Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
IL PROFESSORE CHE LO AVREBBE ESAMINATO LO AVEVA NOMINATO PRESIDENTE DI UN ARBITRATO DA 27 MILIONI DI EURO, UN EVIDENTE CONFLITTO DI INTERESSI
Due settimane fa il premier Giuseppe Conte (dopo che alcuni media internazionali hanno
rilanciato l’inchiesta dell’Espresso che lo scorso giugno svelò tutti i dettagli del concorso universitario a cui il presidente del Consiglio stava partecipando) è stato costretto a una repentina marcia indietro, abbandonando la corsa alla cattedra della Sapienza che fu del suo maestro Guido Alpa.
Ora l’Espresso ha scoperto — analizzando report economici, documenti interni all’ateneo e intervistando membri della commissione giudicante dell’ateneo romano — nuove incompatibilità ed evidenti conflitti di interessi nella genesi del concorso, nella composizione della commissione giudicante, nei profili dei professori che avrebbero dovuto valutare i titoli di Conte.
Il presidente della commissione, indicato il 13 marzo 2018 dall’ateneo a pochi giorni dalla chiusura del bando, è infatti il professor Enrico Del Prato, direttore del dipartimento di Scienze giuridiche che ha bandito il concorso.
Del Prato è arrivato alla Sapienza nel 2013 dall’università di Macerata. Vincendo una selezione anche grazie al giudizio entusiasta di un collegio presieduto proprio da Alpa, maestro e collaboratore di Conte.
Ma Del Prato a giugno del 2017 – prima del bando romano – aveva pure indicato Conte come presidente di un arbitrato milionario alla Camera arbitrale di Milano, nel quale lo stesso Del Prato era arbitro di parte.
Si tratta della delicata causa internazionale tra la Sogered, una società dell’Arabia Saudita, e la nostra Leonardo-Finmeccanica, il cui arbitro di parte è invece l’avvocato Giorgio De Nova.
Valore della lite: 27 milioni di euro complessivi, di cui 18 milioni pretesi dagli arabi e nove richiesti da Leonardo con una contro-domanda. L’arbitrato inizia nella primavera dell’anno scorso.
A fine giugno del 2017 i due co-arbitri indicati dalle due società contendenti devono indicare un presidente del collegio. E decidono di scegliere l’avvocato Conte.
Un incarico che il professore mantiene per quasi un anno. Anche dopo la sua decisione di partecipare al concorso della Sapienza.
Anche dopo il 13 marzo 2018, quando il suo co-arbitro Del Prato viene indicato dall’ateneo romano come presidente della commissione d’esame che avrebbe giudicato i suoi titoli nei mesi successivi.
Durante la procedura concorsuale, dunque, si verifica il rischio di una doppi incompatibilità : quella di Del Prato futuro “giudice” di Conte e quella di Conte, diventato ago della bilancia di una lite milionaria proprio per volontà di Del Prato.
Per mesi nessuno dei due fa un passo indietro.
Conte lascerà l’arbitrato solo il 25 maggio, spiegando in una lettera (come ci ha confermato De Nova) di declinare l’incarico nell’arbitrato solo a seguito della chiamata di Sergio Mattarella.
Del Prato spiega oggi che non esisteva alcuna questione di incompatibilità tra concorso e arbitrato. «Non faremmo mai scorrettezze. Tutti noi teniamo alla nostra buona fama» si giustifica. «Inoltre — a parte le “voci” lette sul pezzo dell’Espresso – ho conosciuto ufficialmente i nomi dei candidati al concorso solo il primo agosto, come prevede il regolamento dell’ateneo. Conte non mi aveva mai detto che aveva partecipato al bando. Nemmeno durante le udienze dell’arbitrato avute ad aprile».
Oggi la lite è ancora pendente e ha un nuovo presidente, l’avvocato francese Alexis Mourre.
