Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
SERPEGGIA SEMPRE PIÙ MALESSERE, SI MOLTIPLICANO PROTESTE E PERSINO SABOTAGGI
L’ultimo episodio verificato risale al 3 maggio scorso quando, in piena notte, un uomo a volto coperto ha lanciato bottiglie molotov contro il centro di reclutamento dell’esercito della città di Nizhnevartovsk, in Siberia.
Qualche giorno prima era accaduto lo stesso anche al commissariato militare di Zubova Polyana, a circa 400 chilometri a sud di Mosca. Il rogo ha distrutto i computer dell’archivio e ha cancellato i database con l’elenco dei coscritti, costringendo le autorità a interrompere gli arruolamenti in diversi distretti della Federazione. A marzo si erano verificati almeno altri quattro episodi di sabotaggio, con incendi dolosi ai centri di reclutamento russi.
Ordigni incendiari rudimentali hanno colpito le caserme di Berezovskij, non lontano da Ekaterinburg, e di Suja, nella regione di Ivanovo, dove sui muri della città sono comparse anche alcune scritte contro la guerra. A Voronezh è stato rovesciato liquido infiammabile sulla porta d’ingresso del distretto militare.
Un giovane di 21 anni, arrestato per aver dato fuoco all’ufficio di arruolamento di Lukhovitsy, nella regione di Mosca, ha motivato il suo gesto con la volontà di bloccare la mobilitazione in Ucraina. Il Conflict Intelligence Team (Cit), un gruppo indipendente di giornalisti investigativi russi, ritiene che si tratti soltanto dei casi più eclatanti tra quelli documentati.
Atti di protesta disperati sfociati in rabbia e violenza. Ma anche il termometro del malessere sempre più diffuso tra la popolazione russa, che trova un riscontro persino all’interno delle stesse forze armate della Federazione.
Dalla prima metà di aprile – secondo le stime del Cit – dal 20 al 40% dei soldati che avevano preso parte alle operazioni militari a Kiev, a Chernihiv e a Sumy hanno cercato di disertare rifiutandosi di continuare la guerra.
L’avvocato Pavel Chikov, che dirige l’Ong russa per i diritti umani Agora e da anni si batte contro gli abusi delle forze dell’ordine, ha riferito al media indipendente Mediazona che gli uffici della sua associazione sono subissati dalle richieste di assistenza legale dei “refusenik” dell’esercito e della Rosgvardiya, la Guardia Nazionale creata da Putin nel 2016.
Da Pskov a Vladivostok, da San Pietroburgo a Sinferopoli, da Kazan a Mosca: sono già centinaia i soldati che si sono rifiutati apertamente di partecipare alla guerra in Ucraina e il loro numero cresce di giorno in giorno.
Raccontare le diserzioni all’interno delle truppe russe resta assai difficile. Le dimensioni del fenomeno emergono dall’incessante lavoro degli avvocati, delle organizzazioni per i diritti umani e dei giornalisti investigativi che sono spesso costretti ad andarsene dalla Russia per motivi di sicurezza.
Il movimento degli obiettori di coscienza russi ha raccolto ogni singolo episodio avvenuto fino ad oggi in un rapporto dettagliato che dà voce a quel pezzo sempre più consistente dell’esercito di Mosca che non vuole la guerra. Un documento dal titolo assai esplicito – “I russi si rifiutano di combattere in Ucraina” -, che elenca centinaia di casi di disertori dell’esercito e della Guardia Nazio- nale, le minacce e le intimidazioni che hanno subito, oltre alle testimonianze dei coraggiosi avvocati che li assistono.
«In un primo momento il Ministero della Difesa di Mosca sosteneva che a combattere in Ucraina fossero soltanto i soldati professionisti ma poi ha dovuto ammettere l’impiego dei coscritti, giovani tra i 18 e i 27 anni obbligati ad arruolarsi con la minaccia di multe pesanti o di pene detentive fino a due anni. A molti di loro non è stato detto chiaramente che sarebbero finiti al fronte», spiega Elena Popova, coordinatrice del movimento degli obiettori.
Il 25 febbraio, il giorno dopo l’inizio della guerra, alcuni uomini dell’unità Omon della Guardia Nazionale impegnati in un’esercitazione militare in Crimea si sono rifiutati di attraversare il confine con l’Ucraina e di partecipare all’invasione del Paese. Sono stati immediatamente cacciati dall’esercito e il loro caso è uno dei tanti che riempiono le scrivanie dei legali dell’associazione Agora.
Ma da quando la loro storia è stata resa pubblica – si legge sempre nel rapporto – i militari della Guardia Nazionale che si sono rifiutati di partecipare alla guerra sono già diventati oltre un migliaio.
