Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
COL PROPORZIONALE OGNUNO VA PER LA SUA STRADA E SI PUO’ RAGIONARE SU UN ESECUTIVO LETTA-MELONI (METTENDO IN FUORIGIOCO I PUTINIANI SALVINI, CONTE E BERLUSCONI)… LA MELONI, DAVANTI AI “VAFFA” DI SALVINI E BERLUSCONI, CI STA SERIAMENTE PENSANDO, ANCHE SE NEGHERA’
Nei giorni in cui si celebra il centenario della nascita di Enrico Berlinguer – teorico di quel “compromesso storico” tra Partito comunista e Democrazia cristiana stroncato sul nascere dalle Brigate Rosse con la strage di via Fani – nell’establishment italiano si ragiona su nuovi, futuri e ipotetici “compromessi”.
Lo sguardo è rivolto al febbraio 2023 quando, dopo le elezioni politiche, bisognerà acchittare un governo in uno scenario internazionale reso traballante dalla guerra in Ucraina (o dalle sue devastanti conseguenze energetico-alimentari-inflazionistiche) e chissà da quale nuova ondata pandemica.
Senza contare che il contesto politico-partitico, rispetto al voto del 2018, giace ormai in un’urna funeraria: il M5S, dal 32% è sprofondato al 10/12.
Chi unirà le forze per dare all’Italia uno straccio governo, che appaia affidabile agli occhi dell’Europa del Pnrr e del nostro alleato e dante-causa americano?
Perché una cosa è certa: dopo l’invasione russa all’Ucraina e gli avvertimenti inviati alla Cina su Taiwan da Biden, non ci potranno essere sbandamenti: gli Stati Uniti non vogliono a palazzo Chigi né uno svalvolone del Papeete con la maglietta di Putin né un avvocaticchio folgorato sulla via della seta. E allora, a chi affidiamo la patata bollente?
Far di conto è facile, basta soppesare i sondaggi riservati che fotografano il gradimento dei partiti.
Del M5s precipitato al 10%, abbiamo detto; la Lega è in crollo ma non a causa dell’alleanza di governo bensì a causa delle giravolte acchiappa-voti di Salvini (la cui leadership, alle prossime amministrative, è nel mirino del trio Zaia-Fedriga-Fontana), Forza Italia dilaniata dallo scontro da filo-salviniani (Ronzulli-Tajani) e centristi draghiani (Gelmini, Carfagna, Brunetta), chi resta in piedi?
Facile: il Pd di Enrico Letta e Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
I due partiti godono di ottima salute: i dem s’attestano al 21,8% e Fdi è al 22,6%. Sulla carta, le prime due forze del Paese.
Da tempo, inoltre, viene registrata la corrispondenza d’amorosi sensi tra Enrico Letta e Giorgia Meloni. I due si stimano, si confrontano e scontrano, presentano libri (l’ultinmo quello di Fabrizio Roncone) e dialogano spesso. Nonostante la distanza siderale che li separa, sia politicamente che di background (uno soldatino dell’establishment, l’altra capopopolo de’ borgata), i due si piacciono.
Nel suo editoriale di ieri sul “Corriere della Sera”, Angelo Panebianco, ha iniziato a dare forma ai pensieri nascosti della “classe digerente”: “Ci fu un momento nella Firenze del tardo Duecento in cui il legato pontificio riuscì a costringere guelfi e ghibellini a governare insieme la città.
Un po’ per celia e un po’ sul serio ci si può chiedere se dalle parti della curia romana ci sarà qualcuno così autorevole da convincere i due partiti che saranno probabilmente più votati alle prossime elezioni, Pd e Fratelli d’Italia, a governare insieme”.
L’appello accorato si conclude con un invito alle nozze: “Dismettete entrambi, Pd e Fratelli d’Italia, le bandierine, fate un bel disarmo simmetrico e bilanciato, e cominciate sul serio a discutere su come rafforzare le istituzioni di governo”.
Paolo Mieli, notando la nascita del Grande Centro putiniano (M5s, Lega, Forza Italia), si è chiesto cosa possa mai impedire che i fan del Cremlino possano condizionare il governo nella prossima legislatura. La risposta? Eccola: “A meno che, nel Parlamento rinnovato, non si costituisca un asse tra Fratelli d’Italia, il partito di Enrico Letta e quelli di Centro. Un asse – però – assai improbabile”.
Che l’idea circoli sottovoce nella stanze che contano, è confermato dal preoccupato editoriale pubblicato oggi su “Libero” a firma di Alessandro Sallusti che, dando fiato al Berlusconi-pensiero declinato in salsa salviniana, prova a “scoraggiare” l’operazione:
“La questione puzza di trappola lontano un miglio. E vero che in questi anni ne abbiamo viste di tutti i colori – dal governo giallo-verde a quello rosso-verde e infine l’attuale arcobaleno – ma a immaginare per il domani a un esecutivo rosso-nero giuro non ci ero arrivato. Saro prevenuto, ma c’e da preoccuparsi”.
Nel Pd l’idea è in discussione da un po’. Le putinate di Salvini e i volteggi di Conte-zelig hanno spinto i dem a guardarsi intorno. Della serie: e noi, domani, con chi condividiamo il potere? Di giorno in giorno, ha preso corpo un ragionamento: e se il futuro accordo di governo lo facessimo con Fratelli d’Italia?. D’altronde, si ragiona al Nazareno, Giorgia Meloni è una leader saldamente al comando del suo partito, ha mostrato dall’opposizione una certa affidabilità (nel voto sull’invio di armi all’Ucraina, ad esempio) e non deve barcamenarsi tra correnti e malpancisti.
Insomma, un partito strutturato al pari del Pd. Le vecchie diffidenze di una certa sinistra post-comunista sono gradualmente evaporate con le scissioni che hanno esfiltrato i comunisti dal Pd, i vari D’Alema, Bersani, Speranza. Chi ora pascola nel Pd, dopo aver ingurgitato l’alleanza di governo con i Cinquestelle per sostenere il Conte-bis, è pronto praticamente a tutto.