Se Conte non si fosse dimesso per l’incarico avuto da Mattarella, avrebbe guadagnato, grazie all’indicazione di Del Prato e De Nova, un bel gruzzoletto.
«Non esageriamo con le cifre però» dice ancora Del Prato. «Sono tariffe prestabilite dalla Camera arbitrale di Milano: credo che alla fine, per un arbitrato di questa entità , non si arriverà a più di 200-300 mila euro, da dividere per tutti e tre gli arbitri. Io per me ho indicato, nella richiesta di autorizzazione che ho mandato alla Sapienza, un compenso ipotetico di 80 mila euro».
Altro mistero: come poteva Del Prato, che come direttore del dipartimento di scienze giuridiche ha l’obbligo del “tempo pieno”, essere arbitro di una lite milionaria?
La legge Gelmini prevede infatti che gli avvocati che puntano sulla carriera universitaria non possano esercitare la professione, mentre all’Espresso risulta che il professore Del Prato abbia fatto altri arbitrati e più di un parere.
E che esista, in viale Bruno Buozzi a Roma, uno “studio Del Prato” a lui riconducibile.
Il docente spiega così la sua posizione. «Io prima facevo l’avvocato in proprio, e non avevo mai avuto uno studio associato. Quando i miei colleghi della Sapienza mi hanno sollecitato a fare direttore dipartimento a tempo pieno, io ho detto di sì. Ma volevo evitare di disperdere la mia clientela. Così, dopo averne parlato con il rettore e gli uffici preposti dell’ateneo e aver studiato la legge Gelmini che permette attività di consulenza, ho deciso di costituire un nuovo studio associato fatto su misura per le mie esigenze. Nel quale io non potessi fare attività professionale o prendere incarichi, ma seguire le attività consentitemi dalla Gelmini».
Del Prato ammette che tutta l’operazione fu «prospettata all’ateneo, che mi autorizzò».
Il direttore del dipartimento, alla fine della fiera, è così diventato consulente dello stesso studio di cui lui è associato principale, tanto da portare il suo nome nel marchio. «È tutto regolare», conclude.
(da “L’Espresso”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
LE BALLE DEL MAGGIORDOMO DI MAIO PER COMPIACERE I RAZZISTI, MA LA LEGGE VIETA DISCRIMINAZIONI
Ieri il ministro Giovanni Tria ha scatenato il panico nella maggioranza quando ha spiegato che in base alla proposta di legge sul Reddito di Cittadinanza presentata dal MoVimento 5 Stelle anche i cittadini stranieri residenti nel nostro Paese avranno diritto alla misura di sostegno al reddito alla quale sta lavorando il governo del cambiamento.
Subito il ministro dello Sviluppo Economico Luigi Di Maio è intervenuto per tranquillizzare gli animi (leghisti) e spiegare che il reddito di cittadinanza sarà solo per i cittadini italiani. Davvero?
Di Maio intervenendo a Radio Anch’io ha detto che «Abbiamo corretto quella proposta di legge anni fa, è singolare che torni in auge la prima proposta che era del 2014 e non prevedeva ancora la platea, quindi si rivolgeva per forza a tutti».
In realtà la proposta del MoVimento 5 Stelle era del 2013 e definiva in maniera molto precisa la platea dei beneficiari.
Si legge infatti che il reddito di cittadinanza è «l’insieme delle misure volte al sostegno del reddito per tutti i soggetti residenti nel territorio nazionale che hanno un reddito inferiore alla soglia di rischio di povertà ». Più oltre viene precisato che hanno diritto al reddito di cittadinanza tutti i soggetti che hanno compiuto il diciottesimo anno di età , che risiedono nel territorio nazionale e che hanno la cittadinanza italiana oppure provengono da paesi UE oppure da paesi che hanno «sottoscritto convenzioni bilaterali di sicurezza sociale» (qui la lista sul sito dell’Inps).
