Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
CENTO ANNI DOPO ARRIVA IL RISCATTO DEGLI EMIGRANTI “PELLI-OLIVA” CON IL TRIONFO DI ANTONY ALBANESE, PRIMO PREMIER AUSTRALIANO D’ORIGINE ITALIANA… LE VITE DEGLI ITALIANI CHE HANNO SOFFERTO DISCRIMINAZIONI PESANTISSIME
«Mi rincresce di dover dare l’allarme ma l’Italia sta preparandosi a invadere l’Australia. Lo so, nessuno da noi ne aveva mai avuto sentore. Eppure è un fatto ormai denunziato e incontestabile. Vengono i brividi a pensare che milioni di italiani si alzano tutte le mattine, si fanno la barba, prendono il caffellatte ed escono, senza nemmeno immaginare che il loro paese è sul punto nientemeno di occupare un continente».
Un secolo dopo, la sarcastica profezia di Filippo Sacchi, uscita sul Corriere nel luglio 1925, fa sorridere. Tanto più dopo il trionfo elettorale di Antony Albanese, avviato a diventare il primo premier australiano d’origine italiana, sia pure casualmente, essendo il padre Carlo un marinaio di Barletta conosciuto dalla madre Maryanne Therese durante l’unica crociera della donna da Sydney in Europa. Ed è giusto sorriderne, oggi. Viva l’Italia, viva Australia, viva l’amicizia e la stima reciproca cresciuta nel tempo anche grazie a uomini come il sindaco della Sydney olimpica Franco Sartor o il governatore del Victoria James Gobbo.
Per non dire, prima ancora, di figure come Raffaello Carboni, «Il garibaldino d’Australia» (titolo di un saggio di Desmond O’ Grady) che dopo la caduta della Repubblica Romana del 1849 finì esule a Melbourne per prender parte alla folle corsa all’oro nella vicina Ballarat, dove descrisse a tinte forti nel libro Eureka Stockade l’inferno fangoso della miniera («Abbiamo avuto il fegato di lottare faccia a faccia con il vecchio Belzebù sul suo terreno») e la prima rivolta dei minatori australiani contro l’impero inglese, con tanto di lettura d’una dichiarazione d’indipendenza.
Per molto tempo, però, l’ostilità verso gli immigrati italiani fu durissima. Al punto che nel 1934 quando nel centro minerario di Kalgoorlie, scoppiò una rivolta contro gli immigrati italiani con saccheggi, incendi e pestaggi nati da una rissa in cui c’era scappato il morto, l’aria era così tesa, scrissero Richard e Michal Bosworth nel libro Fremantle’ s Italy (poi ripreso da Flavio Lucchesi in Cammina per me, Elsie ) che certi commentatori dell’epoca teorizzavano che «l’Africa cominciava da qualche parte nella penisola italiana», che l’Italia era «l’ultima delle grandi potenze perché razzialmente imperfetta» e che gli italiani stavano «a metà strada tra gli aborigeni e i cinesi».
Ma torniamo al reportage, per metà divertito e per metà furente, dell’inviato del Corriere : «Ma perché tutto questo accanimento contro gli italiani? Ve lo spiego io: per mantenere l’Australia “bianca”. Keep the Australia white , è la vera parola d’ordine di questa crociata.
Infatti noi non siamo bianchi, siamo “oliva”. Olive-skinned influx , diciamo». E raccontava che un grande quotidiano di Melbourne aveva titolato proprio così la notizia di un’inchiesta del governo del Queensland sui nostri immigrati: «L’invasione delle pelli-oliva”».
E che al congresso delle donne «un’oratrice autorevole nell’esortare le massaie australiane a non comperare frutta dai negozi italiani, anche se questi praticavano prezzi più moderati» si era lagnata che «dopo aver tanto fatto per difendere l’Australia “bianca” dalla minaccia degli asiatici», c’erano ancora «emigranti oliva continuano a stabilirsi nel paese».
Di più, si indignava Filippo Sacchi: «Siamo una razza tanto degradata che si esortano le donne australiane a non sposare i nostri emigranti» al punto che all’assemblea di Victoria dell’associazione dei combattenti era stato detto: «I matrimoni delle nostre donne con questi forestieri fanno un’impressione disgustosa».
Dice tutto la storia, mezzo secolo prima, di «Cea Venezia». Quando un gruppo di trevisani cadde nella trappola di Charles du Breil de Rays, l’erede d’una famiglia di Finistère rovinata dalla rivoluzione che aveva coperto i muri d’Europa con centinaia di migliaia di manifesti che invitavano i contadini a fondare a Port Breton, dall’altra parte dell’Eurasia, una colonia «libera e cattolica» fedele a Pio IX promettendo «terre di buon clima, di belle baie e di brezze gentili» e 40 campi trevisani ad ogni colono. Il viaggio, via Barcellona, Suez e Singapore, fu interminabile. Con decine di morti. Soprattutto bambini.
Scoperta la truffa e dirottata la nave verso Sydney, i nostri nonni vi arrivarono 368 giorni dopo la partenza in condizioni penose. Separati tutti l’uno dall’altro perché cancellassero l’italiano e parlassero subito inglese, poterono riunirsi solo un anno dopo, in una terra infelice e da disboscare a Lismore, verso Brisbane. Piantarono le vigne, tirarono su una cappella e un po’ di case e diedero al borgo il nome più dolce e poetico: Cea Venessia. Piccola Venezia. Gli australiani dissero no: New Italy. Niente nomi italiani.
Non meno ostile, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, sarebbe stato l’atteggiamento verso i nostri emigrati arrivati nella Riverina, un’area del Nuovo Galles del Sud. Area distribuita a reduci della grande guerra privi di esperienza: erano soldati, non contadini. Il tempo di inserirsi (faticosamente) e gli italiani venuti in Oceania come tagliatori di canna (lavoro spaventoso: si tagliava sotto un sole violento, seminudi e coperti di insetti perché lo zucchero s’ attaccava ai vestiti) o braccianti agricoli presero a comperare una «farma» (venetizzazione dell’inglese farm) dietro l’altra.