D’altronde, qualcosa è cambiato anche in Giorgia Meloni: si è “rinnovata”. Ha deposto a parole il vecchio sovranismo anti-Ue (ora si parla di “patriottismo”), ha capito di essersi cotonata il cervello candidando al comune di Roma il tribuno radiofonico Michetti, ha smussato gli angoli della propaganda più retriva e ha aperto dialoghi a più livelli (usando anche la manifestazione “Atreju” con via vai di ospiti, da Calenda a Cassese).
I teorici del “compromesso” Pd-Fdi guardano ai centristi di oggi e di domani (Calenda, Brunetta e cespugli futuribili) come pontieri per favorire un’intesa.
Ovviamente è uno scenario, ora, ai limiti del “wishful thinking”. Un puzzle di questo tipo non si mette in piedi dalla sera alla mattina, sommando forze politiche così eterogenee. Né si puo’ costruire a tavolino prima del voto. Ma solo dopo, quando l’urgenza di insediare un governo e la frammentazione del quadro politico spingeranno a esplorare opzioni ora neanche immaginabili.
Grimaldello indispensabile, per uno scenario siffatto, è il cambio di legge elettorale. Servirebbe una legge proporzionale, a cui però Giorgia Meloni, in nome dell’alleanza di centrodestra, si è sempre strenuamente opposta. Come si è opposta a qualunque ipotesi di governo con il Pd e la sinistra. Ma la coerenza in politica è una virtù solo finché non diventa un clamoroso boomerang. Per se stessi e per il Paese.
La Meloni ora è consapevole che il centrodestra non esiste più da un pezzo: Salvini la detesta e non le cederà mai il ruolo di leader della coalizione e pur di sopravanzarla, anche di un solo voto, sta spingendo per creare l’innaturale federazione con Forza Italia, sfruttando le ripetute confusioni mentali e l’opacità di analisi di Berlusconi, eterodiretto dall'”infermiera” Licia Ronzulli.
Il convinto “no” al proporzionale potrebbe essere un autogol per Giorgia Meloni: si condannerebbe a un’alleanza con Salvini e Berlusconi che non solo la vedono come una sosia burina di Rita Pavone ma hanno provato a metterle i bastoni tra le ruote in più occasioni (l’ultima è l’ostilità alla ricandidatura di Nello Musumeci a governatore della Sicilia, unico esponente apicale di FdI).
A Bruxelles come reagirebbero a un “inciucione” Pd-Fratelli d’Italia? Per gli “addetti ai livori”, meglio di quanto si possa immaginare. Il vero spauracchio per l’Ue si chiamava Marine Le Pen insediata all’Eliseo, cocca a libro paga di Putin e in conflitto permanente con l’establishment europeo.
Giorgia Meloni è invece vista per quello che è: una leader popolare in ascesa, nel pieno di un riposizionamento “di governo”, che già ricopre un ruolo in Europa come leader dei Conservatori (dopo che la sua aspirazione ad entrare nel Partito Popolare Europeo finì nel cestino).
La guerra in Ucraina, poi, ha accelerato il processo di sdoganamento della Meloni in Europa: il suo convinto atlantismo, di sponda con i suoi euro-alleati polacchi, è un ottimo pass agli occhi dei mammasantissima di Bruxelles (e pure di Washington).
Agli osservatori interessati non è sfuggito neanche il buon rapporto che Giorgia Meloni ha intessuto con il Quirinale. Il dialogo tra la leader di Fratelli d’Italia e l’inner circle di Mattarella è più che cordiale
Ps: Last but not least: se alle elezioni amministrative la Lega dovesse scendere sotto il 15%, per Salvini si spalancano le porte del Vietnam
(da Dagoreport)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
INTERVISTA A GREGORY ALEGI: “IL PROBLEMA E’ TUTTO POLITICO, LA DESTRA HA FATTO DEL POSSESSO DELLE ARMI UNA QUESTIONE IDENTITARIA”
“Sono felice che mi abbia chiamato per un commento ma allo stesso tempo sono depresso perché queste cose le dico ormai tutti gli anni a ogni strage. E la realtà non cambia”.
A parlare è Gregory Alegi, docente del Dipartimento di Scienze Politiche di Storia delle Americhe dell’Università Luiss di Roma, a proposito della strage di Uvalde in Texas, dove Salvador Ramos, 18 anni, ha ucciso 19 bambini e 2 insegnanti dopo aver fatto irruzione alla Robb Elementary School ed poi è stato ucciso dalla polizia. Si tratta dell’ennesimo massacro verificatosi in una scuola americana: quella avvenuta in Texas sembra avere moltissime similitudini con la strage del 14 dicembre del 2021 nella scuola elementare Sandy Hook di Newton, in Connecticut, che a tutt’oggi resta la strage con il più alto numero di persone uccise in una scuola elementare americana, e la quarta più tragica in assoluto negli Stati Uniti.
Prof. Alegi, anche secondo lei la responsabilità di quello che è successo in Texas è della lobby delle armi?
“Ci sono due aspetti da considerare. In tutti i paesi ci sono persone con disagio mentale e in tutti i paesi ci sono le armi, però solo negli Stati Uniti si incontrano così facilmente. Quello che c’è dietro, però, è che il problema è esclusivamente politico e non è di lobby delle armi come ha detto con comprensibile sdegno il presidente Biden. Purtroppo, se andiamo a vedere i fatturati, le armi leggere personali in realtà costano poco e in una economia come quella americana, vale a dire in un paese che sta inviando 50 miliardi di dollari di aiuti in gran parte militari all’Ucraina, contano davvero poco”.
Cosa intende quando parla di problema politico?
“Il problema è secondo me la lettura estremista del secondo emendamento della Costituzione, che recita: “Una milizia ben organizzata è necessaria alla sicurezza di uno Stato libero e dunque il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non può essere violato”. Nella visione dei padri fondatori, il diritto di portare armi a livello individuale equivaleva a quello del popolo armato perché il popolo in armi è l’esercito del Paese per difendersi contro l’invasore. Nella lettura attuale, invece, dalla sentenza Miller del 2008, è diventato il diritto estremo ed assoluto del singolo di armarsi come vuole e addirittura contro lo Stato. E quest’idea viene alimentata in particolare dalla Destra americana che vede nelle armi non solo un mezzo di difesa passivo e attivo ma addirittura un mezzo contro lo Stato. Di conseguenza la maggioranza del partito repubblicano non osa fare nulla e blocca qualsiasi tentativo di riforma. Ovviamente poi la lobby delle armi fruisce di questa situazione, ne cavalca l’onda, ma il motore primo è la lettura distorta di quell’emendamento”.