A i mezzi d’informazione russi è vietato pubblicare notizie di tali rifiuti e i giornalisti che lo fanno rischiano procedimenti penali per aver diffuso “false notizie” sulle forze armate. Il 15 aprile scorso Mikhail Afanasyev, caporedattore del Novy Focus, è stato arrestato proprio perché aveva raccontato gli episodi di diserzione registrati all’interno della Guardia Nazionale.
Per aggirare la censura e continuare a raccogliere informazioni sensibili molte organizzazioni per i diritti umani e organi di stampa indipendenti hanno quindi dovuto lasciare il Paese.
Da un paio di mesi il Conflict Intelligence Team si è spostato a Tbilisi, in Georgia, mentre il giornale online Meduza ha sede in Lettonia e si appoggia a un server dell’Oceano Indiano. Erano stati proprio i giornalisti di Meduza a dar voce per primi ad Albert Sakhibgareyev, il soldato 25enne che ha disertato dopo aver compreso che le esercitazioni nelle quali era impegnato nell’area di Belgorod, nei pressi del confine ucraino, servivano in realtà a preparare l’invasione.
«Nessuno ci ha avvertito dell’attacco, non eravamo affatto preparati a quanto stava accadendo», ha detto, spiegando che la sua brigata non ha attraversato il confine con perché molti suoi commilitoni hanno disatteso gli ordini.
Scorrendo l’elenco compilato dagli obiettori si apprende che anche molti militari a contratto nelle regioni di Kaliningrad, di Chelyabinsk e di Pskov hanno fatto la stessa cosa, rifiutandosi di essere trasferiti nelle zone di guerra.
La 136a Brigata di fanti motorizzati che operava nell’oblast di Zaporizhzhya, in Ucraina, avrebbe addirittura disertato abbandonando l’equipaggiamento sul campo. I casi risultano cresciuti in modo esponenziale col trascorrere delle settimane di guerra. Molti si sono ribellati perché sono stati costretti a combattere con l’inganno. Altri invece perché non condividevano affatto l’attacco in Ucraina e hanno per questo subito minacce, intimidazioni e procedimenti disciplinari fino al licenziamento.
Persino schedature, com’è accaduto a un soldato che si è visto applicare sul libretto di servizio un timbro con la scritta «Incline al tradimento, alle bugie e all’inganno». L’avvocato Maxim Grebenyuk, ex procuratore militare e fondatore del progetto Military Ombudsman, segue personalmente un centinaio di soldati allontanati dalle forze armate negli ultimi due mesi.
Citato dal rapporto degli obiettori di coscienza, spiega che dall’inizio della guerra non è stato ancora avviato alcun procedimento penale a loro carico per timore che la notizia finisca sulla stampa fomentando la ribellione tra i militari e creando un danno di immagine all’esercito.
E anche perché la Russia non ha dichiarato formalmente guerra all’Ucraina e quindi non esistono ordini ufficiali che impongano ai militari di partecipare a operazioni sul territorio di un altro Stato. L’elenco del movimento degli obiettori è in continuo aggiornamento e può essere integrato inviando informazioni all’indirizzo email stopwarua22@gmail.com.
(da Avvenire)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
CHI CERCA NAZISTI BUSSI AL CREMLINO
L’invasione russa in Ucraina, ordinata da Vladimir Putin, basa la sua propaganda sulla “denazificazione” del Paese, ma c’è una realtà che andrebbe raccontata.
«A Kiev prevale un’isteria anticomunista», riporta un articolo del Guardian del 18 dicembre 2015 ripreso da siti come Peacelink. «Dopo aver bandito i simboli sovietici all’inizio di quest’anno», continua l’articolo, «un tribunale ha ora messo fuori legge il Partito Comunista Ucraino, impedendogli di organizzare e prendere parte alle elezioni». Anche Amnesty International aveva criticato questa scelta, parlando di un opera di “decomunizzazione” da parte del Governo ucraino.
Dietro questa vicenda, però, c’è una legge che va oltre il comunismo e che prende di mira anche il nazionalsocialismo (il nazismo).
Di questa legge si parla nell’estate del 2015, ad esempio in un articolo de Il Sole 24 Ore dal titolo «L’Ucraina mette fuori legge il partito comunista».
Bisogna andare a leggere il terzo paragrafo per scoprire il titolo della nuova norma: «Sulla condanna dei regimi totalitari comunista e nazionalsocialista in Ucraina e il divieto di propaganda dei loro simboli». Manca una parentesi, presente nel sito della Rada ucraina nella sezione dedicata alla legge del 2015: «Sulla condanna dei regimi totalitari comunisti e nazionalsocialisti (nazisti) in Ucraina e sul divieto di propaganda dei loro simboli». Esatto! Una legge che vieta il nazismo in Ucraina.