Di Maio poi ha continuato spiegando che «Certamente con i flussi migratori irregolari che ci sono oggi è impossibile fare il reddito di cittadinanza senza sapere qual è la platea ed è ovvio che si deve restringere ai cittadini italiani. La prima forma della proposta era molto vaga, è stata corretta nel 2016».
Ora però non risulta che sia stata presentata una nuova proposta di legge, non ci sono emendamenti al testo originale e quella del 2013 è l’unica “ufficiale”.
Sul sito del MoVimento 5 Stelle è pubblicato un volantino dove vengono elencati i requisiti per chiedere il reddito di cittadinanza, ma il possesso della cittadinanza italiana non è tra questi.
Infine Di Maio cita il “pericolo” rappresentato dai flussi in ingresso di immigrati irregolari.
Ma è evidente che quando si parla di reddito di cittadinanza agli stranieri si intende coloro che sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno e possono quindi iscriversi ai centri per l’impiego.
Al solito però il Capo Politico del MoVimento 5 Stelle preferisce alimentare la confusione tra migranti irregolari (che però potrebbero benissimo essere richiedenti asilo ai quali verrà concesso lo status di rifugiato politico e quindi il permesso di soggiorno) e lavoratori stranieri in regola (ad esempio coloro che entrano in Italia passando per le maglie strettissime del decreto flussi annuale).
Perchè sarebbe illegale escludere tutti i cittadini stranieri dal Reddito di Cittadinanza
Secondo Di Maio (e per la gioia di Salvini) c’è una proposta di legge che esclude dalla platea dei beneficiari i lavoratori stranieri. Matteo Salvini si è detto sicuro che “verrà limitato solo agli italiani”.
Non sappiamo se Di Maio intende escludere anche i cittadini comunitari oppure solo quelli provenienti dai paesi extra-UE.
In ogni caso è difficile che il governo possa escludere tutti gli stranieri regolarmente residenti in Italia dalla platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza.
Sicuramente in base alla direttiva 2011/98/UE (che non ammette deroghe) non si potranno escludere i tanti cittadini comunitari che vivono e lavorano nel nostro Paese. Spesso considerati stranieri di serie A, ma pur sempre stranieri.
E se pensiamo che c’è gente che ancora definisce i cittadini romeni “extracomunitari” la cosa riserverà sicuramente delle belle sorprese.
Attualmente i cittadini stranieri regolarmente residenti hanno accesso alle graduatorie per l’assegnazione degli alloggi popolari.
Per quale motivo si dovrebbe negare l’accesso al reddito di cittadinanza, dal momento che è basato sull’ISEE?
Prendiamo ad esempio il REI, il Reddito di Inclusione varato nel 2017. Per poter accedere al REI è necessario che il richiedente sia «residente in Italia, in via continuativa, da almeno due anni al momento di presentazione della domanda». Anche il bonus bebè non può essere limitato ai soli figli di italiani, lo ha stabilito una sentenza del tribunale di Milano.
Inoltre, come ricorda l’avvocato Maurizio De Stefano ci sono alcune sentenze con le quali la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme «riguardanti l’assistenza sociale degli stranieri extracomunitari, fondando tale declaratoria anche sul principio di non discriminazione affermato dall’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo».
Ma c’è di più.
In Lombardia, una regione che da decenni è governata da Lega e centrodestra il “bonus famiglia” del Reddito di Autonomia viene erogato a tutte le famiglie vulnerabili con presenza di donne in gravidanza e famiglie adottive che soddisfano i seguenti requisiti: «residenza continuativa in Lombardia per entrambi i genitori da almeno 5 anni o del solo genitore se famiglia monogenitoriale; indicatore ISEE di riferimento non superiore a euro 20.000,00; condizioni di fragilità specifiche».
Non è scritto da nessuna parte che il Reddito di Autonomia (che è il reddito di cittadinanza in salsa leghista) è destinato solo ai cittadini italiani, è sufficiente essere residenti in Lombardia.