Perché la Destra conta così tanto sulle armi?
“Ne hanno fatto un elemento di identità, è un articolo di fede, che li definisce. È come il discorso dell’identità cristiana, o meglio evangelica, che loro estremizzano facendola diventare discriminatoria verso i non cristiani. Basti pensare che la potentissima NRA (National Rifle Association), che 50 anni fa era una associazione di appassionati di caccia e tiro, è diventata un partito politico di destra che pubblica ogni anno tabelle con i voti ai politici amici delle armi. Nei sondaggi la maggioranza dei cittadini tutt’ora vorrebbe una forma di regolamentazione delle armi solo che, con l’assegnazione di due senatori per Stato a prescindere dalla popolazione, nella realtà prevale l’ignoranza favorevole alle armi. Con il Senato letteralmente spaccato a metà non è possibile avere la maggioranza di due terzi e quindi evitare l’ostruzionismo. Questa cosa non risolverà. Ed è di una tristezza unica. Si potrebbe anche fare qualche piccolo correttivo di tipo amministrativo ma si fa fatica pure su quello, per esempio si potrebbero impedire gli acquisti online o di parti smontate di armi, o ancora di verifica di requisiti minimi. Noi come europei troviamo incomprensibile questo aspetto della cultura americana. Anche la Corte suprema a maggioranza conservatrice negli ultimi 20 anni ha letto quello che era un diritto di difesa collettivo del popolo verso l’estero come un diritto individuale all’armamento illimitato”.
Quanto influisce la questione razziale in queste stragi di massa?
“Gli Usa hanno problemi razziali, o meglio etnici, giganteschi. Ci sono tensioni grosse sia dal lato dei bianchi, che temono di diventare minoranza, sia dal lato delle attuali minoranze in cui il senso di oppressione e sfruttamento può portare a cercare nelle armi lo sfogo. In realtà, io non sono sicuro che la causa sia razziale quanto da ricercare nel disagio sociale che per ciascuno di noi è diverso ma che per molti di loro finisce per essere canalizzato sulla violenza. Anche nelle cronache italiane abbiamo letto in questi giorni di omicidi e altri fatti di sangue, ma mentre da noi se qualcuno si arrabbia in casa trova il coltello, lì hanno il mitra, cioè armi potentissime che moltiplicano i propri effetti”.
(da Fanpage)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
I REPUBBLICANI SONO ASSERVITI ALLE LOBBY E LA POPOLAZIONE RESTA DIVISA… IN TEXAS PER GLI UNDER 21 È PIÙ FACILE ACQUISTARE UNA PISTOLA CHE BERE UNA BIRRA AL PUB
Il presidente andrà in Texas e la Casa Bianca sta studiando i dettagli di uno dei viaggi più difficili per Joe Biden. Rivivrà la scena e lo strazio di Sandy Hook, quando nel 2013 venti bambini furono uccisi in una scuola elementare del Connecticut. Allora era vicepresidente.
A lui Obama aveva affidato il compito di studiare il dossier armi, di presentare idee, proposte per far avanzare leggi in Congresso affinché in America fucili e revolver non circolassero liberi di finire nelle mani del primo acquirente, sano o mentalmente instabile fosse.
Biden lavorò alacremente, Obama siglò venti executive action, ma la grande legge, quella che metà America invocava e l’altra disprezzava, è stata affossata.
Democratici e qualche repubblicano di buona volontà andarono vicini a un accordo. Il senatore Joe Manchin – lo stesso che oggi guida la fronda interna a Biden su temi sociali ed economici – e il conservatore Pat Toomey arrivarono a un passo dal far votare al Senato una legge che irrigidiva i controlli (background check, ovvero la valutazione sull’idoneità di acquisire un fucile) e allentava qualche lacciuolo.
Teneva insieme parte delle richieste degli attivisti anti-armi e le preoccupazioni della Nra (National Rifle Association, lobby delle armi). Naufragò mancando la soglia dei 60 voti (si fermò a 54) che avrebbe permesso di superare l’ostacolo procedurale e approdare sul tavolo di Obama.
Brindarono le lobby e i produttori di armamenti che oggi possono in uno Stato come il Texas avere norme che consentono agli under 21 di comprare una pistola anche se non possono, gli stessi under 21, bere una birra al pub.
Era il 17 aprile del 2013 e quel giorno, commentando la sconfitta Biden disse: «Adesso però si creerà un grande movimento popolare a sostegno del controllo degli armamenti».
Non andò così. Quasi dieci sono un buon arco temporale per dire che la previsione di Biden era se non sbagliata quantomeno intrisa di un ottimismo di basso lignaggio.
L’America è un Paese spaccato sulle armi come nemmeno sull’aborto. «È più facile comprare un’arma che abortire», era uno dei cartelli a Washington durante la marcia di dieci giorni fa contro la soppressione della legge Roe contro Wade.
eri il senatore Chris Murphy, del Connecticut, ha tenuto un bellissimo discorso in Senato, chiedendo ai colleghi cosa ci stessero a fare a Washington se nemmeno «riusciamo a metterci d’accordo su una norma sulle armi», quelle che uccidono i bambini. Non ha sortito grandi effetti, se non tanti like su Facebook.
Mitch McConnell, gran capo dei repubblicani al Senato, ha tenuto un discorso altrettanto carico di passione, ma ha parlato di gesto di un maniaco e di instabilità mentale. Silenzio sulla facilità con cui in alcuni posti d’America si compra un revolver.
Marco Rubio, senatore della Florida, ex candidato alla presidenza, vuole mettere ai voti una legge per rafforzare la sicurezza nelle scuole, non fermare i Ramos d’America dal comprare fucili.
