Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
MERCOLEDI’ IL TRIBUNALE DEL RIESAME DI GENOVA DECIDERA’ SUL BLOCCO DEI CONTI CORRENTI DELLA LEGA FINO A 49 MILIONI… MA C’E’ IL PERICOLO CHE SI IPOTIZZI UNA CONTINUITA’
La parola chiave, quella da cui molto (o forse tutto) dipende, è «continuità ». Continuità tra la
vecchia Lega, quella che ha percepito il finanziamento ai partiti tra gli anni 2008 e 2010, e la Lega salviniana di oggi.
Mercoledì 5 settembre, infatti, il Tribunale del riesame di Genova fornirà il responso sul blocco totale dei conti correnti leghisti fino ad arrivare alla bella cifra di 49 milioni (ad oggi siamo suppergiù a due milioni), così come chiesto dalla procura dopo la condanna di Umberto Bossi e Francesco Belsito per truffa ai danni dello Stato.
Per questo quella sentenza sarà letta con la massima attenzione: per i leghisti occorrerà capire fino a quale punto va intesa la «continuità » tra le due leghe.
Se fosse intesa in maniera estensiva, il risultato sarebbe quello pronosticato ieri da Giancarlo Giorgetti: «Il 6 settembre la Lega chiude».
È vero, lo scorso 14 dicembre la Gazzetta ufficiale ha registrato lo statuto depositato da Roberto Calderoli di una forza politica che si chiama «Lega per Salvini premier», simbolo assai simile a quello stampato sulle schede elettorali delle ultime politiche (assente Alberto da Giussano).
E da parecchi mesi si parlava di un congresso per completare la transizione della Lega da nordista a nazionale.
Ma nel partito non sono affatto certi del fatto che la stessa parola Lega non rischi di finire fuori gioco: «Siamo sicuri che per lorsignori sarà abbastanza discontinuo un partito con Lega nel nome e lo stesso segretario che ha percepito l’ultima rata dei finanziamenti contestati?» si chiede un deputato.
Insomma, il nuovo partito dovrebbe nascere da zero: «Tutto dovrebbe partire da capo. Tessere, militanza, congressi. Ci vorrebbe un congresso costituente di autoconvocati, chi lo sa… È una cosa senza precedenti».
Una brutta notizia per i 183 parlamentari: l’onere dell’avvio della Lega reloaded graverebbe quasi esclusivamente sulle loro spalle.
Un nuovo tesseramento, nuovi organi dirigenti, regole diverse da quelle rigide del passato in teoria potrebbero sbloccare l’accesso al partito ai molti che da tempo attendono di cambiare casacca.
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: Costume | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
NO DEI BIG DEL PARTITO A UN CONTENITORE UNICO DEL CENTRODESTRA… SOLO TOTI SAREBBE D’ACCORDO, MA NON E’ UNA NOVITA’… “I SONDAGGI CI DANNO AL 12% E NESSUNO SE N’E’ ANDATO”
«Forza Italia continua a tenere alto il programma del centrodestra e a portare avanti l’idea della coalizione unita…». L’ipotesi di lanciare un’opa ostile sui berlusconiani attraverso la nascita di un «partito unico» a trazione leghista, ventilata in privato da Matteo Salvini, si è appena materializzata alla festa del Fatto con le parole di Giancarlo Giorgetti, che ha immaginato il plastico ideale di una Lega che è già «il partito di riferimento del centrodestra».
Le agenzie battono le dichiarazioni del sottosegretario alle 12 e 51.
Dieci minuti dopo, in un giro vorticoso di telefonate con il resto del sancta santorum del berlusconismo, Antonio Tajani precisa che no, che «Forza Italia continua a combattere», che il programma del centrodestra va «tenuto alto», così come l’idea della coalizione.
Chi ci ha parlato nelle ultime ore giura che il presidente del Parlamento europeo non abbia alcuna intenzione di aprire un fronte con Giorgetti, di cui tra l’altro è ottimo amico; men che meno, ai piani alti di Forza Italia, c’è la voglia di innescare l’ennesima guerra di posizione contro la Lega da combattere sotto gli occhi di tutti. Eppure, di fronte alla controffensiva leghista, i big del berlusconismo azzardano una resistenza.
«Altro che partito in calo, guardatevi i sondaggi», sorride il portavoce azzurro Giorgio Mulè. Uno, dice, «l’ho preso dal sito del sottosegretario leghista Durigon e ci dà all’11,8 percento». Un altro, fonte Piepoli, con rilevazioni che però risalgono a luglio, fissa l’asticella al 12 e circola a mo’ di pannicello caldo telematico nei gruppi whatsapp dei dirigenti azzurri.
I massimi vertici del berlusconismo, che per mesi si sono divisi persino sulle sfumature, di fronte alla minaccia di essere inglobati dalla Lega hanno iniziato a fare fronte comune.
Resiste Letta, resiste Tajani, resiste Ghedini. Si smarca Giovanni Toti, favorevole a «un partito unico che chiedo da tempo».
E visto che la miglior difesa in certi casi è l’attacco, ecco che Forza Italia potrebbe chiedere formalmente a Salvini un vertice di coalizione per mettere a punto una strategia comune sulla presidenza della Rai e anche sulle candidature per la maxi tornata di regionali che ci sarà da qui a giugno 2019.
