fallite quattro e una ha dato risultati contrari alle attese.
È andata male anche per colpa del maltempo e dell’umidità : per questi carotaggi hanno scelto il periodo tra il 12 e il 30 ottobre 2015. Nessuno ha evidentemente pensato di consultare le previsioni meteo o di programmare l’ispezione durante la bella stagione.
LA SPINA DORSALE DELLE INDAGINI
Il percorso seguito dal progetto di manutenzione del ponte sul torrente Polcevera, reso ora inutile dal crollo del 14 agosto, è la spina dorsale dell’inchiesta della Procura: approssimazioni e sviste rivelano non solo errori colposi, ma anche il sospetto che qualcuno fosse consapevole che non c’era più tempo da perdere.
A pagina 28 della relazione generale presentata da Autostrade al ministero, una nota spiega che al progetto esecutivo mancavano ancora informazioni essenziali: «Dovrà essere realizzato un rilievo delle armature di precompressione prima di effettuare le lavorazioni interferenti con le stesse», scrivono Emanuele De Angelis e Massimiliano Giacobbi, gli ingegneri di Spea che firmano il documento.
E aggiungono: «Prima di posizionare i blocchi di ancoraggio, valutare lo stato di conservazione dei calcestruzzi». Al di là della riduzione per corrosione del 20 per cento dei cavi rilevata dalle indagini riflettometriche (misurando la resistenza al passaggio della corrente elettrica), al di là dei calcoli teorici, De Angelis e Giacobbi avvertono con questa nota di non avere dati per determinare il vero stato di salute di parti essenziali del ponte: come le altissime antenne di cemento armato a cui dovranno ancorare i nuovi tiranti.
E quindi se non lo sanno i progettisti, nemmeno al ministero possono garantire il successo dell’intervento di “retrofitting”: cioè il potenziamento delle prestazioni di carico che, senza la conoscenza di dettagli fondamentali, potrebbe anche non migliorare ma peggiorare le condizioni del viadotto.
Allora perchè approvano il progetto così com’è? Senza prescrivere quelle necessarie precauzioni che, vietando il transito ai mezzi pesanti, avrebbero forse evitato il disastro.
Quando si arriva alla fase esecutiva della progettazione, quelle informazioni dovrebbero essere già acquisite ed elaborate.
Lo stabilisce la legge, con l’articolo 33 del Decreto del presidente della Repubblica 207 del 2010: «Il progetto esecutivo costituisce la ingegnerizzazione di tutte le lavorazioni e… definisce compiutamente e in ogni particolare architettonico, strutturale e impiantistico l’intervento da realizzare». Inoltre: «Il progetto (esecutivo) è redatto nel pieno rispetto del progetto definitivo».
E poi l’articolo 29: «I calcoli delle strutture e degli impianti (del progetto definitivo) devono consentire di determinare tutti gli elementi dimensionali, dimostrandone la piena compatibilità con l’aspetto architettonico e impiantistico e… con tutti gli altri aspetti del progetto… a un livello di definizione tale che nella successiva progettazione esecutiva non si abbiano significative differenze tecniche e di costo».
E l’articolo 37: «I calcoli esecutivi degli impianti sono eseguiti con riferimento alle condizioni di esercizio o alle fasi costruttive qualora più gravose delle condizioni di esercizio…».
Ma senza informazioni aggiornate sullo stato di conservazione del calcestruzzo, quali condizioni reali di esercizio del ponte hanno calcolato? Stando al verbale del comitato tecnico amministrativo del Provveditorato di Genova, non lo chiedono nè i quattro relatori, nè il presidente-provveditore Roberto Ferrazza quando il primo febbraio si riuniscono e approvano l’intervento.
Si scopre oggi, ed è la seconda novità clamorosa, che il progetto definitivo non è mai stato consegnato al ministero.
I livelli di progettazione stabiliti dalla legge sono infatti tre: fattibilità , definitivo, esecutivo. Società Autostrade però decide di passare subito alla terza fase, riducendo così i tempi di studio e di riflessione sulle soluzioni proposte. Se, come dichiarano, nessuno si era reso conto del pericolo di crollo, perchè tanta fretta per un intervento così complicato?