L’idea è schierare uomini in divisa. Insomma, l’esercito per fermare i 18enni armati di Ar-15 comprati in armeria con caricatori modificati e sbandieratori dei loro istinti killer sui social.
D’altronde è la stessa politica a fomentare e incentivare il business. Greg Abbott, governatore del Texas, falco su armi e immigrazione diceva così anni fa: «Dobbiamo comprare più armi, in California ne hanno di più». Ha così tanto seguito che nello Stato ne sono state registrate 1 milione nel solo 2021.
In tutta America nel 2020 ne sono state acquistate 11 milioni. Fra nuovi e vecchi grilletti, in circolazione ce ne sono 400 milioni, più degli abitanti: 331 milioni. In almeno un terzo delle case degli States c’è un’arma: nella credenza in salotto, o nel comodino, o nel garage.
La Nra domani aprirà la due giorni di convegno a Houston, 500 chilometri da Uvalde. Ospiti d’onore: Abbott, Ted Cruz, senatore repubblicano e impegnato a dire che ci sono «troppi mass shootings» e altrettanto impegnato a bloccare qualsiasi legge regoli i commerci; e Donald Trump. Che da presidente aveva pure ordinato al suo staff di scrivere una legge sulle armi e che in seguito alla strage del 2017 di Las Vegas esplose in un «dobbiamo fermare queste cose».
Ma anche allora finì tutto nel dimenticatoio. Il tema armi è l’emblema dello stallo in cui la democrazia americana è precipitata. Con un Congresso spaccato in due e la palla nel campo repubblicano, Biden è apparso alquanto rassegnato nelle sue prime dichiarazioni riguardo Uvelda.
Il realismo non gli fa difetto. Ha riconosciuto quanto è difficile fermare la circolazione di fucili semi automatici e caricatori modificati per reggere più proiettili. Ci sono due leggi approvate alla Camera e che languono in Senato. Non andranno da nessuna parte, nessun repubblicano oserebbe mettersi contro la propria base elettorale.
Biden è inoltre memore dell’esperienza del passato. Non solo il caso Sandy Hook. Nel 1994 da senatore fu uno dei principali sponsor di una legge che bandiva i fucili d’assalto. Il massimo che si ottenne fu la legge del 1994 che però ebbe vita appena dieci anni.
Nel 2004 non venne confermata. Charles Schumer, capo democratico al Senato, ieri ha invitato i repubblicani a lavorare insieme per fermare le stragi con le armi. Ma prima di finire il ragionamento ha detto che «sarà improbabile».
La storia e le grida di dolore si ripeteranno al prossimo mass shooting: ce ne sono stati 213 nel 2022, più di uno al giorno. In qualche angolo d’America mentre leggete queste righe ne sarà accaduto un altro. Alle statistiche, persino a quelle tragiche, non si sfugge.
(da La Stampa)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
C’È CHI SUONA IL LAGO DEI CIGNI, IL BALLETTO TRASMESSO DALLA TV SOVIETICA QUANDO MORIVA UN LEADER COMUNISTA, E CHI SCENDE IN PIAZZA CON UN CARTELLO BIANCO
Un bambino russo ha bevuto della limonata al dragoncello ucraina, ora è in rianimazione. Delle bambine russe hanno mangiato caramelle offerte da bimbe ucraine, sono state male, una è morta. Se vedete per terra degli oggetti, portafogli, passaporti, iPhone, non sollevateli: potrebbero essere stati minati da infiltrati ucraini.
Sono soltanto alcune delle leggende metropolitane che circolano in queste settimane nelle chat dei genitori e nei WhatsApp condominiali, soprattutto nel Sud della Russia, e secondo l’antropologa Aleksandra Arkhipova sono un segno che la guerra comincia a venire avvertita e temuta dai russi comuni: «Si tratta di leggende metropolitane antiche e internazionali, che vengono risvegliate dalla paura, per razionalizzare una guerra incomprensibile».
Sono un sintomo del disagio sociale, così come l’esplosione delle barzellette, un classico del dissenso sovietico ritornato oggi a colmare di ironia una dissociazione tra una propaganda martellante e una realtà terrificante, spiega Arkhipova, che studia da anni il folclore urbano e i linguaggi della protesta. Un esempio? «Un uomo entra di corsa in farmacia e chiede degli antidepressivi. Il farmacista obietta che serve una ricetta. “Ma come, non vi basta il mio passaporto russo?!, protesta il cliente».
La guerra in Ucraina ha aperto anche un fronte simbolico, dove il regime viene combattuto da quella che Arkhipova definisce la “protesta dei deboli”, una “resistenza semiotica”, il cui obiettivo principale è spezzare la realtà creata dal linguaggio censurato del governo. Il nuovo totalitarismo russo ha esteso drasticamente i confini della repressione: «Se fino a tre mesi fa si veniva arrestati per delle azioni, come scendere in piazza, ora anche il rifiuto di aderire alla retorica ufficiale è un crimine».
Lo scontro si sposta dalle circostanze pubbliche, come la piazza, alla vita quotidiana, dove i “partigiani semiotici” hanno aperto un fronte di micro atti sovversivi che puntano a creare dissociazioni cognitive nei cittadini inondati di propaganda. Chi si limita a dissociarsi, ritirando i figli da scuola nei giorni delle recite “patriottiche”.
Altri cercano di influenzare gli altri: chi sostituisce i cartellini dei prezzi al supermercato con volantini, chi lascia sulle panchine dei giardinetti pelouche imbrattati di vernice rossa e scritte “Bucha”, o pupazzetti della Lego che tengono in mano bandierine ucraine, chi scrive e dipinge sui muri o affigge manifesti: «Sono tutti modi per rompere il silenzio, e far vedere che i dissidenti non sono una minoranza di reietti, non siamo soli»: per incrociare gli sguardi dei propri simili si possono indossare vestiti nei colori giallo-blu dell’Ucraina (che possono costare un fermo della polizia), attaccare una spilletta pacifista o ricamando sulla borsa o sulla sciarpa un “no alla guerra” in alfabeto Braille, ascoltare i DDT di Yuri Shevchuk – incriminato per aver dichiarato a un concerto che “la patria non è il culo del presidente da leccare” – oppure leggere in metropolitana una copia di “1984” di Orwell.