Nel 1929 ne avevano già 67: 55 padroni erano veneti, 6 calabresi, 3 abruzzesi, 2 friulani, uno siciliano. Dieci anni dopo erano già saliti a 230. La reazione fu durissima. E ancora una volta basata sulle tesi dell’Immigration Restriction Act elaborato nel 1901 e l’idea che l’Australia dovesse «essere popolata da una sola razza» scelta personalmente dall’«Onnipotente Dio».
Niente italiani o altri europei del sud, dunque, «troppo piccoli e troppo scuri di carnagione»: «Potevano contaminare la purezza» di chi era chiamato a governare.
Il peggio, negli anni della massima tensione nella Riverina via via trasformata secondo il sacerdote e storico Tito Cecilia «in un giardino», l’offrì lo Smith’ s Weekly : «L’eredità di 450 soldati agricoltori (…) è stata strappata via con violenza dagli italiani. Con la schiena contro il muro i reduci di Griffith stanno combattendo, oggi, non solo per le loro case, le loro mogli e i loro figli, ma anche per la preservazione del loro sacro livello di vita».
Non bastasse, la rivista riportò una convinzione: «Tra dieci anni non un solo cittadino australiano o britannico resterà da queste parti». Aveva torto. E l’elezione di Albanese, che rompe gli ultimi schemi xenofobi, suggella la lenta ma continua ricerca di un dialogo finalmente arrivato alla meta.
Gian Antonio Stella
(da il “Corriere della Sera”)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SUI NEGOZIATI INFLUISCE LA LINEA DURA DEI FALCHI
Il fatto è che per Zelensky non c’è solo Putin, e non ci sono solo amici. Anche il presidente che gode del più alto consenso al mondo nel proprio paese deve far i conti con la politica interna che ne condiziona le scelte, a partire dal negoziato per un rapido “cessate il fuoco”.
Solo cogliendo questo aspetto, finora molto trascurato, si comprende l’assoluta indisponibilità a cedere territori in cambio della pace, che è poi la risposta che ha dato al piano di pace proposto dall’Italia: “Bene, grazie, ma l’integrità territoriale non si tocca”.
Ora, su questo punto si sono esercitate pressioni internazionali poderose, a partire dagli Stati Uniti e da alcuni leader europei certi che l’Ucraina possa vincere (o la Russia perdere) e dunque: avanti tutta.
Altri analisti hanno motivato il gran rifiuto di Kiev come una strategia necessaria a negoziare in posizione di maggiore forza a fronte di uno stallo sul campo che costi ingenti perdite tra le truppe russe, tali da indebolire la leadership di Putin agli occhi degli stessi russi.
Ma il discorso, ovviamente, vale anche per Zelensky. Solo che vale al contrario: se accetta un compromesso in cui cede terreno, perde consensi e rischia di inimicarsi perfino gli uomini più fedeli del suo governo.
C’è anche una questione di leadership ucraina in questa partita, che deve fare i conti con i suoi nemici interni e il proprio futuro. A ricordarlo è un sito di giornalisti russi in esilio come Meduza che non può esser tacciato certo di posizioni “filorusse”.
Konstantin Skorkin ha pubblicato sul sito un’analisi sul tema che va oltre la figura del premier ucraino e arriva a mettere a fuoco la posta in gioco per Zelensky. Ricostruisce tutta la squadra che lo circonda e come questa sia stata capace di radunare attorno alla “causa comune” della resistenza una nazione e tutto l’Occidente. Non dimentica però di ricordare, a proposito di gradimento, come prima dell’invasione Zelensky non fosse per nulla popolare in patria, soprattutto a causa dei suoi tentativi di negoziare un compromesso con il Cremlino dopo i fatti di Maidan e la guerra civile per il Donbass tra territori russofoni e truppe di Kiev: a dicembre 2021 il gradimento dei sondaggi era tre volte inferiore a quello di oggi.
Skorkin ha passato in rassegna le figure del “gabinetto di guerra” di Zelensky e come operano, sia a livello politico che mediatico. Nomi che qui in Italia dicono poco ma hanno un peso specifico enorme anche perché, in base alla legge marziale, il parlamento ucraino dal 24 febbraio svolge un ruolo di sfondo.
Il giornalista, forte anche delle analisi del politologo ucraino Vladimir Fesenko, che descrive la squadra attorno a Zelensky come un “collettivo”, lo scrive dritto: “Un prolungamento del conflitto potrebbe provocare una spaccatura nell’élite ucraina, con l’emergere del proprio “partito della pace”.
In effetti, la principale tutela contro una tale scissione in questo momento è la posizione inconciliabile dei “falchi” putinisti che sognano di “portare a termine l’operazione speciale” e una “soluzione finale alla questione ucraina”. Se Mosca iniziasse però ad ammorbidire la sua posizione, “ciò potrebbe portare a un crescente sostegno ai compromessi da parte ucraina”.
In questo caso, Zelensky potrebbe trovarsi in una situazione di stallo simile a quella sviluppatasi attorno agli accordi di Minsk – dove, nonostante avesse un mandato per i negoziati di pace, il presidente era limitato nelle sue manovre. All’epoca – osserva il cronista – il margine di progresso era ristretto “dall’intransigenza del Cremlino da un lato e, dall’altro, da un segmento attivo della società ucraina che si rifiutava di accettare una resa.
Oggi, questo segmento attivo della società è armato, pronto a combattere per la vittoria e rifiuta l’idea di qualsiasi compromesso con il nemico. Il che significa che il sostegno alle stelle per Zelensky potrebbe iniziare a svanire se c’è il minimo sospetto di “tradimento”
“Zelensky ne è ben consapevole ed è quasi impossibile immaginare che il presidente ucraino sia quasi pronto a fare concessioni. La posta in gioco per Zelensky e la sua squadra è molto alta, anzi, la posta in gioco è la sopravvivenza del paese stesso”.