MANCA IL PROGETTO DEFINITIVO
La decisione viene comunicata il 15 dicembre 2017 al provveditore Ferrazza da Vincenzo Cinelli, capo al ministero della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali. Nella raccomandata con cui viene trasmesso il progetto da Roma e Genova, Cinelli conclude così: «Si vuole significare che la redazione del progetto definitivo non è stata eseguita in ordine all’articolo 23, comma 4, del decreto legislativo numero 50/2016». È il codice degli appalti. E quel comma stabilisce che «è consentita l’omissione di uno o di entrambi i primi due livelli di progettazione, purchè il livello successivo contenga tutti gli elementi previsti per il livello omesso, salvaguardando la qualità della progettazione». Elementi che, come abbiamo visto, sono carenti.
A questo punto, avendo già saltato le fasi di fattibilità e definitiva pur trattandosi di un ponte molto delicato, tocca a Ferrazza nominare relatori preparati: saranno loro a discutere il progetto esecutivo di fronte al comitato tecnico del Provveditorato a Genova.
Invece Ferrazza scarta i dirigenti: qualcuno in città sostiene che i vertici ministeriali volessero tenersi liberi da incompatibilità per ottenere consulenze da Autostrade nei futuri collaudi del viadotto.
Vengono così incaricati due semplici funzionari che i ponti li conoscono più come automobilisti: Giuseppe Sisca è un ingegnere della motorizzazione che insegna nelle scuole guida, Salvatore Buonaccorso si occupa di certificazione di imprese.
Il terzo relatore scelto come esperto esterno è Mario Servetto, ingegnere ed ex assessore a Recco in provincia. Antonio Brencich, professore associato del Dipartimento di ingegneria di Genova, non appare nell’atto di nomina. Viene aggiunto dopo. Chi l’ha proposto? Convocato dalla Procura tra i primi venti indagati, Brencich ha scelto di non rispondere alle domande dei magistrati.
Eppure che quel progetto non possa pienamente definirsi “esecutivo” è scritto nell’allegato C della relazione generale, allegato intitolato: «Indagini diagnostiche sugli stralli di pila 9 e pila 10».
Quello che il 14 agosto ha ucciso uomini, donne, bambini e intere famiglie in viaggio per le vacanze, è proprio il pilone numero 9. La precompressione nel calcestruzzo, ottenuta grazie ai cavi di acciaio che attraversano la struttura da parte a parte, è fondamentale per aumentare la resistenza ai carichi.
Se i tiranti interni si allentano o si spezzano per la corrosione, la trave di cemento armato si flette, diventa più fragile e cede. Per questo nell’ottobre 2015 i tecnici di Spea salgono sul ponte Morandi: «Al fine di valutare sia le condizioni di conservazione quanto le caratteristiche meccaniche del calcestruzzo e delle armature, lente e di precompressione, sia lo stato tensionale degli stralli dei sistemi bilanciati di pila 9 e 10». Dice così la pagina 4 del loro rapporto, datato gennaio 2016. E così loro speravano. Ma le conclusioni sono surreali.
«Durante la prova c’era pioggia intermittente che ha ostacolato notevolmente le attività di installazione e di lettura degli estensimetri», annotano Alessandro Costa, Leonardo Veronesi, Maurizio Ceneri con l’approvazione di Giampaolo Nebbia, direttore tecnico di Spea.
In quel momento sono sulla pila 10, lato mare: «È poi stato necessario staccare i fili dai connettori e proteggerli all’interno della superficie di carotaggio… Il comportamento rilevato dal sistema di misura estensimetrico è anomalo e non interpretabile… probabilmente non si è incollato perfettamente a causa della superficie umida del calcestruzzo per la pioggia, sia per le saldature dei cablaggi dei fili bagnati… Si sottolinea inoltre che una condizione necessaria per aumentare la probabilità di riuscita della prova di liberazione delle tensioni sarebbe non staccare i fili dal sistema…» che però, scrivono loro, in tutte le prove vengono staccati.