Anche per accedere al PIL — il progetto inserimento lavorativo — non serve essere cittadini italiani. I requisiti sono: essere da oltre 3 anni disoccupati senza alcuna integrazione al reddito, essere in difficoltà economica, avere un reddito inferiore a 20.000 euro ed essere residenti in Lombardia da almeno 5 anni.
E se anche la leghista Lombardia non esclude gli stranieri è perchè non è possibile farlo.
Come ha ricordato il il presidente del Cnel e ex ministro del Lavoro, Tiziano Treu spiegando che la Corte europea di giustizia si è pronunciata più volte su prestazioni simili ribadendo l’estensione anche agli stranieri con permesso di lungo soggiorno. «Secondo me non è accettabile — ha detto rispondendo a un domanda sulle parole del vicepremier Luigi di Maio sul reddito di cittadinanza — che si dia solo agli italiani».
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
NEI GUAI BONIFAZI (PD) E CENTEMERO (LEGA): 150.000 EURO E 250.000 EURO LE SOMME VERSATE
Sono in totale 400 mila euro i contributi alla politica del costruttore Luca Parnasi su cui la
Procura di Roma sta indagando nell’ambito della vicenda del nuovo stadio della Roma.
Soldi che il costruttore Luca Parnasi ha dato, oltre che alla Fondazione Eyu (150 mila euro nei mesi scorsi) legata al Pd, anche alla onlus “Più Voci”, vicina alla Lega.
Si tratta di un versamento di 250 mila euro avvenuto nel 2015).
Anche la posizione del tesoriere della Lega Giulio Centemero è attualmente sotto osservazione della Procura.
Nella vicenda Eyu è invece indagato per finanziamento illecito il tesoriere del Pd e deputato Francesco Bonifazi, che questa mattina ha affidato la sua difesa ai social network: “Non c’è nessun finanziamento illecito al Pd, non c’è nessuna fattura falsa della Fondazione Eyu. Abbiamo tutti i documenti in regola. E siamo pronti a dimostrarlo in qualsiasi sede”, ha twittato.
(da agenzie)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
MALUMORE TRA I GRILLINI: L’UOMO DI CASALEGGIO FA IL CONSIGLIERE COMUNALE, IL SOCIO DI ROUSSEAU E ORA PRENDE PURE 80.000 EURO COME STAFF
Ieri la pubblicazione dei compensi dei collaboratori degli staff di Conte, Salvini e Di Maio ha movimentato la giornata del MoVimento 5 Stelle.
Sulla graticola non c’è certo Rocco Casalino, sul cui stipendio come capo dell’ufficio stampa di Conte nessuno tira fuori un fiato (primum vivere, deinde filosofari), bensì Max Bugani, accusato di avere un triplo incarico.
Del nervosismo dei grillini parla oggi La Stampa in un articolo a firma di Nicola Lillo e Ilario Lombardo:
L’Associazione Rousseau — anello di congiunzione della Casaleggio Associati e del M5S — ha due dei suoi tre uomini del board dentro al palazzo del governo. Ci fosse anche Davide Casaleggio, ci sarebbero proprio tutti al fianco di Di Maio. Di Pietro Dettori si sapeva: assunto con l’incarico di «Responsabile della comunicazione, social ed eventi» a oltre 130 mila euro di stipendio (comprese le indennità ).
L’altro casaleggino è proprio Bugani che porta a casa, tra trattamento economico e indennità , circa 80 mila euro, un po’ meno di Dario De Falco, l’amico di infanzia di Di Maio, che lo ha seguito da Pomigliano a Roma per 100 mila euro lordi l’anno (a proposito di amici, anche il non eletto Bruno Marton ha un ruolo al fianco del sottosegretario e compagno di lunga militanza Vito Crimi, per 73 mila euro).