«O si chiude su tutto o su nulla», è il leitmotiv più gettonato. Senza un accordo completo, è il sottotesto, partite come quella dei vertici di viale Mazzini non avranno facile soluzione per il governo, che s’è già dovuto arrendere sulla mancata elezione di Foa; in più, FI metterebbe in campo una campagna di mobilitazione sui dossier – pensioni in testa – che rischiano di mettere in difficoltà la Lega.
E Berlusconi? Raccontano che l’ex premier, in questa fase, sia il più disilluso di tutti. E che alterni –— nella fase finale delle sue vacanze, divise tra la villa della figlia Marina in Francia e Villa Certosa – momenti in cui vorrebbe cercare un armistizio con Salvini a momenti scanditi dalla voglia di rivincita.
La migrazione di massa verso la Lega, al momento, non c’è stata. «Quando dicono che stanno per prendere un nostro sindaco o consigliere regionale, poi lo chiamiamo e quello ci dice che non è vero», dicono ai piani alti del partito.
Il deputato Andrea Ruggieri, membro della Vigilanza Rai, nella sua diretta Facebook di ieri mattina ha spiegato che «qualcuno che si va penosamente a offrire, prima o poi, ci sarà . Vedremo quanti sono e di quale qualità . E poi non è detto che qualcuno, andandosene, non ci faccia in realtà un grande favore».
La guerra, per ora, è di posizione. Basta un niente per innescare una battaglia o per trovare una quadra. Tra le mille variabili, c’è anche l’ipotesi che la Lega venga condannata nell’inchiesta per i fondi. In quel caso, se «noi come partito siamo finiti» (copyright Giorgetti), tutto cambia.
(da “Il Corriere della Sera“)
argomento: Berlusconi | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
METTERE IN LIQUIDAZIONE LA LEGA, DANDO LA COLPA AI GIUDICI, E’ IL MIGLIOR MODO PER SOTTRARSI ALLA RESPONSABILITA’ DI AVER PARTECIPATO ALL’UTILIZZO ILLEGALE DEI FONDI
Con le parole si può costruire un mondo nuovo, dire di sofferenze e gioie, spiegare, o anche tacere,
e persino confondere, simulare.
Giancarlo Giorgetti l’uomo che cuce le relazioni di potere leghiste e le tiene coperte, ha rivelato nella bella Confessione a Peter Gomez, durante la Festa del Fatto Quotidiano, che se i giudici decideranno di confermare il sequestro dei soldi che il movimento ha abusivamente detenuto, i milioni di euro (molti dei quali spesi, sic!) utilizzati al di fuori delle regole e della legge, il Carroccio sarà costretto a chiudere bottega.
Quel che Giorgetti ha taciuto, e che noi seguendo il suggerimento di Giulio Andreotti (“a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca”) immaginiamo invece, è che la chiusura della ditta risponda a una triste e conosciuta strategia di ingegneria finanziaria.
La Lega ha le casse sfondate, quindi inservibile.
Metterla in liquidazione, magari dando la colpa ai giudici, è il miglior modo per sottrarsi alle responsabilità di aver partecipato in qualche modo all’utilizzo illegale dei fondi.
Farla divenire una bad company e trarre da questa operazione, che in Italia ha antichi maestri, il profitto politico necessario.
Presentare alle prossime europee un simbolo nuovo di zecca, senza debiti e soprattutto senza memoria. Un partito nuovo, per un centrodestra nuovo, con un leader nuovo di zecca: Matteo Salvini.
E chi si è visto, si è visto.
(da “il Fatto Quotidiano”)
argomento: denuncia | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
“IN 10 ANNI PERDEREMO 47.000 CAMICI BIANCHI, TRA 5 ANNI NON POTREMO CURARE 14 MILIONI DI PERSONE”
L’ultimo caso a Parma. Il concorso per medici di pronto soccorso e medicina d’urgenza bandito dall’azienda ospedaliera e universitaria è andato deserto.
L’assenza di candidati non ha sorpreso più di tanto visto che il precedente avviso per 23 posti aveva attratto appena nove adesioni.
Una volta gli specialisti si reclutavano al Sud e il fenomeno delle migrazioni di camici bianchi era intenso. Non succede più.
Anche da Roma in giù si fa fatica a riempire gli spazi lasciati vuoti da chi va in pensione. A Matera a un bando per 14 professionisti da distribuire tra pronto soccorso, radiologia e medicina generale non ha risposto nessuno.
Previsione molto negative
Sono solo alcuni dei tanti segnali di un allarme rilanciato a più mandate da sindacati, ordini di categoria e società scientifiche.
Gli emuli di Ippocrate sono in via di estinzione e i rincalzi stentano a farsi largo per una serie di ostacoli.
Gli ultimi dati aggiornati indicano una carenza di ospedalieri che fra dieci anni sarà di quasi 47.300 unità . La Federazione delle aziende sanitarie Fiaso e l’associazione dei dirigenti Anaao-Assomed calcolano che anche in caso di totale sblocco del turnover, rallentato nelle Regioni in piano di rientro per il deficit, non si riuscirà compensare nel prossimo quinquennio i dipendenti in uscita tra pensionati, prepensionati e fuggitivi verso il più remunerativo privato o l’estero.