Chi sta condizionando Zelensky? Una figura da cerchiare in rosso è certamente Kyrylo Budanov, considerato uno degli architetti dell’umiliazione russa che appena è circolata sui media internazionali l’idea che fosse “irrealistica” una vittoria per parte ucraina e dunque ragionevole ipotizzare concessioni territoriali ha rilasciato al Wall Street Journal una dura intervista dicendo: “Non conosco altri confini se non quelli del ’91”, vale a dire dell’Ucraina al tempo dell’indipendenza dall’Unione Sovietica. Tra i consiglieri di Zelensky duri e pure contro i negoziati ci sono anche l’ex ministro della Difesa Andriv Zagorodnyuk e Mykhalo Podolyak. Tutti saldi sul “non cederemo territori” a fronte di una posizione più sfumata del presidente che (anche a Porta a Porta) aveva si era reso disponibile ad “accantonare il tema Crimea“. Lui forse, i suoi no.
(da Il Fatto Quotidiano)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
AL CONCERTO DEL GRUPPO PUNK KIS-KIS PARTE IL CORO “GUERRA VAFFANCULO”… LA LEGGENDA DEL ROCK YURI SHEVCHUK: “LA PATRIA NON È IL CULO DEL PRESIDENTE, DA SLINGUAZZARE E BACIARE TUTTO IL TEMPO
«Khuy voyne, guerra vaff…»: la platea scandisce in un coro unanime, non si ferma, alza le braccia al ritmo dello slogan. È l’87simo giorno della guerra in Ucraina, e al concerto della punk band femminile Kis-Kis, nel club A2 di Pietroburgo, esplode la protesta più massiccia delle ultime settimane, talmente spontanea e dirompente da rimanere impunita. Impossibile arrestare decine di persone, tutta la sala, e questa sensazione di non essere soli amplifica il coraggio di fare quello che sembrava ormai quasi impensabile.
I concerti rock stanno diventando l’ultimo territorio pubblico ancora libero in una Russia ormai dittatoriale, con la musica ribelle per definizione che riacquista la sua dimensione antisistema che l’aveva fatta nascere negli scantinati di Pietroburgo ed Ekaterinburg negli anni ’70. Quando Yuri Shevchuk dice che «la patria non è il culo del presidente, da slinguazzare e baciare tutto il tempo», il suo pubblico di Ufa esplode in un boato di approvazione.
Parole che il Cremlino non poteva tollerare, e il frontman storico dei Ddt è stato incriminato per «discredito delle forze armate», e potrebbe non cavarsela con soltanto la multa: il caso è stato spostato da Ufa a Pietroburgo, per indagare su altre dichiarazioni simili del musicista. Shevchuk si è rifiutato di testimoniare contro se stesso, e ora tutta la Russia attende con ansia il processo: l’arringa dei periti linguistici per dimostrare che la frase «la patria non è il culo del presidente» è falsa sarà assolutamente imperdibile.
La storia ha fatto un cerchio per tornare indietro di 40 anni, e gli eroi del rock clandestino dell’epoca sovietica, considerati da molti ormai dei nonni aggrappati alle tradizioni “impegnate”, tornano a combattere il regime. Shevchuk era finito nei guai già nel lontano 1980, per aver scritto “Non sparare”, una struggente denuncia della guerra in Afghanistan, che ora suona di nuovo.
Nel 2010, aveva chiesto a Vladimir Putin per quanto avrebbe continuato ad arrestare gli oppositori in piazza (il leader russo reagì con un ipocrita e sprezzante «Mi scusi, come si chiama lei?», cui la leggenda del rock russo rispose con un memorabile «Sono Yura, un musicista»), e non tutte le città della provincia russa osavano ospitare i concerti dei Ddt per paura che suonassero la mitica «Putin gira per la terra, la nostra patria è nella m…».
Ma anche voci meno “politiche” si sono schierate: Boris Grebenshikov, storico guru del rock pietroburghese, ha raccolto 12 milioni di euro per l’Ucraina. Al suo concerto di beneficenza a Londra si è presentata anche Zemfira, la star indiscussa del Duemila: il suo clip “Carne” – «A Mariupol è mezzanotte, volano i missili ad alta precisione, cosa facciamo qui, ce lo chiederemo per tutta la vita» – ha fatto un milione di visualizzazioni su YouTube in tre giorni.
Il movimento contro la guerra ha unito musicisti di diverse generazioni e generi, che hanno sostituito come leader della protesta i politici incarcerati, esiliati o censurati: il rapper Face è stato il primo russo a chiedere pubblicamente scusa agli ucraini, e i concerti di Oxxxymiron a Berlino, Istanbul e Londra hanno disegnato la mappa della nuova emigrazione russa. Un’intera generazione è fuggita in poche settimane, per rendersi conto che il sogno di “Russia, indietro!”, il videoclip dei Nogu Svelo dove i militari e i carri alla parata in piazza Rossa, al ritmo di un coro da stadio, camminano a ritroso fino a sparire, è un’utopia, e «bisogna prepararsi a non tornare a casa, forse per vent’ anni», scrive Igor Grigoryev, l’ex direttore della rivista Om.
Oltre a raccogliere soldi per gli ucraini, i concerti di Oxxxymiron “Russians against the war” sono stati anche un tentativo di contarsi, e di lanciare un movimento di “russi buoni”, quelli che hanno detto no, e che sperano un giorno di cambiare il loro Paese, e ricucire la ferita con l’Ucraina: «Suona impossibile», ha detto dal palco Oxxxymiron, «ma siamo a Berlino, e nel 1941 nessuno avrebbe immaginato un ebreo russo suonare qui musica afroamericana».
Difficile che il regime putiniano possa tollerare questo focolaio di protesta: molti cantanti, del resto, sono già fuggiti dalla Russia e si esibiscono in Europa, mentre chi rimane in patria si scontra con pressioni sempre più pesanti. La band B2 si è vista cancellare un concerto dietro l’altro dopo essersi rifiutata di esibirsi in una sala decorata con la grande Z simbolo del militarismo russo.