«La protesta non accenna a diminuire», dice Arkhipova, che monitora i casi di arresti di dissidenti, e nota come lo scontro “semiotico” spesso manda in panne la polizia: la ragazza che è stata fermata per essere scesa in piazza con un foglio bianco, per esempio, è stata rilasciata senza verbale, anche se sia lei che gli agenti sapevano benissimo cosa avrebbe dovuto esserci scritto. È uno dei motivi per cui molti graffiti e meme giocano con le parole e le citazioni, come quelle del “Lago dei cigni” – il balletto trasmesso dalla TV sovietica quando moriva un leader comunista – della tabacchiera con la sciarpa, i due oggetti utilizzati dai congiurati per uccidere, nel 1801, lo zar Paolo I. Allusioni troppo colte, che soltanto l’intellighenzia può capire?
Non soltanto, obietta l’antropologa: «Il nostro cervello viene attratto dagli enigmi e risolverli provoca un rilascio di endorfine, ci fa provare piacere. Rispetto a un lapidario “no alla guerra”, un gioco di parole, un messaggio arguto, ha maggiori possibilità di venire notato, fotografato e diffuso nei social». La Rete è la nuova frontiera della protesta, e anche dello studio degli umori popolari. Arkhipova rileva un cambiamento visibile nel linguaggio dei sostenitori della guerra: «Se nelle prime settimane facevano propria la retorica ufficiale sui “nazisti” e il Donbass da liberare, oggi tendono più a prendere le distanze con argomenti del tipo
“Siamo gente piccola, quelli in alto sanno quello che fanno, Putin avrà le sue ragioni”. In generale, notiamo che chi protesta contro la guerra ha più follower dei sostenitori del regime». Chi sostiene Putin allora? «Gli anziani. Il regime ha scommesso tutto sui vecchi nostalgici, proponendo loro una Urss-2 che ormai viene ricostruita anche nei dettagli più assurdi. Ma nessuno nella storia è mai riuscito a vincere contro i giovani».
(da la Stampa)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
DOPO CINA E FRANCIA, L’ITALIA È IL TERZO PAESE AL MONDO PER PERCENTUALE DI IMPRESE CHE NON HANNO INTERROTTO LE LORO RELAZIONI ECONOMICHE CON MOSCA
A tre mesi dall’inizio della guerra in Ucraina e malgrado cinque pacchetti di sanzioni europee contro il Cremlino, molte aziende italiane hanno scelto di non abbandonare la Russia. Dopo Cina e Francia, l’Italia è il terzo Paese al mondo per percentuale di imprese che non hanno interrotto le loro relazioni economiche con Mosca: il 70% delle nostre società ha optato per questa soluzione, a fronte di una media mondiale del 42%.
A dirlo è un report della Yale School Management, business school dell’Università di Yale, che monitora con aggiornamenti quotidiani oltre mille aziende (selezionate dalla scuola) che lavorano – o lavoravano – in Russia.
Fin qui sono 750 quelle che avrebbero comunicato all’ateneo americano di aver fermato le proprie operazioni. Il giro d’affari complessivo dei rapporti commerciali tra Italia e Mosca nel 2021 ha raggiunto un valore di circa 20 miliardi di euro: somma che tiene conto sia dei soggetti operativi in territorio russo sia di quelli che puntano sulle esportazioni.
Conti alla mano, l’Istituto per il commercio estero (Ice) parla di 7 miliardi di euro di merce italiana venduta ogni anno in Russia.
Il rapporto della Yale School classifica le mille imprese in cinque categorie a seconda del comportamento tenuto in seguito all’invasione dell’Ucraina: da quelle che non hanno modificato in nulla le proprie relazioni economiche a quelle che invece hanno fatto scelte più drastiche.
Dal settore energetico a quello dell’alta moda, dall’alimentare al tecnologico, l’Italia dell’industria preferisce non chiudere (del tutto) i ponti con “Madre Russia”, tentando di mediare tra sanzioni, opinione pubblica e ricadute economiche.
Chi lascia e chi resta Nel Paese governato da Putin operano 480 aziende italiane: 30 con impianti produttivi, 150 con cooperazioni produttive o joint venture, 300 imprese con uffici di rappresentanza. Stando ai dati del report americano, c’è chi «continua a gestire gli impianti in Russia», come il gruppo Buzzi Unicem che produce cemento e chi, per esempio Calzedonia, «continua le vendite» all’ombra del Cremlino.
Altri, come Assicurazioni Generali, hanno invece preferito «uscire completamente» dal mercato russo. Sempre stando all’indagine di Yale, sono 28 i grandi marchi che risultano almeno in parte ancora attivi in Russia.
Quali? Nell’elenco figurano nomi della farmaceutica come Menarini, dell’abbigliamento come Benetton, Armani, Calzedonia, Diesel, Diadora. Nel settore alimentare sono diverse le realtà ad avere stabilimenti in Russia, come Barilla e De Cecco: queste aziende hanno optato per uno stop agli investimenti, ma non alle produzioni. Anche il gruppo Cremonini (carni lavorate e ristorazio ne) è ancora operativo in Russia.
Così come la dolciaria Ferrero, che ha una fabbrica a 160 chilometri da Mosca dove lavorano circa 800 persone. Gli investimenti programmati dal gruppo di Alba sono saltati ma non le attività essenziali: «Dopo la chiusura temporanea dei nostri uffici in Ucraina, abbiamo deciso di sospendere temporaneamente anche in Russia tutte le attività non essenziali e i piani di sviluppo», spiegano dall’azienda produttrice della Nutella. «Ciò include anche le attività promozionali e la pubblicità».
TPI ha contattato le aziende per ottenere informazioni dettagliate. Dal gruppo Benetton fanno sapere: «In questo quadro, Benetton ha sospeso tutti i propri programmi di sviluppo in Russia, mercato dove è presente da oltre 30 anni, destinando gli investimenti previsti in nuove aperture ad attività di assistenza umanitaria del popolo ucraino da parte della Croce Rossa Italiana. L’azienda ha inoltre provveduto alla donazione di capi in favore dei profughi ucraini e si è impegnata per fornire protezione e supporto ai rifugiati ucraini in Italia. Allo stesso tempo, Benetton Group, ha deciso di proseguire le attività commerciali già in essere in Russia, costituite da rapporti di lunga data con partner commerciali e logistici e da una rete di negozi che danno impiego ad oltre 600 famiglie».