De Falco e Bugani sono entrambi consiglieri comunali nel pieno del loro mandato, un compito sacro per il grillino di una volta, che puntava il dito contro chi invece sommava gli incarichi e usava la politica come un moltiplicatore economico. E infatti la cosa non è passata inosservata:
Mentre le polemiche si concentrano sulla paga di Rocco Casalino, il portavoce che a 180 mila euro è pagato più del premier (114 mila euro), svelando così i limiti del pauperismo anti-Casta un tempo predicato da Grillo, nelle chat dei parlamen tari 5 Stelle non si fa altro che parlare di Bugani: «Noi prendiamo 60 mila euro, lui fa il consigliere pagato, il socio di Rousseau e adesso, non contento, prende anche 80 mila euro», è il senso di molti messaggi.
«Mentre ti dedichi al mandato elettivo — fanno sapere dal M5S a difesa di Bugani — puoi anche lavorare».
Certo, ma se lavori per l’associazione di un’azienda privata e fai il consigliere comunale forse non dovresti finire a Palazzo Chigi.
Ma Max sembra che tutto possa.
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
ORA PER IL MINISTRO LA SCELTA MIGLIORE E’ CANDIDARE TORINO DA SOLA (E SENZA SOLDI)
Lo slalom speciale dei 5 Stelle sui Giochi Olimpici porta a un nuovo traguardo. Il ministro delle
Infrastrutture e dei Trasporti Danilo Toninelli ora sostiene la corsa di Torino per le Olimpiadi 2026. Da sola, senza Milano e Cortina. E senza soldi. “Rimango personalmente dell’idea che quella di Torino sia la scelta migliore da tutti i punti di vista, anche da quello della convenienza economica e strutturale vista l’esperienza di altre Olimpiadi”, ha affermato il ministro a margine di un evento nel capoluogo piemontese.
La candidatura a tre, per Toninelli, non è sostenibile: “Ritengo che l’idea di tre città sia quantomeno caotica e difficilmente percorribile e anche la più costosa in termini di soldi pubblici”, ha aggiunto.
Chiunque sia il candidato e comunque vada a finire la corsa, secondo il ministro, il tutto dovrebbe svolgersi senza finanziamenti da parte dello Stato, Toninelli ha infatti sottolineato di essere d’accordo con Luigi Di Maio “quando dice che lo Stato non deve mettere soldi sulle Olimpiadi perchè dobbiamo mettere in sicurezza migliaia e migliaia di ponti e strade, viadotti e gallerie che i precedenti governi hanno abbandonato e mi sembra più giusto mettere lì i soldi’.
La Lega, però, ha un’altra opinione. Ma il ministro è fiducioso: “So che la Lega fa ragionamenti diversi – ha concluso il ministro – faremo un giusto Consiglio dei ministri e troveremo, come in tutte le altre questioni, una soluzione condivisa”.
Le esternazioni di Toninelli costituiscono solo l’ultimo dei capitoli di una vicenda che si fa sempre più complessa. Il 18 settembre il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, aveva sentenziato: “Per il governo la proposta della candidatura è morta qui”, spiegando di aver notato una mancanza di “una condivisione di spirito ed entusiasmo” tra i sindaci di Cortina, Milano e Torino.
Immediata era arrivata la replica di Zaia e Fontana che avevano proposto una candidatura a due: “Se Torino si chiama fuori, e ci dispiace, a questo punto restano due realtà , che si chiamano Veneto e Lombardia, per cui andremo avanti con le Olimpiadi del Lombardo-Veneto”, avevano affermato.
Ma Giorgetti aveva frenato subito gli entusiasmi: “Se vogliono andare avanti da sole la garanzia del governo non ci sarà “, aveva chiosato.
Salvo, poi, tornare sui suoi passi due giorni dopo: “Sarei l’uomo più felice del mondo se potessi riunire le tre città attorno allo stesso tavolo per riprendere il discorso sulle Olimpiadi – ha detto il 20 settembre – ma questo può accadere solo se Torino, Milano e Cortina accettano la bozza di protocollo inviata la scorsa settimana sulla loro candidatura unitaria. Ogni altra strada che volesse l’appoggio del governo non è percorribile”.