Il dilemma della fuga, o del silenzio, è stato riassunto da Diana Arbenina nella straziante “Non tacere”: «Sto perdendo me stessa e la mia casa, non so cosa succederà dopo, tutti stanno volando via, siamo un Paese maledetto». Shevchuk sceglie di restare con il suo pubblico, nonostante il rischio del carcere: «Ai nostri concerti vengono migliaia di solitudini, erano tristi nelle loro cucine, qui si incontrano, cantano insieme a noi la pace».
(da la Stampa)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
“DIRE DI DARE A PUTIN QUELLO CHE CHIEDE È UNA BESTIALITÀ POLITICA, UN ERRORE PEGGIORE DI OGNI CRIMINE”
A Berlusconi Napoli fa male, gli dà letteralmente alla testa, lo rimbecillisce, lo mette in uno stato stuporoso e lo incita immancabilmente a dare di sé un’immagine molto giocosa, molto privata, e un tantino avventurosa.
Un conto però sono i giochi d’amore, le passioncelle, la mondanità cortigiana, i narcisismi maschili, storie rosa più o meno eleganti che appartengono al privato di un uomo pubblico e meriterebbero un trattamento meno scioccamente puritano di quello che continua a essergli riservato da requisitorie moralistiche in giudizio, intollerabili, un altro conto è la guerra, che ha cause e conseguenze diverse.
Qui la cosa si fa seria, e persino seriosa, e bisogna fare attenzione, provare a dare il meglio e non il peggio di sé stessi, il che non è sempre facile ma si può almeno tentare.
Il leggendario Cav. si è impiastricciato in una dichiarazione di ambiente napoletano troppo goffa e leggera per essere annoverata tra le sue migliori, e stavolta il suo mentire sapendo di smentire (Vergassola) ha qualcosa di allarmante. So che è solo esuberanza e gusto della follia e della scanzonata libido comunicandi. Una volta mi chiamò Boris Johnson, giornalista anche lui zuzzurellone per lo Spectator, per chiedermi un contatto con il presidente. Perché no?
Gli diedi il numero. Ma subito feci il numero per avvertire il mio amato Berlusconi: guardi che BoJo, insieme con quell’altro tipo bizzarro, la incastrerà in una conversazione o intervista il cui scopo è épater les bourgeois, dare scandalo, faccia attenzione.
Stavolta in Sardegna, non a Napoli eccezionalmente, le cose andarono come dovevano ahimè andare, e ne risultò, dalla conversazione spericolata, un giudizio turistico sul confino dorato sotto il fascismo e sulle solite cose buone fatte da Mussolini, con altre amenità. Se avverti Berlusconi di stare attento, le cose possono andare peggio ancora che senza messe in guardia.
Naturalmente Berlusconi produce sempre un effetto verità, le sue gaffe sono la chiave della sua affidabilità come oracolo politico. Ha detto letteralmente che l’Europa deve convincere l’Ucraina a dare a Putin quello che chiede, ha parlato come un Travaglio qualsiasi, e ora lo sgabello glielo spolverano a lui.
Ma ha anche riassunto, in breve, occamisticamente, tagliando i concetti col rasoio, quello che i pensatori cosiddetti “realisti” sostengono nel loro linguaggio sorvegliato e accademico, nel loro sopracciò.
La sproporzione di forza e il bisogno di rassicurazione mondiale sul terreno dell’economia e della stabilità sono tali, dicono i guru del realismo, che bisogna affrettarsi a trovare una via d’uscita per Putin, assecondando al tutto o in parte, meglio in parte, gli scopi di conquista territoriale e simbolica alla base della sua invasione di un paese di oltre quaranta milioni di abitanti, con le conseguenze che si conoscono a Bucha e a Mariupol.
Tolto il timbro geopolitico, andando all’osso come sempre fa il grande comunicatore, si arriva al risultato: dare a Putin quello che chiede, ecco che cosa deve cercare di fare l’occidente o almeno la sua parte venusiana, l’Europa. Il che è evidentemente una bestialità politica, un errore peggiore di ogni crimine.
E’ un peccato, oltre che una delusione. Berlusconi non si dovrebbe mai spingere più a sud di Pratica di Mare, luogo in cui sperimentò con abilità e con i suoi mezzi amicali di businessman abituato alla stretta di mano il tentativo legittimo di aiutare a costruire una situazione di sicurezza in ambito Nato alla quale fosse possibile associare in un modo o nell’altro la Russia.
In un’epoca che è mille epoche fa, prima della Crimea e del Donbas, forse anche in virtù del suo isolamento domestico e del blasone che gli apportava l’amicizia schröderiana con Putin, visto che Berlusconi non è l’unico businessman di stato, con la differenza che lui è businessman di mestiere e non un lobbista acquisito, aveva visto giusto. Poi si è spinto fino a Napoli.
(da Il Foglio)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
ORA I GENERALI DI PUTIN HANNO CAMBIATO TATTICA: IMPONGONO LA GUERRA DELL’ARTIGLIERIA, CIOÈ ANNIENTARE TUTTO E POI AVANZARE
La guerra è una attività paradossale. Da un lato è la più assoluta forma di coercizione ed esige quindi disciplina, gerarchia, obbedienza. Dall’altro chiede ad ogni individuo fedeltà, devozione entusiasmo, tutti elementi altrettanto necessari per arrivare alla vittoria. La guerra in Ucraina, scatenata dalla aggressione russa, è stata presentata, con una enfasi forse eccessiva e talora strumentale, come lo scontro emblematico, quasi apocalittico tra le autocrazie e le democrazie. È naturale.
Poiché sono pochissime le cause che costituiscono uno scopo legittimo della guerra e per cui gli uomini sono disposti a morire ognuno crea le sue: gli ucraini rivendicano di esser la trincea avanzata e impavida contro l’avanzare delle tirannidi, Putin incita i russi a sgominare una eterna, subdola congiura occidentale che punta a strangolarli, privandoli del loro “posto al sole”.
Tra i paradossi della guerra allora constatiamo che proprio sul piano militare questa contrapposizione democrazia-tirannide trova un concreto riscontro: l’esercito russo è organizzato secondo una idea autocratica della società e quello ucraino invece sulla base di un principio più democratico. E questa differenza spiegherebbe molte sorprese di questo conflitto, ad esempio i successi nella prima fase dell’aggressione delle truppe di Kiev nel fermare e respingere il nemico.