La fuga dei medici di famiglia
E non va meglio tra i medici di famiglia. Nel 2028 se ne saranno andati in oltre 33mila secondo la stima elaborata dal sindacato Fimmg.
Soffrono in particolare alcune discipline (chirurghi, pediatri, anestesisti, ginecologi, medici di pronto soccorso) non più appetibili perchè sono le più esposte alle denunce del cittadino o perchè offrono meno sbocchi professionali.
Il problema però è trasversale ed è legato principalmente alla penuria di rincalzi. I laureati che arrivano alla specializzazione e la concludono sono insufficienti rispetto alle necessità sul campo. È il cosiddetto fenomeno dell’imbuto formativo. Le borse di studio costano alla sanità e le Regioni in difficoltà non possono permettersi di ampliarne il numero.
Il «tappo» dopo la laurea
In altre parole, i laureati ci sono, e quindi non è un problema causato dal numero chiuso di ingresso alle facoltà , ma restano ai blocchi di partenza in quanto non riescono a entrare nelle scuole dove i posti sono in numero limitato.
Stesso discorso per i medici di base che per diventare tali con l’abilitazione devono spartirsi 1.100 borse di studio all’anno.
Il segretario nazionale Silvestro Scotti è pessimista: «Tra cinque anni, 14 milioni di italiani resteranno senza assistenza di base».
Il presidente della federazione degli ordini dei medici Filippo Anelli chiede al governo di togliere i vincoli per il dopo laurea e di valutare la possibilità di mandare in corsia gli specializzandi dell’ultimo anno, soluzione che va studiata dal punto di vista legale e che potrebbe non essere praticabile.
Il ministro Giulia Grillo raccoglie l’allarme con un occhio ai giovani laureati: «Hanno ragione, il sistema va rivisto e lo stiamo facendo. Tra laurea e inizio dell’attività lavorativa ci deve essere continuità ». Intanto chiede alle Regioni di quantificare la carenza di personale negli organici e promette cambiamenti già nella prossima legge di Stabilità .
Le soluzioni tampone
Per i prossimi anni si troverà il modo di sbloccare questo circuito dannoso. E per l’immediato? Per ora le aziende sanitarie stanno adottando soluzioni tampone ad esempio con contratti a termine o rivolgendosi a cooperative di medici.
I giovani di Anaao scalpitano e ce l’hanno col ministro dell’Istruzione che ha aumentato di circa 600 il contingente di posti per i corsi di laurea in medicina e chirurgia.
Stimano che al prossimo concorso delle scuole di specializzazione si presenteranno in 16.400 per 6.200 contratti di specializzazione. Oltre diecimila giovani restano nel limbo.
(da “il Corriere della Sera”)
argomento: sanità | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
IN UN ANNO ATTIVATI 368.000 STAGE, MA LE PROSPETTIVE DI LAVORO NON CI SONO
In Italia nel 2017 sono stati attivati quasi 368.000 tirocini extracurriculari, il doppio dei 185.000
del 2012.
Molti fanno capo al programma Ue Garanzia giovani, varato con l’obiettivo di inserire i giovani che non lavorano e non studiano, ma che in molti casi finisce per finanziare situazioni di sfruttamento, senza sbocchi nè prospettive di lavoro.
Repubblica racconta oggi che Michele Tiraboschi di ADAPT ne ha raccolte alcune
«Etichettare come Garanzia giovani un annuncio che al massimo potrebbe andar bene per un lavoro socialmente utile degrada lo strumento, – denuncia – e suscita nei giovani risentimento verso le istituzioni. Le nuove linee guida sui tirocini intensificano i controlli, ma la verità è che chiunque può utilizzare un tirocinante per un anno per i lavori più umili senza alcun progetto formativo alle spalle e pagandolo un terzo del dovuto. Si va dal bidello all’addetto alle pompe funebri, ma ci sono anche le richieste di professionisti abilitati, nonostante il divieto posto dalla legge».
La pioggia di tweet del professor Tiraboschi ha suscitato la reazione risentita di Sonia Palmeri, assessore al Lavoro della Campania, regione chiamata in causa per i troppi annunci di tirocini “truffa”: «Non tutti possono partecipare a corsi di alta formazione, ci sono tanti giovani che hanno bisogno di una chance, e il programma di Garanzia giovani lo è stata per moltissimi di loro. – dice – Oltre 22.000 le assunzioni solo in Campania, di cui oltre il 50% a tempo indeterminato al termine dello stage. Lo stage ha l’obiettivo di conoscere il mondo del lavoro e di farsi conoscere, io stessa ho iniziato così»
(da “NextQuotidiano”)
argomento: Lavoro | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
L’EMIGRATO CHE DA SPAZZINO DIVENNE UN GRANDE POLIZIOTTO IN UN PAESE DOVE L’ITALIA ESPORTO’ MIGLIAIA DI MAFIOSI… PETROSINO RISCATTO’ LA NOSTRA IMMAGINE
All’inizio del ventesimo secolo, è cosa nota, gli italiani negli Stati Uniti non godevano di buona fama.
Eppure, fu proprio in quel periodo che cominciarono ad assurgere a una notorietà internazionale due italiani destinati a rimanere nella storia, anzi, a entrare nel mito. Due italiani come il tenore Enrico Caruso e il poliziotto Giuseppe “Joe” Petrosino
I due si conobbero in una circostanza molto particolare.