A Torino, però, la politica continua ad essere divisa: mentre la sindaca Chiara Appendino sembra non cedere ad alcun pressing e ribadisce che, se il governo non finanzia nulla, “è da irresponsabili andare avanti alla cieca”, il presidente della Regione, Sergio Chiamparino, pare determinato a non lasciarsi sfuggire questa occasione: “Si riconvochi un tavolo a tre, anche il sindaco del Sestriere è d’accordo: è Giorgetti che lo ha fatto saltare ma ci sono ancora margini”, ha sostenuto.
Il governatore ha sottolineato che nel caso in cui si dovesse convocare un tavolo a Roma, lui sarebbe il primo ad andarci, e spera che anche l’Appendino faccia lo stesso.
(da “Huffingtonpost”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
UN MODELLO DI ALIQUOTE PROGRESSIVE CALIBRATE SUI RICAVI E NON SUI REDDITI E’ TECNICAMENTE INAPPLICABILE
Nei giorni scorsi la CNA ha presentato le prime simulazioni sull’applicazione della flat tax a due aliquote (15% su ricavi fino a 65.000 euro, 20% sugli ulteriori ricavi fino a 100.000 euro).
Premesso che definire flat una imposta con due aliquote è un evidente ossimoro e che, di fatto, la proposta del governo del cambiamento consisterebbe nel semplice ampliamento delle soglie del regime forfettario ideato dal governo Renzi, la (finta) flat tax riguarderebbe una platea potenziale di circa 650.000 partite IVA pesando per circa 3,5 miliardi sulle casse dello Stato in termini di minori entrate.
Ma chi (e soprattutto quanto) ci guadagna?
Le tabelle della CNA individuano risparmi di imposta tra 772 e 4.208 euro annui per artigiani e commercianti e tra 2.241 e 12.638 euro annui per i professionisti.
In realtà , i calcoli della CNA non tengono conto di alcune variabili che incidono in maniera rilevante sia sui risultati della simulazione sia, soprattutto, sulla coerenza del nuovo modello forfettario.
Va considerato, infatti, che artigiani e commercianti che adottano il regime forfettario possono godere di un abbattimento dei contributi previdenziali del 35%: la scelta di tale opzione, di conseguenza, determinerà un risparmio complessivo ben più elevato, stimabile tra i 1.468 e i 5.909 euro annui.
Inoltre — qualora la scelta del governo cadesse sul modello simulato dalla CNA — si verrebbero a determinare effetti perversi tali da determinare, all’interno del medesimo regime di (finta) flat tax, maggiori imposte su minori redditi.
Si pensi, ad esempio, a due professionisti: il primo iscritto alla gestione separata INPS (che prevede una contribuzione del 25,72%), il secondo alla cassa di previdenza dei dottori commercialisti (che contempla una contribuzione soggettiva minima del 12%).
La tabella mostra inequivocabilmente come il professionista con il reddito più alto (41.184 contro 40.557 euro) paghi meno imposte (6.178 contro 6.228 euro) del collega con il reddito più basso.
È l’effetto perverso di un modello che non tiene conto che il reddito imponibile dei professionisti (e anche di artigiani e commercianti) viene determinato, anche nel modello forfettario (o flat), previa deduzione dei contributi previdenziali versati nell’anno di imposta.
Tutto ciò dimostra come un modello di aliquote progressive calibrate sui ricavi (e non sui redditi) sia tecnicamente inapplicabile.
Un pasticcio probabilmente dovuto alla disperata ricerca di un equilibrio tra promesse elettorali e realtà .