Le guerre hanno molto a che fare con la politica delle identità, forse oggi ancor più di un tempo quando prevalevano obbiettivi ideologici o geopolitici. La guerra sta assicurando, dolorosamente, alla Ucraina una identità fino a ieri molto liquida e incerta.
L’esser democrazia e occidente contrapposto alla tirannide asiatica ne è la parte essenziale. L’identità che Putin cerca da 20 anni di cucire attorno al corpo russo è un misto di millenarismo e soddisfazione della potenza. Gli eserciti, perfino nel modo di combattere, ne sono il riflesso. Le identità del passato erano legate a un’idea di interesse nazionale o al sogno di un futuro. Oggi spesso non sono che rivendicazioni di potere in base a semplici etichette. Fomentare odio e paura, sbarazzarsi di chi ha una identità diversa.
Per questo non bisogna fare dell’antagonismo militare democrazia-tirannide una spiegazione assoluta e permanente. Non è detto che gli eserciti democratici, solo per questo, siano destinati a vincere.
Sparta alla fine dell’interminabile conflitto del Peloponneso, primo terribile modello di guerra infinita, annientò la democrazia ateniese e le sue imprendibili lunghe mura.
L’esercito, rifatto e rivisto dalle arroganze putiniane, assomiglia a quello zarista e poi sovietico-staliniano. Come potrebbe essere diversamente vista la natura assolutistica della società da cui è tratto?
Non bastano le armi nuove di zecca a cambiare le anime. È dunque basato sulla rigorosa centralità del comando, lo specchio di una oligarchia quasi patologica nella diffidenza verso gli inferiori, sospettosissima sulla autonomia di giudizio dei gradi più bassi della scala gerarchica. Pone rimedio a questi rischi con l’obbligo assoluto di una pianificazione matematica delle operazioni. Tutto deve essere stabilito in anticipo e controllato dai Capi; ufficiali e soldati, il popolo sempre disprezzato o potenziale traditore, devono soltanto eseguire senza discutere.
La guerra è come sempre una attività sociale. Comporta la mobilitazione e la organizzazione di uomini con lo scopo di infliggere una violenza fisica ad altri uomini. Esige sempre la regolazione di alcuni tipi di relazioni sociali. Su queste si modellano le sue forme, ovvero la tipologia delle forze militari, le tecniche e le strategie, i mezzi di combattimento, dalla Rivoluzione francese fino alle guerre totali della prima metà del secolo scorso e alla guerra immaginaria, ovvero la guerra fredda della seconda metà del novecento.
Autocrazia e democrazia erano le due forme di Stato centralizzato, razionalizzato, con un territorio e una gerarchia ordinata, che ha combattuto queste guerre feroci. Un modello sostanzialmente europeo ai cui margini gli uomini morivano per altri tipi di conflitti, definiti ribellioni, guerre coloniali, guerriglie, insurrezioni. La guerra in Ucraina è un conflitto classico, tra armate di due nazioni.
L’esercito russo ha una storia particolarmente intrisa di sangue: e di centralizzazione. Dunque grandi offensive pianificate su fronti vasti, poche manovre operative sofisticate che richiedono ai subordinati fantasia e autonomia di giudizio come, almeno in teoria, è richiesto negli eserciti occidentali. Si attende sempre l’ordine dall’alto, la firma e la controfirma perchè in uno Stato assoluto l’errore può costare molto caro.
L’esercito russo è concepito come uno sterminato stabilimento metallurgico mobile, mille gru, mille castelli di acciaio, mille ruote dentate e ingranaggi che avanzano, una acciaieria distruttiva a cui una moltitudine di operai-soldato presta una attività automatica e anonima da catena di montaggio. Il piano è fissato in modo ferreo, bisogna tradurlo in produzione, ovvero rovine fumanti e nemici eliminati.
L’armata russa scarseggia di sottufficiali che la saggezza e l’esperienza militare indicano come la colonna vertebrale degli eserciti: vicini ai soldati, alle loro paure e ardimenti e con l’esperienza del terreno e delle nebbie della battaglia. L’esercito autocratico ha pagato caro queste sue caratteristiche nella prima parte della guerra, quella della avanzata su Kiev. A un certo punto, misteriosamente, i russi che sembravano inarrestabili con le loro colonne corazzate, si sono fermati. Forse non era stato fissato con chiarezza l’obiettivo: bisognava assaltare la capitale (ma mancavano gli uomini e i rifornimenti) o semplicemente si doveva fare pressione per far crollare il governo ucraino?
Nessuno ha osato. Si aspettavano gli ordini dalla gerarchia. Che non sono arrivati. E le vittorie si giocano sul tempo, spesso sulle ore, sugli attimi. Gli ucraini, che pure discendono dal meccanismo militare sovietico, hanno una struttura più agile, dispongono di più autonomia tattica e di molti sottufficiali giovani e vicini al campo di battaglia, ben addestrati dagli americani e dagli inglesi in questi otto anni. In più hanno sperimentato la guerra vera nel Donbass, aspra, spietata. Hanno approfittato con prontezza dell’occasione, inventato contro mosse, messo in crisi i russi.
I generali di Putin hanno allora cambiato tattica, cercando di adeguarla ai vantaggi che offre la loro struttura autocratica. Ora impongono la guerra integralmente industriale, quella dell’artiglieria: annientare tutto e poi avanzare. Si distrugge e si occupano i ruderi, gli uomini sono solo pedine che segnano il procedere in avanti.