E conclude: «L’azienda monitora quotidianamente l’evolversi della situazione, con la speranza che gli sforzi diplomatici possano condurre quanto prima ad una soluzione». Il gruppo Calzedonia ha invece deciso di non rilasciare dichiarazioni. Mentre Diesel, che secondo il report risulta attivo in Russia, riferisce invece a TPI che l’azienda «non ha negozi di proprietà in Russia, abbiamo chiuso da subito l’online, continuiamo a rispettare le normative vigenti rispetto alle restrizioni decise dal Governo e dall’Ue».
Armani rende noto che «il gruppo non opera direttamente in Russia e i negozi operanti nel territorio con i marchi del Gruppo (Giorgio Armani, Emporio Armani, Armani Exchange) sono gestiti da franchisee indipendenti. Armani si attiene al rigoroso rispetto del regime sanzionatorio emanato dall’Unione europea».
Banche e partecipate Nel settore energetico, Enel ha tre centrali elettriche a gas e due impianti eolici che sta cercando di cedere: dal report di Yale si evince infatti che la partecipata dal Ministero dell’Economia italiano ha sospeso gli investimenti in corso e sta lavorando per dismettere le attività correnti.
Per Eni la situazione è più delicata: «Le joint venture in essere con Rosneft, legate a licenze esplorative nell’area artica, sono congelate da anni, anche per le sanzioni internazionali imposte a partire dal 2014». Inoltre «a livello commerciale Eni, sin dall’inizio del conflitto, ha sospeso la stipula di nuovi contratti relativi all’approvvigionamento di greggio o prodotti petroliferi».
Restano operativi invece, come è noto, i contratti relativi alle forniture di gas. Su questi ultimi Eni rende noto di aver aperto il doppio conto presso GazpromBank, uno in euro e l’altro in rubli, per pagare le forniture di gas alla Russia. «L’apertura dei conti avviene su base temporanea e senza pregiudizio alcuno dei diritti contrattuali della società, che prevedono il soddisfacimento dell’obbligo di pagare a fronte del versamento in euro.
Tale espressa riserva accompagnerà anche l’esecuzione dei relativi pagamenti», sottolineano dall’azienda. «La decisione, condivisa con le istituzioni italiane, è stata presa nel rispetto dell’attuale quadro sanzionatorio internazionale e nel contesto di un confronto in corso con Gazprom Export». Anche Saipem e Maire Tecnimont hanno sospeso gli investimenti e si sono concentrati sulle attività correnti.
Nel settore del credito, secondo le indiscrezioni, a lasciare presto la Russia sarà Unicredit, che avrebbe intavolato negoziati preliminari per vendere la sua controllata Unicredit Bank, che detiene poco più dell’1% del mercato russo. In base a quanto scrive Bloomberg, l’istituto guidato da Andrea Orcel sarebbe stato contattato da potenziali acquirenti interessati all’operazione. Si parla di istituzioni finanziarie e società interessate a ottenere una licenza bancaria all’interno della Russia. Intesa SanPaolo ha invece sospeso nuovi investimenti e ridotto i nuovi finanziamenti.
(da TPI)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Mikhail Vladimirovich Mishustin, premier della Federazione Russa, e Denis Manturov, Ministro dell’industria e del commercio, si sono visti ritirare per decreto firmato dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Stella d’Italia.
Il documento, firmato il 9 maggio scorso su proposta del ministro degli Esteri Luigi Di Maio (che nel 2020 aveva proposto entrambi i funzionari del Cremlino per la nomina), è entrato ieri in Gazzetta Ufficiale, diventando effettivo. Sono le prime onorificenze revocate a cittadini russi dallo scoppio della guerra in Ucraina.
La revoca – come si legge nel testo ufficiale del decreto – è avvenuta “per indegnità”. Un secondo Decreto firmato da Mattarella – sempre su proposta della Farnesina – revoca anche l’Onorificenza di Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia a Viktor Leonidovich Evtukhov, Segretario di Stato russo e ad Andrey Leonidovich Kostin, Presidente della Banca russa Vtb .
“Leggere sulla gazzetta ufficiale che dopo oltre due anni di lotte, richieste, lettere, comunicati, interventi parlamentari, si siano finalmente ottenute queste revoche è per noi una notizia molto positiva”, dichiarano in una nota Massimiliano Iervolino e Igor Boni, segretario e presidente di Radicali Italiani e Giulio Manfredi, membro della giunta di Radicali Italiani. “Lo abbiamo richiesto – proseguono – da soli, nel disinteresse di tutti dal 2020, due anni prima dell’attacco militare di Putin. Le azioni di connivenza con la Russia, che hanno visto i nostri governi, soprattutto per mano del ministro Di Maio, elargire a pioggia onorificenze a gerarchi del Cremlino hanno rappresentato un errore politico madornale. Di fronte all’aggressione terrorista e feroce della Russia contro l’Ucraina e contro l’Europa occorre porre rimedio. Per questo mentre ci rallegriamo di queste decisioni torniamo a chiedere con forza che anche le altre 26 onorificenze rimanenti vengano revocate. L’Italia, grazie innanzitutto al Presidente Draghi, sta tenendo una posizione netta di pieno sostegno all’Ucraina; a maggior ragione, anche rispetto a una vicenda altamente simbolica come quella delle onorificenze, vi deve essere una completa e inequivocabile cesura con un passato di vergognosa connivenza con Putin”.
(da agenzie)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
IL QUADRO CHE EMERGE DALL’ANALISI
L’84,3% degli italiani è preoccupato dalla possibilità di un conflitto mondiale, ma la crisi energetica preoccupa ancora di più (87,3%).
L’emergenza sanitaria e le preoccupazioni legate alla salute turbano il 14,3% dei cittadini e il 7,4% teme la possibilità di ammalarsi. A rivelarlo è il 34/mo Rapporto Italia dell’Eurispes.