IL FIASCO TOTALE
Finisce così, pagine 35 e 36 del rapporto, su carta intestata Spea-Autostrade. Prima prova, pila 10, lato mare, lato Savona: «Non è riuscita, infatti si sono ottenuti risultati non interpretabili». Seconda prova, pila 10, lato monte, lato Genova: «I valori misurati non sono attendibili, in quanto presentano delle variazioni decisamente eccessive… che non ne permettono nemmeno una fantasiosa interpretazione». Terza prova, pila 10, lato monte, lato Savona: «È quella apparentemente meglio riuscita, anche se i valori misurati dai due estensimetri sono discordi (uno è positivo e uno è negativo)… per poi essere concordi la mattina seguente». Ma qui lo strallo anzichè essere compresso sembra in trazione: «È sottoposto, almeno superficialmente, a una tensione di trazione, infatti… dopo il carotaggio gli estensimetri hanno misurato un accorciamento della superficie».
Poi ecco la quarta prova, pila 9, quella crollata, lato mare, lato Savona: «I valori misurati dai due estensimetri sono discordi, uno è positivo e uno è negativo» nella notte, «per essere concordi, entrambi con segno negativo, la mattina seguente». E la quinta prova, pila 9 lato mare, questa volta lungo lo strallo rivolto a Genova: «I valori misurati non sono attendibili». Proprio quei due, gli stralli della pila 9 lato mare, sono forse i primi a rompersi, dopo il probabile sfondamento di una trave al passaggio di un Tir da 44 tonnellate, carico di acciaio destinato all’Ilva di Novi Ligure.
LA STORIA DEI TASSELLI
Si salvano solo le prove di “pull-out”, di estrazione, «eseguite per stimare la resistenza a compressione del calcestruzzo». Ma vengono bocciate dal comitato tecnico amministrativo del provveditore Ferrazza: «Nella letteratura scientifica è documentato che determinati tasselli per pull-out… potrebbero portare a sovrastime anche del 100 per cento della resistenza del calcestruzzo», è scritto nel verbale. Ma le osservazioni si fermano lì.
Nessuno nell’organo territoriale di controllo del ministero nota le carenze del progetto esecutivo e delle indagini che lo compongono.
I progettisti spiegano che bisogna rinforzare la campata E11 tra la pila 9 e la pila 10, proprio quella che forse è caduta per prima al passaggio del Tir da 44 tonnellate.
Da nessuna parte però si descrivono i lavori straordinari fatti su quelle stesse travi tra il 2014 e il 2016. E affidati da Autostrade alla Soteco di Aulla in Toscana, una Srl di due geometri e 25 dipendenti che come principale attività non promuovono il potenziamento di viadotti ma l’installazione di barriere antirumore e rivestimenti di gallerie.
No, nessuno nel comitato ha altro da dire. Progetto approvato. Passano sei mesi prima del crollo. Ponte Morandi sta per morire e loro, quel giorno a Genova, pensavano ai tasselli.
(da “L’Espresso”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
“IL 65% DEGLI STRANIERI NE HA DIRITTO ALLA PARI DEGLI ITALIANI”… “SE SI TAGLIANO FUORI, ARRIVERANNO LE CONDANNE DEI TRIBUNALI”
Alberto Guariso, avvocato dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, è possibile limitare una simile misura ai “cittadini italiani”?
Le prestazioni che rispondono a bisogni essenziali della persona non possono essere soggette a limitazioni di alcun genere, nè per la cittadinanza, nè per titolo di soggiorno nè per durata della residenza. La Corte costituzionale ha affermato – ad esempio, nella sentenza 187/2010 – ripetutamente questo principio facendo riferimento a tutte le prestazioni “destinate a far fronte al sostentamento della persona”. Si è trattato sinora di sentenze riferite alle prestazioni di invalidità , ma lo stesso principio non può che essere applicato anche a una prestazione rivolta (anche o esclusivamente, dipenderà dai limiti di reddito) a far uscire molte famiglie dalla condizione di povertà assoluta.