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
NEL DECRETO NESSUN ACCENNO ALLA “CACCIATA”… FINCANTIERI NON PUO’ RICOSTRUIRE IL PONTE DA SOLO PERCHE’ NON HA LE AUTORIZZAZIONI NECESSARIE
Anche ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha ribadito che Autostrade non ricostruirà
il Ponte Morandi a Genova, precisando che comunque ci metterà i soldi. Eppure mentre nel decretino per Genova non ha trovato spazio alcuna norma per ASPI e il governo non ha ancora revocato la concessione ad Autostrade nonostante gli annunci ai media perchè a Palazzo Chigi e a via XX Settembre si sono accorti che rischiano di dover pagare venti miliardi di penale in caso di revoca con la procedura disegnata dagli accordi tra le parti.
Carlo Di Foggia sul Fatto oggi fa invece sapere che Autostrade può rientrare in ballo anche nella ricostruzione, proprio perchè non si trova un modo per escluderla:
Il governo obbliga Autostrade per l’Italia (Aspi) a versare i soldi per la ricostruzione “entro 30 giorni”dalla richiesta del commissario straordinario, che in caso di inadempimento può farseli anticipare da “un soggetto pubblico o privato” che potrà poi rivalersi con il credito vantato dallo Stato verso Aspi.
Per blindarsi, il governo pone l’intera procedura sotto “la sola giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”, peraltro sotto la tutela dell’a rticolo 125 che prevede di considerare l’interesse nazionale nei giudizi cautelari.
È la prima volta che accade. Su come verranno usati i soldi e affidati i lavori però non c’è accordo tra M5S e Lega, meno ostile a dare un ruolo ad Aspi, e infatti il comma che deve specificarlo viene annunciato ma non compare nel testo.
I 5 Stelle hanno designato alla ricostruzione del ponte la Fincantieri, il gruppo pubblico della cantieristica navale, che però non ha tutte le autorizzazioni necessarie per realizzare per intero i viadotti.
Per questo, stando a quanto filtra, gli uomini più vicini al dossier lavorano per far rientrare Autostrade.
A quanto filtra potrebbe partecipare in consorzio con Fincantieri che realizzerà le componenti in acciaio — coinvolgendo le controllate Pavimental(cantieristica) e Spea (progettazione), insieme ad altre società .
È già filtrato il nome della Cimolai di Pordenone, società specializzata nella costruzione dei viadotti.
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
E’ LA PENALE PREVISTA A CARICO DELLO STATO IN CASO DI REVOCA… E SENZA SENTENZE DEL TRIBUNALE MANCANO ANCHE LE MOTIVAZIONI SULLE REALI O PRESUNTE RESPONSABILITA’ NEL CROLLO DI PONTE MORANDI
Perchè il governo non ha ancora revocato la concessione di Autostrade? Subito dopo il disastro del Ponte Morandi a Genova si sono affastellate sui giornali e sui social network le dichiarazioni dei membri dell’esecutivo nei confronti di Atlantia e dei suoi dirigenti, considerati — senza inchieste nè processo ma in base al principio logico che a loro toccava la manutenzione del ponte — colpevoli del disastro.
Poi è arrivato il decretino per Genova, dove non c’era nulla sulla ricostruzione del viadotto Polcevera nè veniva nominato il commissario. E
soprattutto, nonostante gli annunci (“Ci sarà una sorpresa brutta per Autostrade”, diceva Di Maio nei giorni precedenti l’approvazione), non c’era nulla riguardo la revoca della concessione ad Autostrade per l’Italia.
Come mai? I motivi sono giuridici e non piaceranno a chi crede che esistano soluzioni semplici ai problemi complessi.
La società ha respinto l’accusa di essere inadempiente nella manutenzione in una risposta alla lettera di contestazione arrivata dal ministero delle Infrastrutture. E intanto ha messo all’opera i suoi avvocati.
Per la revoca ci vogliono cinque mesi. E soprattutto ci vogliono venti miliardi di euro di versamenti proprio ad Autostrade.
Che ha risposto alla prima lettera del ministero evidenziando una serie di irregolarità formali compiute dal ministero e specificando di aver sempre adempiuto agli obblighi di manutenzione.