Secondo i dati, l’83,2% degli italiani è preoccupato dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, mentre l’atteggiamento di alcuni Paesi come Cina, Brasile e India verso l’emergenza climatica è fonte di ansie per il 75,7%. Meno preoccupante sembra essere l’espansionismo economico della Cina (56,1%).
La situazione economica generale del paese è peggiorata negli ultimi dodici mesi (59,1%) e continuerà a peggiorare nel prossimo anno (47%), mentre quasi la metà delle famiglie è costretta ad usare i risparmi per arrivare a fine mese. E’ la fotografia che emerge dal 34 esimo Rapporto Italia dell’Eurispes.
In dettaglio la condizione economica delle famiglie è rimasta stabile nell’ultimo anno nel 36,5% dei casi, mentre nel 39,4% è peggiorata. in pochi hanno riscontrato miglioramenti (12,3%). Il 45,3% delle famiglie sono costrette ad utilizzare i risparmi per arrivare a fine mese e la capacità di risparmiare è diminuita (22,9%; -4,7%); mentre aumenta la difficoltà a pagare la rata del mutuo (43%; +4,8%).
Circa una famiglia su quattro affronta con fatica le spese mediche (24,5%), e il pagamento delle utenze di gas, luce, ecc. (34,4%, +7,4% sul 2021). Il 35,7% (+7,2% rispetto al 2021) ha chiesto un sostegno finanziario alla propria famiglia oppure si è rivolto ad amici, colleghi o altri parenti (18,2%, +3,1%); ha chiesto un prestito bancario il 18% (+2,9%), mentre è molto più diffuso il ricorso alla rateizzazione dei pagamenti per effettuare acquisti, utilizzata da circa un italiano su tre (33,6%).
L’11,1% del campione, non potendo accedere a finanziamenti bancari, ha richiesto prestiti a privati (non parenti o amici), pratica che spesso si traduce in forme di usura; il 14,4% ha dovuto vendere o ha perso dei beni (casa, attività, automobile, ecc.) e il 12,9% è tornato a vivere in casa con la famiglia di origine o con i suoceri (+2,9%).
Chi avrebbe avuto bisogno di una/un badante per sé o per un proprio caro, vi ha rinunciato nel 31,6% dei casi e sono il 27,5% i genitori che hanno rinunciato all’aiuto di una/un baby sitter. tra quanti, studenti e lavoratori, hanno optato per il rientro nella propria regione a causa della pandemia, emerge che il 28,8% sono stati costretti a farlo per mancanza di lavoro
Poco più di un italiano su quattro (il 25,7%) ritiene che la pandemia sia frutto di un complotto, mentre per il 22,9% è stato solo una casualità. Lo rivela il 34/mo Rapporto Italia dell’Eurispes, secondo il quale poco meno della metà degli italiani (46,6%) ammette di non avere idea di come si sia originata la pandemia.
Secondo la ricerca, il 42,1% degli italiani ritiene che il virus sia stato creato in laboratorio e poi sfuggito dal controllo, mentre la Cina è indicata come responsabile in quasi un terzo dei casi (31,4%).
La netta maggioranza dei cittadini – rivela l’istituto – ha avvertito, dall’inizio della pandemia, limitazioni della propria libertà personale e in caso di necessità non sarebbe disposta ad un’ulteriore limitazione della libertà.
Umore più instabile (58,4%), demotivazione (57,3%) e ansia (53,3%) sono gli stati d’animo che hanno accompagnato gli italiani dall’inizio della pandemia. Secondo il nuovo Rapporto, il 44% degli italiani afferma di aver evitato di far visite di controllo nel corso dell’ultimo anno per non frequentare luoghi a rischio di contagio Covid ed il 42,4% ha incontrato difficoltà per essere visitato dal medico di base.
Un terzo dei cittadini (33,3%) si è visto rimandare un intervento chirurgico o una terapia per indisponibilità delle strutture sanitarie, una quota di poco inferiore (31,8%) ha incontrato difficoltà a trovare assistenza sanitaria dopo aver contratto il Covid, il 28,5%, quando ha avuto un problema di salute, ha rinunciato a visite e/o esami per timore di contagiarsi nelle strutture sanitarie.
Il 65,9% degli italiani non ha fiducia nel sistema giudiziario e solo l’8% ritiene che la giustizia funzioni bene. Lo rivela il 34/mo Rapporto Italia dell’Eurispes. La malagiustizia, secondo l’analisi, sarebbe causata soprattutto dall’eccessiva lentezza dei processi.
Di fronte ad un torto subìto configurabile come reato o illecito – spiega l’Eurispes -, più di 1 cittadino su 4 preferisce non denunciare. Gli italiani, poi, sono compatti nell’affermare che i giudici debbano essere giudicati con lo stesso sistema applicato a tutti i cittadini (80,2%), mentre convince molto meno ma sempre in maggioranza l’idea secondo cui l’azione dei giudici sarebbe condizionata dall’appartenenza politica (57,8%).
Resta alto il consenso degli italiani nei confronti di istituzioni e forze dell’ordine, ma non per partiti, politica e pubblica amministrazione. A rivelarlo è il 34/mo Rapporto Italia dell’Eurispes.
Nell’ultimo anno, rileva l’istituto, tre cittadini su dieci (il 30,3%) hanno riferito una diminuzione della propria fiducia nelle istituzioni, pubbliche e private, e solo un 10% ha indicato un aumento. Resta comunque alta la fiducia nei confronti del presidente della Repubblica (55,6%), mentre tra i corpi dello Stato quello che raccoglie i consensi più alti sono i Vigili del Fuoco, con l’85,8%, seguiti dalla Protezione civile al 79%.
Tra le forze dell’ordine, i maggiori consensi sono per la Polizia, al 60,3%, mentre i Carabinieri sono al 55%, la Guardia di Finanza al 59,6% e la Polizia penitenziaria al 59%. Bene anche le forze armate: l’apprezzamento è alto per la Marina Militare (70,3%), per l’Aeronautica Militare (68,7%) e per l’Esercito (66,5%) mentre la Guardia Costiera è al 69,4%. Anche il comparto intelligence raccoglie i giudizi positivi degli italiani, con il 56,6%.