Come sarebbe allora possibile circoscrivere la platea, sulla base di criteri concettualmente affini alla ‘cittadinanza’?
Anche se il reddito non venisse configurato come risposta a bisogni primari della persona, non potrebbe essere negato agli stranieri per i quali le direttive europee prevedono parità di trattamento in tutte le prestazioni, anche ulteriori rispetto a quelle minime essenziali. Si tratta, oltre ai cittadini dell’Unione (tutelati dall’articolo 18 del Trattato) dei titolari di permesso di lungo soggiorno (direttiva 2003/109) e dei titolari di protezione internazionale (direttiva 2011/95) oltre ad altre categorie di minor importanza (carta blu eccettera). Queste categorie sono il 65% degli stranieri e per questi non c’è spazio per alcuna deroga. Se si derogasse, si finirebbe con una procedura di infrazione della Commissione oppure con una pronuncia della Corte Ue. Se poi il reddito di cittadinanza venisse configurato come un sostegno al reinserimento lavorativo, potrebbe rientrare anche nell’ambito della direttiva 2011/98 e in questo caso sarebbero tutelati anche i titolari di permesso unico lavoro, cioè il restante 35% degli stranieri presenti in Italia. In ogni caso, migliaia di cause sarebbero assicurate. Si finirebbe per affidare un diritto sociale fondamentale alle aule dei giudici invece che a criteri certi e omogenei su tutto il territorio: una situazione inaccettabile dal punto di vista sociale.
Ci sono casi recenti di misure che hanno generato un contenzioso come quello che ci sta descrivendo?
Tutte le prestazioni che inizialmente erano state negate a lungo-soggiornanti e rifugiati sono poi state estese a queste categorie o per sentenza della Corte Costituzionale e della Corte UE, o per circolari INPS. In passato abbiamo visto la stessa trafila, praticamente per tutte le prestazioni inizialmente negate agli stranieri che poi sono state via via ammesse per via giudiziaria o amministrativa: assegno famiglie numerose, indennità di maternità , bonus bebè, carta acquisti e via dicendo. Attualmente la situazione è che tutte queste prestazioni sono riconosciute ai lungo-soggiornanti e rifugiati. Il contenzioso – finora sempre favorevole agli stranieri – riguarda la ulteriore estensione ai titolari di permesso unico di lavoro.
Se poi guardiamo al Rei, il reddito di inclusione del precedente governo e padre putativo del reddito di cittadinanza, attualmente è previsto per chi è residente da almeno 2 anni, ma è limitato ai soli stranieri con permesso di lungo periodo o titolari di protezione internazionale. La legittimità del primo requisito potrebbe essere forse discutibile, ma sul secondo sono già pendenti giudizi: per noi è illogico e incostituzionale che vengano esclusi da una prestazione contro la povertà proprio gli stranieri che non hanno neanche il reddito minimo per ottenere il permesso di lungo periodo e che sono comunque regolarmente soggiornanti. Vale per il Rei e varrà a maggior ragione per il reddito di cittadinanza.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
E’ LA DIMOSTRAZIONE CHE LA FECCIA RAZZISTA VIVE SULLA ISTIGAZIONE ALL’ODIO E NON VUOLE IMMIGRATI INTEGRATI… VERSO IL REGIME DI POLIZIA
Permessi umanitari cancellati. Stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Possibilità di chiudere negli hotspot per 30 giorni anche i richiedenti asilo. Trattenimento massimo nei centri prolungato da 90 a 180 giorni. E poi addio alla rete Sprar.
I 17 articoli e 4 capi dell’ultima bozza del decreto migranti, che il governo si prepara a varare, promettono di ridisegnare il volto del “pianeta immigrazione”.
Soprattutto sul fronte accoglienza, abrogando di fatto un modello, quello dello Sprar, che coinvolge oggi oltre 400 comuni ed è considerato un modello in Europa.