Nel 1903 Caruso arrivò negli States dove, il 23 novembre, esordì col Rigoletto al Metropolitan di New York. La performance ebbe un successo travolgente e Caruso si esibì per numerose serate. Una di queste, però, rischiava di essere l’ultima per il tenore di origini partenopee. Ma, per fortuna di Caruso, quella sera tra il pubblico del teatro newyorchese era presente Petrosino, che con grande entusiasmo si era recato, dopo il servizio, ad assistere allo spettacolo in cui, finalmente, grazie al tenore, «si parlava bene di un italiano».
Finita la rappresentazione, il poliziotto aspettò incuriosito vicino alla macchina dell’artista per poterlo vedere da vicino e, magari, stringergli la mano
La macchina era lì, pronta e scintillante. Il tenore, uscito dal teatro, fu presto in mezzo a due ali di folla. Lo sguardo del poliziotto, però, fu attratto da un qualcosa che non tornava, un’anomalia: il cofano dell’auto sembrava manomesso.
Petrosino, che era anche un esperto artificiere, si fece largo tra la folla e, urlando, bloccò l’autista che stava per mettere in moto. Il poliziotto si qualificò, fermò Caruso, fece scendere il suo autista e aprì il cofano: qualcuno aveva posizionato una bomba con innesco a orologeria che, si scoprirà dopo un attento esame, sarebbe esplosa otto minuti dopo la partenza
Caruso, il volto paonazzo, ancora frastornato, ringraziò e volle sapere il nome del suo salvatore. Il poliziotto, basso, tarchiato, il petto prominente e il volto segnato dal vaiolo, si presentò: sergente Joe Petrosino.
Ma, spiegarono a Caruso i suoi collaboratori, Petrosino non era un poliziotto normale: da semplice spazzino, per la sua intelligenza e il suo coraggio, era stato assunto nel dipartimento di Polizia.
Si era fatto subito notare per gli importanti risultati ottenuti nella lotta al crimine, tanto che tra i suoi ammiratori c’era Theodore Roosvelt, futuro presidente degli Stati Uniti, che aveva detto: «Petrosino è nato poliziotto e non sa cosa sia la paura»
Come ricorda ad “Avvenire” il pronipote Nino Melito Petrosino, autore del recente libro L’incorruttibile (in cui ripercorre le gesta di Joe attraverso i ricordi familiari, in particolare del nonno Michele, l’unico tornato in Italia dall’America), fra Caruso e Petrosino ci fu subito un sentimento di fratellanza, lo stesso che si ha tra connazionali che si ritrovano in terre straniere.
Entrambi italiani, entrambi campani, entrambi emigrati (anche se per ragioni totalmente diverse). Caruso rimase favorevolmente colpito da quel suo strano connazionale e, in segno di gratitudine, gli fece pervenire un disco d’oro che il poliziotto apprezzò molto.
Petrosino era un grande appassionato di musica. Arrigo Petacco, nella sua famosa biografia, ricordava che Petrosino si vantava di aver studiato l’arpa a Napoli. Nella casa museo Petrosino a Padula, addirittura, una stanza è stata dedicata al rapporto del poliziotto con la musica: vi sono conservati la chitarra con cui Joe accompagnava la sorella Caterina che cantava canzoni della tradizione partenopea e il violino che aveva imparato a suonare nel silenzio del suo appartamento.
Dopo il primo, adrenalinico, incontro, Caruso fu costretto di nuovo a rivolgersi al mastino italiano.
La Mano Nera lo stava taglieggiando ormai da tempo: prima con una richiesta di pizzo di duemila dollari e poi con una seconda di quindicimila. Il temutissimo boss Ignazio Lupo era stato chiaro: o pagare o morire, e il tenore si sarebbe aggiunto all’elenco di oltre sessanta omicidi da lui realizzati.
Petrosino usò Caruso come esca e riuscì ad arrestare gli scagnozzi della Mano Nera per poi avviare indagini che porteranno, qualche anno dopo, agli eclatanti arresti di Ignazio Lupo e Giuseppe Morello, capi della mafia newyorchese.
La brutta esperienza di Caruso con la Mafia sembrava finita qui, ma, probabilmente il cantante non aveva capito bene la lezione, oppure era stranamente attratto da questi ambienti. Si legò infatti con una singolarissima amicizia al capomafia di Chicago, Giacomo “Big Jim” Colosimo.
Big Jim era un tipo totalmente opposto rispetto a Lupo e Morello. Uomo dai gusti raffinati, aveva avviato un giro di bordelli di lusso e locali alla moda, oltre a essere un noto melomane.
Come spiega molto bene il giornalista Rai Michele Bovi nel recente Note segrete (un interessante libro edito da Graphofeel che prende in esame l’inedito rapporto tra crimine e musica) «con Colosimo si sviluppò un nuovo metodo di gestire le comunità italiane d’America, non più fondato su sopruso e soggezione: Cosa Nostra sembrava prendersi cura dell’immagine della confraternita di immigrati, giocando molto sulla nostalgia incrementata in particolare attraverso la canzone, il repertorio italiano e soprattutto il partenopeo. Si rafforzerà negli anni Venti la consuetudine di invitare artisti italiani per lunghe tournèe nelle città statunitensi che ospitavano nutrite comunità tricolori, sponsorizzate palesemente da Cosa Nostra. La canzone divenne così il più importante strumento di aggregazione sociale».