(da La Stampa)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SE SARÀ ELETTO (E DOPO DI LUI LULA IN BRASILE) ARRIVEREBBE A SETTE IL NUMERO DI NAZIONI DELL’AMERICA LATINA CON PRESIDENTI DI SINISTRA
Gustavo Petro non è il benvenuto a Pereira. «Le bande armate dicevano che mi avrebbero ucciso». A una settimana dalle Presidenziali in Colombia, il superfavorito ha spiegato così la rinuncia ai comizi nella capitale dell’«eje cafetero», la regione dove si produce uno dei caffè più buoni al mondo. Negli anni ’80 questa città sulla Cordillera centrale era la Svizzera dei narcos. Nel resto del Paese i Signori della droga si facevano una guerra feroce, ma Pereira era territorio neutrale e qui convivevano in pace.
Oggi è la patria di altre, più piccole ma non meno pericolose mafie. Petro ha fatto il nome del presunto mandante – un chiacchierato imprenditore locale – e degli aspiranti esecutori, la gang della Cordillera, ex paramilitari che si dedicano a strozzinaggio, racket, narcotraffico.
Quindi ha tirato in ballo lo sfidante di destra, Federico Gutiérrez detto «Fico». Che ha ribattuto: «Qui l’unico che ha avuto legami con strutture criminali è Petro».
«Sono le elezioni presidenziali più pericolose dei nostri ultimi sei decenni – assicura Rodrigo Uprimny, professore di diritto all’Università nazionale -. Se non vogliamo che finiscano in tragedia o in una rottura democratica, cosa che sembrava impensabile in Colombia, è necessario che alcuni attori influenti, come uomini d’affari, media, accademici, chiese, comunità internazionale o sindacati, esprimano inequivocabilmente il loro impegno democratico, qualunque sia il risultato elettorale».
Eppure una calma irreale avvolge la Colombia. La gente non parla di politica al bar e per strada si vedono pochissimi cartelloni elettorali, perlopiù striscioni appesi ai balconi. Il silenzio sembra il miglior antidoto alla paura.
Petro, ex sindaco di Bogotá e candidato del Pacto Histórico delle sinistre, al suo terzo tentativo, è in testa con oltre il 45% delle preferenze, che non gli bastano per assicurarsi la vittoria al primo turno il 29 maggio.
L’ex sindaco di Medellín «Fico», candidato della coalizione di destra Equipo por Colombia, e l’indipendente di centro-destra Rodolfo Hernández si contendono il secondo posto per il ballottaggio del 19 giugno. La polarizzazione estrema – come nel vicino Brasile, alle urne in autunno – non preannuncia nulla di buono in un Paese ancora in cerca di riconciliazione dopo oltre cinquant’ anni di guerra civile, terminata sulla carta nel 2016 con il trattato fra Stato e Forze armate rivoluzionarie (Farc).
Anche Petro, economista di 62 anni, deve farsi perdonare un passato da guerrigliero. Da giovane si è unito all’M-19, movimento urbano «anti-imperialista» responsabile di alcuni degli episodi più tragici nella tormentata storia della Colombia. Lui ha sempre dichiarato di non aver mai partecipato ad azioni armate, ma per gli avversari, e per gli Usa, la sua biografia ha una macchia indelebile.
In campagna elettorale Petro ha ripetuto di non essere comunista, che non esproprierà nessuno e governerà «per tutti». Ha evitato ogni contatto pubblico con il partito degli ex guerriglieri Farc, che pure gli hanno offerto i loro (pochi) voti.
Il suo linguaggio viscerale però spaventa buona parte dell’elettorato. «Io sono un rivoluzionario», ricorda spesso. E il suo programma, seppure molto moderato rispetto alle posizioni di qualche anno fa, ne è una conferma, a partire dallo stop alla «guerra alla droga» così com’ è stata concepita finora.
«Dopo 40 anni passati a fare la stessa cosa, distruggendo con gli erbicidi le coltivazioni di coca, catturando leader ed estradandoli, i gringos hanno più morti per overdose di prima – ha detto al settimanale Semana -. Oggi la Colombia esporta più cocaina che mai. Qui ci sono gli eserciti e la violenza. I narcotrafficanti, che sono messicani, trattengono i profitti. Sono più potenti di Pablo Escobar».
Petro preannuncia lo stop alle estradizioni, la revisione del trattato di libero scambio con gli Usa, un ambientalismo spinto, la ripresa delle relazioni con il Venezuela, e una vicepresidente donna e nera, Francia Márquez. La Colombia non ha mai virato così a sinistra.
Finora è stata un solido alleato degli Stati Uniti, che hanno ripagato tanta fedeltà con miliardi di dollari in aiuti e armi. Dopo anni di governi di destra, però, gran parte della popolazione vuole un cambio al potere. È la nazione con la maggiore diseguaglianza dell’America Latina, uno dei tassi di omicidi più alti del mondo, (27 morti ogni 100.000 abitanti) e la repressione delle manifestazioni del 2019 e del 2021, decisa dal presidente Iván Duque, ha lasciato ferite profonde nella società, e decine di morti.
Se Petro sarà eletto – e dopo di lui Lula in Brasile – ben sette nazioni dell’America Latina avranno presidenti di sinistra. Il leader del Pacto Histórico ama concludere i suoi discorsi volgendo in positivo una frase di Cent’ anni di solitudine : «Le generazioni (non) hanno una seconda possibilità sotto i cieli della terra». E in fondo la Colombia è ancora quella che ci ha regalato la magica penna di Gabriel García Márquez. Dolce e tragica, accogliente e misteriosa.
(da agenzie)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
LA LETTERA DI DIMISSIONI E’ UN DURO ATTO DI ACCUSA A PUTIN
“Per vent’anni della mia carriera diplomatica ho assistito a diverse svolte della nostra politica estera, ma non mi sono mai vergognato così tanto del mio Paese come il 24 febbraio di quest’anno”: comincia così la lettera di dimissioni da consigliere alla sede di Ginevra delle Nazioni Unite di Boris Bondarev, membro della delegazione russa.
Oggi con un messaggio consegnato per iscritto ai funzionari dell’Onu e condiviso poi anche sul suo profilo Linkedin, il diplomatico ha fatto sapere di non voler più essere un rappresentante del Cremlino.