Diversi i numeri del Parlamento, che raccoglie poco più di un quarto dei consensi presso i cittadini (25,4%), per il governo, dove i fiduciosi rappresentano più di un terzo degli italiani (35,1%), alla Magistratura si affidano circa quattro cittadini su dieci (41,3%), mentre i sostenitori dei presidenti di Regione sono il 38,2%. La scuola è al 71% dei consensi, un risultato simile a quello dell’università (75,1%).
Buono anche il sentimento che lega i cittadini alla Chiesa (54,4%), mentre le altre confessioni religiose raccolgono il 40% del numero dei fiduciosi. Molto apprezzate anche le associazioni di volontariato (70,7%). Il gradimento nei confronti dei sindacati arriva al 45,2%, mentre i partiti sono al 29,1% e la Pubblica amministrazione al 39,7%. Le associazioni degli imprenditori ottengono la fiducia del 39% del campione e le associazioni dei consumatori del 52,4%.
(da agenzie)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
HA ATTESO 4 GIORNI PER CONCEDERE TEMPO ALLE SCUSE CHE NON SONO ARRIVATE
Ha atteso quattro giorni, nella speranza che quell’uomo si scusasse per il suo comportamento. Ma questo non è successo.
Per questo motivo, il sindacalista Aboubakar Soumahoro – famoso per le sue battaglie in difesa dei diritti dei braccianti – ha deciso di denunciare quel tassista che sabato sera gli ha impedito di salire a bordo del suo mezzo motivando questo “rifiuto” alla fine del suo turno, prima di percorrere pochi metri e accettare la richiesta di corsa da parte di una donna bianca. Ora, dunque, quel comportamento discriminatorio sarà oggetto delle valutazioni dei giudici.
Ad annunciare la presentazione della denuncia è stato lo stesso sindacalista che ha spiegato così la sua decisione:
“Ho conferito incarico all’avvocato Alessandra Ballerini al fine di procedere nelle sedi opportune nei confronti dell’autista del taxi targato FB… con licenza n°3…, rilasciata dal Comune di Roma, che si era rifiutato di farmi salire a bordo del suo veicolo rivolgendomi “Puoi chiamare chi ti pare. Con me non viaggi! .
Ho preso questa decisione dopo 4 giorni di vana attesa del ravvedimento e delle scuse mai pervenute da parte sua. Avevo deciso di congelare la denuncia perché credo nel valore del perdono e nella cultura di ri-educazione. Un doveroso atto anche per tutte le persone vittime di discriminazione che si consumano nell’invisibilità e nell’indifferenza”.
Un ravvedimento e delle scuse che non sono mai arrivate, nonostante il tassista avesse tutti i mezzi per rivolgersi ad Aboubakar Soumahoro, vista la sua figura resa pubblica dalle sue continue lotte in difesa dei diritti dei braccianti agricoli.
E ora la palla passerà ai giudici che dovranno valutare il comportamento discriminatorio (quindi lesivo della dignità di ogni essere umano) del tassista nei confronti del sindacalista.
(da agenzie)
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Maggio 26th, 2022 Riccardo Fucile
APPENA IL 28% ANDRA’ A VOTARE PER I REFERENDUM… NON SOLO, TRA I POCHI ITALIANI CHE ANDRANNO ALLE URNE, IL SÌ PREVALE SOLO SU TRE QUESITI: SEPARAZIONE DELLE FUNZIONI, VALUTAZIONE DEI MAGISTRATI E CANDIDATURE AL CSM. GUARDA CASO, GLI STESSI A CUI È FAVOREVOLE FRATELLI D’ITALIA
Dopo mesi di silenzio, lunedì Matteo Salvini è tornato a parlare del referendum sulla giustizia previsto per il 12 giugno, proclamando addirittura una “mobilitazione generale” per i prossimi fine settimana
La schizofrenia mostrata da Salvini attorno al referendum (prima il grande clamore durante la raccolta firme, poi il silenzio assoluto, ora la mobilitazione generale) è la prova del sentimento che nelle ultime settimane sta animando il leader della Lega: la paura. Che il referendum promosso con convinzione dalla Lega rischi di rivelarsi un flop, a causa del mancato raggiungimento del quorum, è chiaro a tutti.
Secondo un recente sondaggio Ipsos, appena il 28 per cento degli italiani si recherà alle urne. Ma la paura di Salvini è legata a qualcosa di ben più importante: il referendum rischia infatti di assumere le forme dell’ennesima resa dei conti per la leadership del centrodestra.
Il segretario della Lega invita i cittadini a votare a favore di tutti e cinque i quesiti referendari ma, secondo il medesimo sondaggio, tra coloro che dichiarano di andare alle urne prevale il “sì” su tre quesiti (quelli sulla separazione delle funzioni, la valutazione dei magistrati e le candidature al Csm), mentre tende a prevalere il “no” sui due quesiti che riguardano l’abrogazione della legge Severino e i limiti al ricorso alla custodia cautelare.
Si tratta esattamente della posizione assunta da Fratelli d’Italia, che fin da subito si smarcò da Salvini sui due quesiti (“Sicurezza e lotta alla corruzione sono valori non negoziabili”, disse Giorgia Meloni).
Ecco spiegata allora l’inattesa chiamata alle armi di Salvini: va bene andare a sbattere contro il quorum, ma addirittura veder prevalere sui propri quesiti il “no” di Fdi costituirebbe una doppia figuraccia (e una doppia goduria per Meloni, che sembra attendere il cadavere di Salvini sulla riva del fiume del referendum).
L’annuncio improvviso di una mobilitazione generale da parte del leader della Lega mira a evitare la figuraccia di vedersi bocciati i due quesiti su custodia cautelare e legge Severino?
“Questo bisognerebbe chiederlo a Salvini – risponde Delmastro, responsabile Giustizia di Fdi – Certo, dopo che per anni hai spiegato ai tuoi elettori che se ti entra in casa un ladro lo puoi abbattere, è difficile dirgli che se invece arriva un carabiniere, questo deve fermare il ladro e poi liberarlo”.
(da agenzie)
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