Una storia lunga e complessa quella del rapporto tra mafia (e organizzazioni criminali più in generale) e musica, nata proprio nei primissimi anni del Novecento a New York.
Non a caso, come fa notare Bovi, quando Bernardo Provenzano fu arrestato, nel 2006, nel suo covo, fu trovata una pila di musicassette. Provenzano si era nascosto nella masseria di Montagna dei Cavalli, vicino a Corleone, da dove, tanti anni prima, erano partiti Morello e Lupo, i mafiosi contro cui aveva lottato Petrosino, il poliziotto amico del tenore Caruso che aveva detto: «la vita mi procura molte sofferenze. Quelli che non hanno mai provato niente, non possono cantare».
(da Globalist)
argomento: radici e valori | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
L’ESPLOSIONE VICINO ALL’AMBASCIATA ITALIANA… ALTRO CHE PORTI SICURI, E’ A RISCHIO PERSINO LA NOSTRA SEDE DIPLOMATICA GRAZIE ALLA SCONSIDERATA POLITICA DEL NOSTRO GOVERNO
Non ha colpito l’obiettivo. Ma quell’esplosione a poche centinaia di metri dalla nostra Ambasciata
ha il sapore, acre, di un avvertimento: per l’Italia in Libia non sono solo i porti a non essere sicuri, ma ora anche le sedi diplomatiche.
Perchè non è più sicura Tripoli, e perchè l'”uomo di Roma”, il premier del governo di Accordo Nazionale, Fayez al-Serraj non riesce più a controllare neanche i quartieri dove è insediato.
Fonti diplomatiche hanno spiegato che l’ambasciata non è stata coinvolta nell’attacco e che il personale diplomatico italiano è illeso.
“Un colpo di mortaio si è abbattuto sull’hotel Al-Waddan facendo tre feriti fra i civili dopo la violazione della tregua, ha annunciato il portavoce del Servizio di soccorso e urgenze, Osama Ali”, riferisce il sito Alwasat.
Il portavoce ha aggiunto che “e un bombardamento di razzi indiscriminato e sporadico contro diverse aree prosegue da sabato mattina”, scrive ancora il sito aggiungendo che “un obice si è abbattuto su un’abitazione nella zona di Ashour senza causare perdite di vite umane”.
A Tripoli sono iniziati la scorsa settimana nuovi scontri — 39 morti e 119 feriti- che continuano nonostante l’accordo per il cessate —il- fuoco raggiunto martedì tra governo di accordo nazionale e milizie rivali.
Sabato mattina la Commissione per la riconciliazione, composta da rappresentanti di Tarhuna, Misurata, Zawiya, Tripoli e Zintan, aveva annunciato che era stato raggiunto un accordo per una nuova tregua, la terza in quattro giorni, riporta il sito d’informazione Libya Observer.
Era dunque prevista l’immediata cessazione delle ostilità e l’ingresso di una forza neutrale a Tripoli composta da “forze delle zone militari occidentali e centrali”. L’intesa prevede, inoltre, che si tenga una nuova riunione venerdì prossimo per “allentare le tensioni tra i gruppi in conflitto e cementare il processo di riconciliazione”, come evidenziato in un comunicato della Commissione.
La Settima brigata di Tarhuna, milizia dipendente dal ministero della Difesa del governo di accordo nazionale che nei giorni scorsi ha dato il via agli scontri, ha annunciato che rispetterà l’accordo dopo una “mediazione delle tribù”.
La Settima brigata, che inizialmente aveva respinto il cessate il fuoco, ha attaccato gruppi fedeli al premier Fayez al-Serraj accusandoli di essere corrotti.
Ma il caos armato non si ferma. “Le parti belligeranti hanno concordato un cessate il fuoco”, scrive sempre il sito Alwasat riferendosi al terzo cessate il fuoco annunciato ieri negli scontri in corso da lunedì fra la milizia ribelle (detta anche “Kany»” e le formazioni al momento fedeli al governo del premier Fayez al Serraj.
“Tuttavia – aggiunge Alwasat – i bombardamenti sporadici di razzi non hanno mai cessato visto che sono ripresi stamattina dopo che già di 15 obici erano caduti ieri sul quartiere Suk El Giuma (nella parte est della capitale).
Un “razzo” ha colpito anche la sede del Consiglio dei ministri del Governo di accordo nazionale nel pieno centro di Tripoli senza causare vittime, riferisce Alwasat citando il portavoce del “Servizio di soccorso e urgenze”. I combattimenti più recenti hanno aggravato il dramma dei migranti chiusi e abbandonati nei centri detentivi del governo vicini agli scontri.
L’Unhcr, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati, ha fatto sapere a inizio settimana di aver contribuito all’evacuazione di centinaia di persone: 300 di loro, provenienti per la maggior parte da Eritrea, Etiopia e Somalia, sono state trasferite in un centro «relativamente più sicuro», ha dichiarato l’Unhcr, un luogo dove le organizzazioni internazionali possono prestare aiuto.
Nei giorni scorsi l’Organizzazione internazionale dell’Onu per i migranti (Oim) aveva denunciato che i 150 migranti africani respinti dal governo italiano per dieci giorni nel confronto con la Ue erano rimasti anche fino a due anni nelle mani dei trafficanti. Molti di loro erano stati picchiati, torturati e violentati. I loro racconti erano stati raccolti dal personale dell’Oim e dai medici italiani.