“La guerra aggressiva scatenata da Putin contro l’Ucraina, e di fatto contro l’intero mondo occidentale – spiega – non è solo un crimine contro il popolo ucraino, ma anche, forse, il crimine più grave contro il popolo russo. Coloro che hanno concepito questa guerra vogliono solo una cosa: rimanere al potere per sempre, vivere in pomposi palazzi insipidi, navigare su yacht paragonabili per peso e costi all’intera Marina russa, godendo di potenza illimitata e completa impunità”.
Non si risparmia negli attacchi al ministro degli Esteri Sergej Lavrov: “Un buon esempio del degrado di questo sistema. In 18 anni siamo passati da un intellettuale professionale e colto (Igor’ Sergeevič Ivanov, ndr), che molti miei colleghi tenevano in così alta stima, a una persona che trasmette costantemente dichiarazioni contrastanti e minaccia il mondo (cioè anche la Russia) con armi nucleari”.
Bondarev ha paura che il suo Paese stia facendo terra bruciata intorno a sé e con la sua scelta – affatto scontata vista la dura repressione verso i funzionari che non si allineano con le decisioni di Putin – ha deciso di smarcarsi da una politica che ritiene “insensata e assolutamente inutile”: “La Russia non ha più alleati e non c’è nessuno da incolpare se non la sua politica sconsiderata e mal concepita. Ho studiato per diventare diplomatico e sono stato diplomatico per vent’anni. Il Ministero è diventato la mia casa e la mia famiglia. Ma semplicemente non posso più condividere questa ignominia sanguinosa”.
L’associazione non governativa UN Watch sta ora invitando tutti gli altri diplomatici russi alle Nazioni Unite e in tutto il mondo a seguire il suo esempio e dimettersi. Il direttore esecutivo di UN Watch Hillel Neuer lo ha definito “un eroe” a margine dell’Oslo Freedom Forum, un incontro annuale di dissidenti per i diritti umani.
“Non tutti i diplomatici russi sono guerrafondai. Sono ragionevoli, ma devono tenere la bocca chiusa”. Lo ha detto il consigliere russo all’Onu Boris Bondarev all’Associated Press, dopo essersi dimesso a causa dell’invasione dell’Ucraina.
Bondarev ha espresso la sua condanna alla guerra ai colleghi: “Alcuni hanno detto: ‘Tutti disapprovano, ma dobbiamo continuare a lavorare’, mentre altri hanno risposto ‘Stai zitto e smettila di diffondere questa cattiva influenza, specialmente tra i diplomatici più giovani'”, ha raccontato Bondarev.
“È intollerabile ciò che il mio governo sta facendo ora”, ha aggiunto, “Come funzionario pubblico, devo assumere una parte di responsabilità per questo. E non voglio farlo”. Bondarev ha riferito di non aver ancora ricevuto alcuna reazione dai funzionari russi, ma ha aggiunto: “Sono preoccupato per la possibile reazione di Mosca? Sì, devo preoccuparmi”.
(da agenzie)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
SOTTO OSSERVAZIONE I CONTI PUBBLICI, LE RIFORME DA COMPLETARE SU CATASTO E CONCORRENZA MA ANCHE LA CRESCITA TROPPO BASSA… IL RISCHIO È QUELLO DI NON INCASSARE I PROSSIMI PAGAMENTI SEMESTRALI DEL RECOVERY
Arrivano le pagelle della Commissione europea e in Italia la maggioranza che sostiene il governo torna a dividersi sull’agenda delle riforme, con il leader della Lega Matteo Salvini che dice no «ai richiamini burocratici» di Bruxelles, perchè «decidiamo da soli».
Questa mattina il vicepresidente dell’esecutivo Ue Valdis Dombrovskis e il commissario all’Economia Paolo Gentiloni scenderanno nella sala stampa di palazzo Berlaymont per illustrare il pacchetto di primavera del semestre europeo, lo strumento per il coordinamento delle politiche economiche dei Ventisette. Proprio Gentiloni ieri s’ era rivolto ai partiti e aveva messo in guardia dal rischio recessione per l’Italia se non attua gli impegni pattuiti nel Recovery Plan, soprattutto in un contesto in cui il sostegno pubblico generalizzato all’economia non potrà più replicare le misure eccezionali viste durante la pandemia.
Bruxelles dà atto al governo Draghi dei progressi compiuti nell’ultimo anno, ma condivide le sue preoccupazioni in particolare sulle vulnerabilità dovute alla crescita a rilento e all’esplosione del debito pubblico, da tenere sotto controllo con una limitazione della spesa corrente. Insieme a dettagliate promozioni e bocciature per gli Stati membri su debito e deficit e sull’itinerario delle riforme e degli investimenti concordati nei Piani nazionali di ripresa e resilienza (Pnrr) – dal fisco al catasto -, da Bruxelles arriverà pure l’ufficialità dello stop al Patto di stabilità anche per tutto il 2023.
L’anno in cui, cioè, la disciplina Ue sui conti pubblici sarebbe dovuta tornare a regime dopo la pandemia, magari riformata in senso meno rigorista. Il nuovo congelamento delle regole, che fissano il rapporto deficit/Pil al 3% e debito/Pil al 60%, è stato deciso dalla Commissione nonostante le cautele di vari Paesi tra cui la Germania, e sarà presentato oggi stesso ai ministri delle Finanze dell’Eurozona riuniti nell’Eurogruppo. È la seconda proroga consecutiva dell’operatività della clausola di salvaguardia, dopo quella dell’anno scorso
E in un certo senso allevia, in prospettiva, il peso delle raccomandazioni della Commissione rivolte al nostro Paese, che per il momento – con le regole del gioco sospese – non andrà incontro né ora né per i prossimi dodici mesi una procedura di infrazione per disavanzo eccessivo.
A pesare e determinare il nuovo rinvio del Patto sono le incertezze dovute alla guerra in Ucraina, che insieme all’inflazione record trainata dai costi dell’energia e alle strozzature nelle catene degli approvvigionamenti hanno affossato le prospettive di ripresa del blocco, come certificato appena una settimana fa dalle previsioni economiche di primavera dell’esecutivo Ue, tagliando le stime di crescita dell’Ue e dell’Eurozona nel 2022 dal 4% al 2,7% (per l’Italia un tonfo dal 4,1% al 2,4%).