Ma qui, spiega oggi Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera, si rischia il crash:
Entro la fine del mese la commissione tecnica voluta da Danilo Toninelli – che ha già dovuto sostituire quattro componenti perchè incompatibili o indagati – consegnerà la relazione sul disastro. E subito dopo dovrebbe partire la prima diffida a«fornire giustificazioni».
Da quel momento Autostrade avrà 90 giorni per rispondere.
Se le sue deduzioni non saranno ritenute sufficienti, le Infrastrutture potranno indicare i punti ritenuti non adeguati e poi dovranno concedere altri 60 giorni per la controrelazione.
Soltanto quando questo documento sarà consegnato si potrà firmare l ‘eventuale decreto di revoca.
20 miliardi di buone ragioni per traccheggiare sulla revoca
Il decreto di revoca però presuppone il rispetto degli obblighi contrattuali da parte del governo. Che ha tanta voglia di muoversi ma nulla in mano, anche dal punto di vista giuridico, per pretendere la revoca della concessione di Autostrade:
Nel provvedimento devono essere indicati il «valore di subentro» e le eventuali penali da addebitare ad Autostrade. Ma è la prima voce a rappresentare il vero onere per lo Stato ed è proprio su questo che il governo dovrà decidere come intervenire. Nonostante quanto detto da Di Maio, la concessione fornisce infatti indicazioni chiare su quanto Autostrade deve percepire in caso di revoca e i calcoli già fatti escludono che si possa scendere sotto i 20 miliardi.
L’unica sanzione prevista per il concessionario è la penale del 10 per cento, oltre al maggior danno cagionato allo Stato.
Ma per questo ultimo conteggio potrebbe essere necessario un giudizio in sede civile. Senza contare che contro il decreto Autostrade è pronta a ricorrere ai giudici amministrativi.
Adesso quindi la situazione è chiara. E al tutto va aggiunto un tassello: il decreto di revoca deve essere firmato dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti e da quello dell’Economia.
E Giovanni Tria ha ben presente che venti miliardi di euro sono un’intera legge di bilancio. Per questo anche lui probabilmente ci penserà un centinaio di volte prima di mettere la sua firma. Per venti miliardi di buone ragioni.
(da “NextQuotidiano”)
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Settembre 21st, 2018 Riccardo Fucile
LA RESPONSABILE DEL REPARTO AL DAY SERVICE DI CAGLIARI: “CHIEDO SCUSA, MI VERGOGNO PROFONDAMENTE PER LORO”
I pazienti sono in fila in un ambulatorio del san Giovanni di Dio di Cagliari, per ricevere la
terapia per le cure palliative.
Quando la dottoressa Maria Cristina Deidda, responsabile del day service, si allontana momentaneamente dal reparto per accompagnare un paziente di origine senegalese ad una consulenza specialistica da lei stessa richiesta.
A quel punto qualcuno di spazientisce, e viene fuori un commento dal sapore razzista: “Ben quattro persone, accompagnatori di miei pazienti, si sono lamentate di dover attendere per ‘colpa di un negro'” racconta su Facebook la dottoressa Deidda, che ancora non si capacita di quanto accaduto lo scorso lunedì.
“Nel mio ambulatorio ci prendiamo cura di pazienti delicatissimi, con imponente dolore o per accompagnarli in ogni modo al loro termine ultimo – tiene a precisare – Tutto il personale lo fa con cortesia, amorevolmente e con dolcezza, come da formazione specialistica (avrei, altrimenti, fatto un altro lavoro). Io e le mie infermiere abbiamo fatto, molti anni addietro, il Giuramento di assistere chiunque ne avesse bisogno, senza discriminante di razza, sesso, religione, ideologia politica ecc”.
Nonostante le responsabilità non siano certo sue, nel post, poi rimosso, la Deidda ha tenuto a scusarsi con il suo paziente senegalese: “Chiedo scusa, a nome dei concittadini sconosciuti ma intolleranti nei riguardi del paziente. Mi vergogno profondamente”.
(da agenzie)
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