A denunciarlo è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): “Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni, destinato in caso di attuazione a produrre enormi conseguenze negative in tutta Italia, tanto nelle grandi città che nei piccoli centri, al Nord come al Sud”.
Ventitremila migranti accolti.
“Lo Sprar – spiega a Repubblica Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi – è un sistema di accoglienza e protezione sia dei richiedenti asilo che dei titolari di protezione internazionale e umanitaria nato nel lontano 2002 con le modifiche al testo unico immigrazione della cosiddetta Bossi-Fini. Nei sedici anni della sua esistenza lo Sprar si è enormemente rafforzato passando da alcune decine di comuni coinvolti e meno di duemila posti di accoglienza nel 2002, ai circa ventitremila posti attuali con coinvolgimento di oltre 400 comuni”.
Un modello in Europa.
“In ragione dei suoi successi nel gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in modo ordinato con capacità di coinvolgimento dei territori, lo Sprar è sempre stato considerato da tutti i governi di qualunque colore politico il fiore all’occhiello del sistema italiano, da presentare in Europa in tutti gli incontri istituzionali, anche per attenuare agli occhi degli interlocutori, le gravi carenze generali dell’Italia nella gestione dei migranti”.
Il ruolo centrale dei comuni.
“Il presupposto giuridico su cui si fonda lo Sprar è tanto chiaro quanto aderente al nostro impianto costituzionale: nella gestione degli arrivi e dell’accoglienza dei migranti allo Stato spettano gli aspetti che richiedono una gestione unitaria (salvataggio, arrivi e prima accoglienza, piano di distribuzione, definizione di standard uniformi), ma una volta che il migrante ha formalizzato la sua domanda di asilo la gestione effettiva dei servizi di accoglienza, protezione sociale, orientamento legale e integrazione non spetta più allo Stato, che non ha le competenze e l’articolazione amministrativa per farlo in modo adeguato, ma va assicurata (con finanziamenti statali) dalle amministrazioni locali, alle quali spettano in generale tutte le funzioni amministrative in materia di servizi socio-assistenziali nei confronti tanto della popolazione italiana che di quella straniera”.
Il business dei grandi centri.
“Lo Sprar (gestito oggi da Comuni di centrosinistra come di centrodestra) ha assicurato ovunque una gestione dell’accoglienza concertata con i territori, con numeri contenuti e assenza di grandi concentrazioni, secondo il principio dell’accoglienza diffusa, di buona qualità e orientata ad inserire quanto prima il richiedente asilo nel tessuto sociale. Inoltre lo Sprar ha assicurato un ferreo controllo della spesa pubblica grazie a una struttura amministrativa centrale di coordinamento e all’applicazione del principio della rendicontazione in base alla quale non sono ammessi margini di guadagno per gli enti (associazioni e cooperative) che gestiscono i servizi loro affidati. Invece, da oltre un decennio, il parallelo sistema di accoglienza a diretta gestione statale-prefettizia, salvo isolati casi virtuosi, sprofonda nel caos producendo un’accoglienza di bassa o persino bassissima qualità con costi elevati, scarsi controlli e profonde infiltrazioni della malavita organizzata che ha ben fiutato il potenziale business rappresentato dalla gestione delle grandi strutture (come caserme dismesse, ex aeroporti militari) al riparo dai fastidiosi controlli sulla spesa e sulla qualità presenti nello Sprar”.
La fine dello Sprar.
“Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni. Che ne sarà di quelle piccole e funzionanti strutture di accoglienza già esistenti e delle migliaia di operatori sociali, quasi tutti giovani, che con professionalità , lavorano nello Sprar? Qualcuno potrebbe furbescamente sostenere che in fondo lo Sprar non verrebbe interamente abrogato ma trasformato in un sistema di accoglienza dei soli rifugiati e non più anche dei richiedenti asilo i quali rimarrebbero confinati nei centri governativi. È una spiegazione falsa, che omette di dire che proprio la sua caratteristica di sistema unico di accoglienza sia dei richiedenti che dei rifugiati dentro un’unica logica di gestione territoriale è ciò che ha reso lo Sprar un sistema efficiente e razionale. Senza questa unità non rimane più nulla”.