A livello internazionale, la Commissione di Venezia (Consiglio d’Europa) dichiarò la legge legittima, seppur contestando un campo di azione ritenuto troppo vasto, definendola «un ostacolo alla libertà di espressione che impedisce ai partiti politici di partecipare alle elezioni». La legge venne osteggiata anche in Ucraina e sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale che, con sentenza del 2019, la dichiarò legittima e per niente anticostituzionale.
Non è un caso se i movimenti di estrema destra in Ucraina hanno preso di mira i governi successivi alla rivoluzione del 2014, in certi casi definendo sia Porošenko che Zelensky peggiori del filorusso Janukovyč. Non solo. Entrambi i presidenti sono stati oggetto di attacchi antisemiti e di associazioni con Israele da parte dei nazisti ucraini.
La “denazificazione” in Ucraina era iniziata nel 2015 e non ad opera dei governi filorussi amici di Vladimir Putin.
(da agenzie)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
L’ARTISTA ERA STATA CONDANNATA A DUE ANNI DI CARCERE PER LE PROTESTE A MOSCA E INCARCERATA SEI VOLTE. POI SAREBBE DOVUTA ANDARE IN COLONIA PENALE PER 21 GIORNI
Dieci anni fa Maria Alyokhina aveva sfidato Vladimir Putin e sconvolto la Russia esibendosi con la sua band, le Pussy Riot, in un concerto “osceno” dentro la Cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca.
Oggi è fuggita l’artista e attivista anti-regime è scappata dal Paese, travestendosi da rider, fattorina per la consegna del cibo, e scattandosi una foto allo specchio prima della “beffa”.
Finita per la prima volta sotto l’attenzione delle autorità russe e del mondo insieme alla provocatoria punk band al femminile, che combatteva Putin a suon di nudità, blasfemia e accuse politiche, la Alyokhina aveva pagato quel gesto clamoroso alla Cattedrale di Cristo Salvatore con la condanna a due anni di carcere per “teppismo”.
Ma era appena l’inizio del suo calvario giudiziario. “Attenzionata” dai servizi segreti del Cremlino e dai magistrati, era stata incarcerata altre sei volte dalla scorsa estate, ogni volta per 15 giorni, per fiaccare la sua resistenza al potere.
Lo scorso aprile, poi, la situazione è definitivamente collassata quando Putin ha iniziato a reprimere più duramente qualsiasi critica all’invasione dell’Ucraina. Le autorità hanno annunciato che gli arresti domiciliari di Alyokhina sarebbero stati trasformati in una colonia penale in 21 giorni. Così la Pussy Riot ha deciso che era ora di lasciare la Russia, almeno temporaneamente.
E ci è riuscita, scrive il New York Times, travestendosi da fattorina per sfuggire ai controlli della polizia di Mosca, che sorvegliava l’appartamento dell’amica dove si trovava.
La donna ha lasciato nella casa il suo cellulare per evitare di essere rintracciata. Aiutata da amici, è riuscita poi dopo alcuni giorni ad arrivare in Lituania, attraverso la Bielorussia.
(da agenzie)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
DAL 29 APRILE NON C’È PIÙ TRACCIA DI IRYNA DANILOVICH, CRONISTA SCOMPARSA IN CRIMEA DOPO ESSERE STATA ARRESTATA DAI RUSSI… “NON CI SONO ACCUSE, È UN RAPIMENTO”
È successo la mattina del 29 aprile. A casa Danilovich si sono presentati in sei. Nessun distintivo, né auto di servizio.
Sei uomini che si sono fatti aprire la porta senza troppi complimenti e hanno frugato ovunque. Cercavano computer, documenti, telefoni cellulari e dispositivi elettronici di Iryna Danilovich, che nella vita fa l’infermiera ma che da anni collabora come giornalista con i siti di informazione InZhir Media e Crimean Process.
Tutto questo nel villaggio di Koktebel, Crimea. Il padre di Iryna, Bronislav, ha provato a obiettare qualcosa, a capire. Ma è stato inutile. Quei tizi gli hanno mostrato velocemente un foglio che a loro dire era il mandato di perquisizione e se ne sono andati con una scatola di cose trovate nella stanza di lei.
Non prima di dare a suo padre una pessima notizia: la figlia – hanno spiegato senza entrare nei dettagli – era in stato di detenzione per aver passato non meglio precisate informazioni a qualcuno non specificato.