I governi di Italia, Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna sempre sabato hanno diffuso un comunicato congiunto in cui “condannano fermamente la continua escalation di violenza a Tripoli e nei suoi dintorni, che ha causato molte vittime e che continua a mettere in pericolo la vita di civili innocenti”.
Ma i comunicati congiunti non devono trarre in inganno.
In Libia si sta giocando una partita — che tiene assieme geopolitica, affari, petrolio, migranti — che vede Roma e Parigi su fronti contrapposti.
Nei giorni scorsi Emmanuel Macron ha ribadito la sua determinazione a portare avanti l’accordo concluso a maggio a Parigi fra le diverse parti in causa in Libia che prevede in particolare l’organizzazione di elezioni a dicembre. “Credo molto profondamente al ripristino della sovranità libica – ha detto il capo dell’Eliseo davanti agli ambasciatori di Francia – in questo Paese diventato teatro di tutti gli interessi esterni, il nostro ruolo è far avanzare l’accordo di Parigi”.
Si dipana così la “guerra delle cabine” di regia nella crisi libica. Parigi versus Roma. Un passaggio cruciale di questa “guerra delle cabine” si avrà entro l’autunno, quando dovrà svolgersi la Conferenza internazionale promossa da Italia e Usa.
Alla Farnesina non hanno dubbi: la Francia muoverà le sue pedine, anzitutto interne alla Libia, per depotenziare al massimo quell’evento. Parigi mantiene il punto sulle elezioni in Libia, che vorrebbe vedere realizzate entro dicembre.
Una linea sostenuta anche dall’Egitto del presidente al-Sisi e, anche se in modo più sfumato, dalla Russia e dagli Emirati Arabi Uniti: vale a dire i Paesi che hanno puntato sulla vittoria dell’uomo forte della Cirenaiaca: il generale Khalifa Haftar.
Lo scorso 23 luglio, il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian ha fatto il tour dei principali responsabili del Paese nordafricano, per fare pressione proprio sul voto da organizzare e che buona parte della Comunità internazionale, Italia compresa, ritiene prematuro nei tempi prospettati da Parigi.
“A Parigi, i responsabili libici si sono impegnati a tenere elezioni presidenziali e legislative sulla base di un preciso calendario, di qui alla fine dell’anno”, ha insistito il capo della diplomazia francese a conclusione di un incontro con al-Serraj, a Tripoli. “E quello a cui aspirano i cittadini libici.
E’ il cammino da seguire e sono venuto a ricordare tali impegni e il calendario a coloro che li hanno presi e a condividere questo passo con quanti non erano a Parigi il 29 maggio”. Il titolare del Quai d’Orsay si è recato nelle roccaforti di tutti i protagonisti dell’accordo di Parigi.
Oltre a Serraj e al presidente del Consiglio di Stato (la camera alta) Khlaled al-Mechri, entrambi a Tripoli, l’emissario francese ha incontrato Haftar nel suo quartier generale di Bengasi e il presidente della Camera dei rappresentanti, Aguila Salah, a Tobruk, 1.200 chilometri ad Est dalla capitale.
I responsabili consultati da Le Drian si sono impegnati a organizzare le elezioni il 10 dicembre e a procedere a una riunificazione del Paese, a cominciare dalla Banca centrale, cruciale per il controllo delle entrate dall’estrazione del petrolio.
La Francia “appoggia gli sforzi di tutti” coloro che vogliono arrivare ad elezioni nei tempi concordati a Parigi, ha martellato Le Drian, alla sua terza trasferta in Libia. Il ministro degli Esteri ha annunciato un contributo francese di un milione di dollari (850mila euro) per l’organizzazione degli scrutini. Le Drian ha anche fatto tappa a Misurata, città costiera 200 chilometri a Est di Tripoli, controllata da potenti milizie e non associata al processo di Parigi. Qui ha incontrato il sindaco Mustafa Kerouad, degli eletti locali e dei deputati.
Per sabotare la cabina di regia italiana, sottolineano a Roma, Parigi “userà ” i suoi più fedeli alleati libici, a cominciare dall’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar.
Un avvisaglia in proposito si è avuto lo scorso 8 agosto, quando il parlamento di Tobruk, saldamente in mano ai fedelissimi di Haftar, ha dichiarato l’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone persona non grata: è quanto si legge in documento del Comitato affari esteri del parlamento di Tobruk, pubblicato i dal giornalista libico Faraj Aljarih.
Nel documento si condannano “nei termini più forti” le dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatore “a un’emittente satellitare” sulle elezioni in Libia, “in cui ha chiesto con insistenza di rinviare le elezioni”, considerate una “flagrante interferenza negli affari interni della Libia, una violazione pericolosa alla sovranità nazionale e un’aggressione alla scelta del popolo libico”.
“Un’offesa che richiede le scuse italiane”, si legge nel documento. Il portavoce di Haftar, Ahmed Mismari, ha addirittura chiesto aiuto alla Russia perchè intervenga in Libia per rimuovere “dall’arena libica Turchia, Qatar, Sudan e in particolare l’Italia”, dal momento che se “la Francia vuole tenere le elezioni (entro l’anno), l’Italia si è detta contraria… noi concordiamo con la Francia: vogliamo tenere le elezioni quest’anno”.