(da “La Repubblica”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
E IL GOVERNO LEGA-M5S PENSA A PREMIARE CHI EVADE CON IL CONDONO… IN EUROPA NESSUNO PERDE COSI’ TANTO
Mentre l’imposta occupa il centro della scena politica italiana, come possibile serbatoio di risorse per finanziare le promesse elettorali, la Commissione europea – che da tempo ci chiede con altri organismi internazionali di tassare di più i consumi e di meno il lavoro – certifica che anche nel 2016 l’Italia è stata la prima per l’evasione di Iva, in valore nominale.
Alle casse dello Stato sono venuti a mancare 35,9 miliardi.
L’Italia è invece terza per il maggior divario tra gettito previsto e riscosso con il 25,9%, dietro solo a Romania (35,88%) e Grecia (29,2%).
Rispetto al 2015 c’è stato un lieve miglioramento in termini, in quanto l’evasione si è ridotta dello 0,23% scendendo dal 26,13%, anche se in termini nominali (35,7 miliardi) c’è stato un piccolo aumento.
Nel complesso, dal 2012 al 2016 l’Italia è riuscita a ridurre l’evasione del 3%, con un divario tra atteso e incassato effettivamente calato dal 29% a poco meno del 26%.
Nel suo insieme, l’Ue ha registrato perdite di introiti sull’Iva per 147,1 miliardi di euro, in calo di 10,5 miliardi rispetto all’anno precedente con una riduzione del gap dello 0,9%, scendendo al 12,3% dal 13,2%.
I Paesi Ue in cui l’evasione dell’Iva è la più bassa sono Lussemburgo (0,85%), Svezia (1,08%) e Croazia (1,15%).
Pierre Moscovici, Commissario per gli Affari economici, ha registrato i miglioramenti nella riscossione e la minor differenza tra atteso e incassato. “Ma una perdita di 150 miliardi di euro l’anno per i bilanci nazionali rimane inaccettabile, soprattutto quando 50 di questi miliardi finiscono nelle tasche di criminali, autori di frodi e probabilmente anche terroristi”, ha commentato
(da agenzie)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
POCHI SOLDI, LO SFRATTO, VINCE 5 MILIONI MA SI TIENE SOLO IL NECESSARIO, IL RESTO LO DONA A 50 PERSONE ED ENTI… IL POVERO, A DIFFERENZA DEL RICCO, CONOSCE IL BISOGNO E NON ALZA MURI
Marta ha cinquant’anni, vive a Grosseto e non ha avuto una vita fortunata. Pochi soldi, molti problemi. Uno dei quali veramente terribile: lo sfratto di casa.
Poi un giorno la dea bendata, come rivela Repubblica, si fa viva con lei.
E con un Gratta e vinci di pochi euro ne mette in tasca molti ma molti di più: cinque milioni.
È una cifra astronomica, al di sopra delle sue speranze, delle sue aspettative, del suo stesso stesso modo di vivere. Marta quindi prende quel che le serve per garantirsi la tranquillità e poi compila una lista di cinquanta nomi: amici bisognosi, associazioni, enti di carità , a cui devolvere la gran parte della vincita.
Vi chiederete: ma se è povera come fa a buttare all’aria tutta quella ricchezza? Oggi che il sogno si avvera rinuncia?
Invece il povero, a differenza del ricco, conosce il bisogno ed è sul bisogno, suo e del proprio simile, che fonda la sua vita: dà e riceve, offre e chiede.
Il ricco conosce solo la propria responsabilità . Il povero vive una vita comunitaria, il ricco invece la solitudine.
Infatti sono i Paesi ricchi ad alzare i muri e rispondere con le armi alle ondate migratorie. Devono difendere il loro status dall’orda umana che ha fame e chiede di partecipare al banchetto.
L’85 per cento dei diseredati della terra è ospitato da Paesi poveri e poverissimi.
È questa la verità .
(da “il Fatto Quotidiano”)
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