Come già l’anno scorso, il pacchetto di primavera del semestre europeo punterà poi i riflettori sui progetti del Pnrr concordati tra governo e Ue, interventi necessari «per apportare cambiamenti strutturali duraturi»: nel lotto delle raccomandazioni dell’Ue rientrano anche dossier su cui è scontro aperto i partiti al governo, dalla riforma fiscale per alleviare la pressione sul lavoro all’aggiornamento dei valori catastali, che Bruxelles vuole vedere allineati a quelli di mercato. Se la procedura d’infrazione è per ora scongiurata, però, il rischio concreto, in caso di mancata attuazione delle riforme, è quello di non avere le carte in regola per incassare i prossimi pagamenti semestrali del Recovery. Uno scenario che, visto dalla Commissione, metterebbe inevitabilmente a rischio le prospettive di crescita del Paese.
Esattamente lo scenario in cui si annidano le polemiche scatenate ieri dal leader leghista. «Non abbiamo bisogno della consulenza altrui» ha detto facendo riferimento ai fondi del Pnrr. Pronta la risposta degli altri partiti di maggioranza. In primis i dem, con il responsabile Economia del Pd Antonio Misiani: «La capacità di autogoverno di un Paese si misura dalla sua capacità di raggiungere gli obiettivi che si è dato». Una differenza di vedute che, in pieno spirito governista, Pier Ferdinando Casini, senatore del gruppo delle Autonomie, prova a normalizzare: «Draghi è intelligente, sa che deve armarsi di pazienza, ogni tanto spingere sull’acceleratore e ogni tanto sul freno».
(da “il Messaggero”)
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Maggio 23rd, 2022 Riccardo Fucile
LA MINISTRA PER GLI AFFARI REGIONALI ALZA I TONI PERCHÉ NON HA PIÙ NIENTE DA PERDERE: NON SARÀ RICANDIDATA NEL 2023, E PENSA DI MUOVERSI VERSO IL CENTRO
A dividere il Cavaliere e Mariastella non c’è soltanto Putin (e la Ronzulli). Ma anche Salvini. Il quale infatti attacca la ministra forzista: «Prima di criticare Berlusconi, qualcuno dovrebbe contare fino a cinque, con tutto quello che ha fatto nella vita». E la Gelmini replica: «Invito Salvini a rispettare il dibattito interno ad un partito che, per il momento, non è il suo. Ho posto un tema di linea politica su una posizione che comprendo bene non sia quella di Salvini ma che riguarda la collocazione europeista ed atlantista di Forza Italia».
Berlusconi dal canto suo è molto irritato: «Un atteggiamento incomprensibile, parole pretestuose e offensive contro uno che è stato per due volte a capo del G8 e una a capo del G7. Roba da matti», il suo sfogo.
Ma l’espressione gelminiana «per il momento» è anzitutto una denuncia dell’opa che Matteo starebbe scatenando su quel che resta del berlusconismo.
Con tanto di beneplacito di Berlusconi che al suo pseudo-matrimonio con Marta Fascina ha quasi incoronato Salvini come suo successore e che, da politico pragmatico, sa che solo in accordo con il Carroccio alcuni dei suoi possono essere eletti nei collegi uninominali del Nord.
E comunque: come dicono molti in Forza Italia, la Gelmini non sarà ricandidata nel 2023 e quindi alza i toni perché non ha più niente da perdere.
E come lei anche Brunetta (mentre la Carfagna ha ancora molte chance di rientrare negli happy few forzisti che riavranno un posto) che infatti si schiera con la Gelmini: «Bene fa chi chiede chiarezza, sulle posizione di Forza Italia non possono esserci ambiguità. Noi e i nostri elettori siamo da una parte sola: dalla parte dell’Ucraina, dell’Europa e della Nato».
Marciano insieme i due ministri forzisti. Anche perché criticare Berlusconi quando era potentissimo era sconfitta sicura (lo sanno bene Fini e Alfano) ma adesso è più vulnerabile sia fisicamente sia elettoralmente.
Anche se Mariastella sul territorio ha poche truppe: ma può contare sul rapporto solido con un pezzo da novanta del berlusconismo meridionale, il presidente regionale calabrese Occhiuto. Ma non solo.
C’è tutto un mondo di peones e di probabili esclusi dalla tornata del 2023 (ora Fi ha 140 parlamentari ma si calcola che ne torneranno alle Camere non più di un terzo) che pur di avere una chance potrebbe aderire a un eventuale progetto targato Mariastella posizionato al centro.
Le parole di Casini c’è qualcuno che le vede come una apertura di credito verso la ministra: «Non credo che il centrodestra possa credibilmente proporsi alla guida del Paese se non ha sciolto il nodo delle posizioni filo-Putin», osserva l’ex presidente della Camera. E ancora: «Nel centrodestra c’è il tema di Salvini, e il tema del Berlusconi pubblico e di quello privato. Quello pubblico ha fatto affermazioni ineccepibili. Forse ha un problema di recidere qualche elemento sentimentale nel suo rapporto con Putin».
La Gelmini – a Tajani che le chiede responsabilità lei replica: «Responsabile sempre, ma con la schiena dritta» – ha rotto gli argini. «Siccome è una regina dorotea, le consiglio maggiore prudenza», dice di lei il democristian-berlusconiano Rotondi. Mentre da fuori, c’è tutta un’area centrista che fa il tifo per Mariastella.
Osvaldo Napoli, ex forzista ora in Azione, fa una nota di netta apertura alla Gelmini, per un progetto moderato, e il partito di Calenda è dispostissimo a dialogare con lei. Ma ecco Clemente Mastella, spiega: «Siamo alla fine del regno di Silvio. Quindi impazzano le guerre tribali. Anche senza proporzionale, il centro si può fare: basta avere coraggio e Maria Stella e Brunetta hanno deciso di rischiare, anche perché l’avversario non è più Maradona. Noi della zona di centro li aspettiamo».
(da il Messaggero)
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