E chi è contrario, diventa un bersaglio.
(da “Huffingtonpost”)
argomento: denuncia | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
I PROGETTISTI DI AUTOSTRADE AVEVANO SOLLECITATO IL MINISTERO: “LESIONI LARGHE VERTICALI NEI PILONI, RIGONFIAMENTI NEL CALCESTRUZZO, APPOGGI OSSIDATI”… IL MINISTERO DI TONINELLI HA IMPIEGATO OTTO MESI PER RISPONDERE
Andava migliorato il livello di sicurezza del ponte Morandi a Genova: è questo il motivo con cui Autostrade per l’Italia giustifica dieci mesi fa i lavori di potenziamento.
Ma nel progetto esecutivo inviato il 3 novembre 2017 al ministero delle Infrastrutture, l’informazione non è scritta in modo esplicito.
La ragione dell’intervento è invece spiegata con una sigla in codice: «Art.2.2 lettera C5 della Convenzione unica». Bisogna poi consultare l’accordo del 2007 tra Stato e società di gestione per trovare la risposta: eccola, a pagina 7 nel capitolo «C) Altri investimenti. Trattasi di interventi di ammodernamento e rinnovo della rete in concessione».
Al punto 5 si legge: «Miglioramento standard di sicurezza». Ma quanti tra i tecnici-controllori del Provveditorato alle opere pubbliche di Genova e della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali hanno controllato il significato?
Nel momento in cui Autostrade si rende finalmente conto che deve intervenire sul viadotto, crollato il 14 agosto con la morte di 43 persone, i progettisti della società pensano subito alla sicurezza. Avrebbero potuto giustificare la spesa di venti milioni come «Adeguamento e potenziamento rete autostradale» o come «Altri interventi di miglioramento e di manutenzione capitalizzati», così come è indicato ai punti 3 e 7 della stessa convenzione. Ma loro scelgono proprio il punto 5: è il miglioramento degli standard di sicurezza la ragione dei lavori
Ed è sempre la sicurezza il 28 febbraio 2018 a spingere il direttore delle manutenzioni di Autostrade, Michele Donferri Mitelli, a scrivere al Provveditorato di Genova e alla Direzione vigilanza del ministero , per sollecitare il via libera al progetto esecutivo: «Si ritiene, in considerazione del protrarsi dei tempi di approvazione, che l’intervento non possa essere in esecuzione prima del secondo semestre 2019 o inizio 2020. Tale circostanza comporterebbe una serie di ripercussioni… per l’incremento di sicurezza necessario sul viadotto Polcevera», che è l’altro nome con cui viene chiamato il ponte progettato e costruito cinquant’anni fa da Riccardo Morandi.
La società concessionaria replica con un comunicato che la lettera di Donferri Mitelli è una «ordinaria comunicazione con cui la competente Direzione del ministero delle Infrastrutture viene sollecitata per l’approvazione del progetto di miglioramento delle caratteristiche strutturali del viadotto Polcevera, per il quale era già stato prodotto il parere favorevole del Provveditorato alle opere pubbliche di Genova, tenuto conto che il tempo di approvazione da parte del ministero si stava protraendo oltre il termine dei novanta giorni».
La pagina 6 della relazione che accompagna il progetto esecutivo sembra dar ragione ad Autostrade.
È infatti scritto: «L’intervento proposto… è pertanto da considerarsi come un vero e proprio provvedimento migliorativo… che allunga la vita utile di questi elementi, fondamentali per la statica del ponte, incrementando così il valore del cespite». Solo traducendo la sigla «art.2.2 lettera C5 della Convenzione unica» si scopre il vero significato dell’intervento
Il collasso del pilone 9, forse provocato dal contemporaneo cedimento dell’appoggio di una “sella Gerber” del piano autostradale al passaggio di un Tir, dimostra oggi come il miglioramento degli standard di sicurezza fosse più che mai urgente e necessario. Sentite cosa scrivono alle pagine 24 e 25 gli autori del progetto esecutivo, dopo aver dedicato altre pagine a elencare i difetti dei tiranti degli stralli
Ecco: «Descrizione difetti pile n. 9-10 ed impalcati tra pila n.9 e pila n.11. I difetti riportati sono stati estrapolati dal rapporto trimestrale STOone, allegato alla presente relazione. Pile-elevazioni: lesioni ramificate capillari con risonanze e fuoriuscita di umidità , sulla malta di ripristino; lesioni larghe verticali con estese risonanze, sugli spigoli nella parte alta di quasi tutte le pile. Antenne-stralli: lesioni ramificate capillari con fuoriuscita di umidità (bulbi di attacco degli impalcati); malta di ripristino risonante, interessata da lesioni ramificate capillari con fuoriuscita di umidità con distacchi; placche risonanti evidenziate da lesioni (2° sistema bilanciato). Impalcati travi: evidenti lesioni agli spigoli con risonanze (travi in corrispondenza delle Gerber e dei giunti); zone risonanti con lesioni in mezzeria (intradosso 4° trave, impalcato E11); lesioni ramificate capillari e longitudinali con fuoriuscita di umidità (intradosso bulbo campata E11); calcestruzzo dilavato ammalorato con distacco malta di ripristino (testate travi di bordo in corrispondenza dei giunti). Impalcati traversi: evidenti lesioni agli spigoli con risonanze, ferri di armatura ossidati dovuti al copioso dilavamento dell’acqua provocata dai giunti (traversi di testata); spigoli risonanti in distacchi (traversi di mezzeria). Impalcati solette: efflorescenze e ferri scoperti ossidati (intradosso). Impalcati cassoni: lesioni trasversali passanti su anima e controsoletta (cassoni pila n.11, lato Savona); lesioni e rigonfiamento malta da ripristino con risonanze in corrispondenza delle staffe ed agli spigoli (pareti esterne); lesione larga longitudinale a tratti interessata da vespai con ferri in vista ossidati (intradosso impalcato E6); calcestruzzo dilavato, ammalorato evidenziato da rigonfiamenti con zone risonanti e lesionate, con vespaiosità e ferri ossidati (ferri dei cassoni). Appoggi-apparecchi: appoggi fortemente ossidati (tutti gli appoggi fissi). Appoggi-baggioli: lesioni ramificate con fuoriuscita di umidità e calcestruzzo dilavato ammalorato (baggioli in calcestruzzo presenti sulle selle Gerber)».
La relazione è firmata dagli ingegneri della Spea Engineering, società di progettazione di Autostrade, Emanuele De Angelis e Massimiliano Giacobbi con la collaborazione di Barbara Iuliano. Dei contenuti del progetto sono ovviamente al corrente il direttore della manutenzione, Donferri Mitelli e il responsabile unico del procedimento, Paolo Strazzullo.
Per il ruolo che ricoprono al ministero delle Infrastrutture, dovevano essere a conoscenza dei dettagli del progetto anche il capo della Direzione generale per la vigilanza sulle concessionarie autostradali, Vincenzo Cinelli, figura che riferisce sia al capodipartimento Infrastrutture, sia al capo di gabinetto del ministero, sia al ministro; il dirigente della Vigilanza, capo della Divisione 1 vigilanza tecnica-operativa, Bruno Santoro, che ora si trova nel doppio ruolo di commissario d’inchiesta del ministro Danilo Toninelli nonchè ex consulente di Autostrade retribuito fino al 2013 dalla società privata con 70 mila euro; il capo dell’Unità ispettiva territoriale di Genova, Carmine Testa; il provveditore alle opere pubbliche di Genova, Roberto Ferrazza; gli altri nove membri del comitato tecnico amministrativo del Provveditorato che hanno votato il progetto; gli ingegneri del Provveditorato Giuseppe Sisca e Salvatore Buonaccorso e i membri esterni Mario Servetto e Antonio Brencich che con Ferrazza il primo febbraio 2018 hanno firmato il verbale di approvazione del progetto esecutivo, senza però prescrivere misure di sicurezza, come la deviazione del traffico pesante e la riduzione delle corsie, per alleggerire le fatiche del ponte ormai pieno di lesioni.
Il decreto di approvazione del progetto viene rilasciato dalla Direzione generale per la vigilanza otto mesi dopo la consegna soltanto a giugno 2018, due mesi prima del crollo.
I tecnici del ministero delle Infrastrutture e gli ingegneri di società Autostrade sono tutti testimoni, per l’indagine della Procura di Genova, su come con un po’ di zelo in più controllori e controllati avrebbero potuto salvare quarantatrè vittime innocenti
(da “L’Espresso”)
argomento: denuncia | Commenta »
Settembre 1st, 2018 Riccardo Fucile
SUCCEDE A VERONA, INSORGONO IN MOLTI: “QUEL RAGAZZO PULIVA E NON FACEVA NULLA DI MALE”… ORA SI RACCOLGONO I SOLDI PER PAGARGLI LA MULTA
Se ne vedono tanti come Daniel, 29enne nigeriano che, in cambio di qualche spicciolo, puliva le
strade di Verona.
Ma alla città numero uno in Italia per l’intolleranza non piaceva che un immigrato pulisse le sue strade e alcuni onesti cittadini hanno ben deciso di allertare i vigili.
Che prontamente sono intervenuti, multando Daniel con 100 euro per “condotte che limitavano la libera accessibilità e fruizione delle infrastrutture”, con l’aggravante della “violazione delle norme del regolamento di decoro urbano in quanto svolgeva azioni di accattonaggio”.
Il che, a ben vederlo, è un paradosso davvero inconcepibile.
Lo stesso pensano alcuni cittadini di Borgo Trento, che hanno fatto partire online una petizione per pagare la multa per conto di Daniel: “Vorrei partecipare al pagamento dell’ignobile sanzione, quel ragazzo puliva e finalmente si camminava su quelle strade” si legge nel comunicato.
Con la diffusione della notizia, è montata anche la polemica in città . L’assessore alla sicurezza Daniele Polato, sentito da L’Arena, commenta: “Esiste un regolamento di polizia urbana e gli agenti, se chiamati a intervenire, sono obbligati a recarsi sul posto e applicare le regole, che sono uguali per tutti”.
Mentre Sinistra in Comune, sempre da come riporta il quotidiano cittadino, chiede al sindaco, “in nome del buon senso, annullare le ammende contro chi ha pulito volontariamente, dando il buon esempio, parti della nostra città “.
Intanto sui social la polemica continua.
(da Globalist)
argomento: Razzismo | Commenta »