Tutto molto fumoso. Inutile chiedere copia del mandato di perquisizione. Inutile provare a fare domande di qualsiasi genere. Compresa quella fondamentale: dove si trova Iryna?
Niente. Nessuna risposta.
E da allora di Iryna non si sa più nulla. Gli uomini che hanno perquisito la casa che lei condivide con i genitori avevano accennato a «dieci giorni di detenzione». Ma i dieci giorni sono passati e di lei ancora non c’è traccia. Né è dato sapere di che cosa sarebbe accusata esattamente.
La sua famiglia, i suoi amici, il suo avvocato, sono sempre più preoccupati. Hanno presentato una segnalazione all’Ufficio del procuratore della Crimea, hanno firmato una denuncia, hanno lanciato appelli di ricerca alle organizzazioni umanitarie che sono operative in quell’area ma finora tutto è stato inutile.
Iryna è un’attivista per vari fronti umanitari e sui canali Telegram delle associazioni con le quali lavora l’allerta per la sua scomparsa nelle ultime ore si è moltiplicata. Anche la Commissaria ucraina per i diritti umani Lyudmyla Denisova ieri pomeriggio si è occupata del suo caso: ha pubblicato un appello alla Commissione delle Nazioni unite che indaga sui diritti violati durante questa guerra.
Chiede che anche la storia di Iryna sia inserita nell’elenco della violazione dei diritti umani in Ucraina e definisce «rapimento» il suo arresto. «Ha pubblicato solo informazioni reali», dice.
Con la firma dello pseudonimo Pavel Buranov e con il suo vero nome sul profilo Facebook, Iryna si è occupata più volte in passato dei problemi del sistema sanitario in Crimea che lei conosce bene per via del suo lavoro al Medical center di Vladyslavivka. E per i suoi articoli, come la sua attività sindacale, aveva già subito pressioni amministrative e minacce di querele. Quale sia stavolta la sua presunta «colpa» nessuno lo sa.
Non si hanno notizie nemmeno di una data per una eventuale udienza davanti a un giudice e il suo avvocato non è riuscito a ottenere un incontro con lei. Il post più recente che ha pubblicato su Facebook è del 5 marzo: riguardava la decisione della russa Novaya Gazeta di sospendere le pubblicazioni.
(da agenzie)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
ANNI DI NARRAZIONI PATACCA DELLA LEGA SMENTITE IN UNA SOLA FRASE
C’è un sottile confine tra i claim da t-shirt per fare propaganda perenne (soprattutto quando si è all’opposizione) e il dover avere a che fare con i problemi reali del Paese.
Una linea rossa dove è inciampato il Ministro del Turismo Massimo Garavaglia. Lui, fedele al Carroccio da sempre, avevan contestato l’ex Ministra dell’Agricoltura Bellanova per quella legge sui lavoratori stranieri. Poi, però, ecco che oggi tutto il castello di sabbia è crollato con una sua dichiarazione che va proprio nella direzione indicata da quella norma tanto criticata.
In un colloquio con il quotidiano La Repubblica – a margine dell’incontro “Vita da campioni” al Foro Italiano, in occasione degli Internazionali di Tennis in scena nella capitale in questi giorni – il capo del dicastero del Turismo si è lasciato andare a un’analisi sulla situazione del mercato del lavoro in vista dell’imminente stagione estiva. E per evitare che la situazione arrivi al limite del precipizio come accaduto in montagna lo scorso inverno, ecco la ricetta racchiusa in una sola frase.
“Dovremo prendere degli stranieri altrimenti avremo problemi di personale per la stagione”.
Lo ha detto parlando della possibile proroga del decreto flussi (che avrà una scadenza posticipata al 30 settembre e non più alla fine di agosto, come nei piani iniziali). Lo ha detto un Ministro. Lo ha detto un esponente della Lega. Un esponente che fa parte del governo.
Un pensiero che va controcorrente rispetto alla solita narrativa e narrazione targata Carroccio. Ovviamente, queste parole hanno provocato imbarazzo in via Bellerio e nelle ore successive lo stesso Garavaglia ha provato a rettificare se stesso:
“È del tutto evidente che l’attenzione del governo è interamente rivolta ai lavoratori italiani. Ma vanno messi nella condizioni di lavorare. Così come gli imprenditori italiani vanno messi nelle condizione di assumere per tenere aperte le aziende. Magari, proviamo ad aiutarli, anche recuperando i voucher”.
E magicamente si torna indietro al Vangelo secondo Matteo (Salvini): prima gli italiani. Ma poco prima, lo stesso Massimo Garavaglia aveva aperto le porte ai lavoratori stranieri. Un lapsus?
(da agenzie)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
LA REPORTER DI AL JAZEERA COLPITA MENTRE SEGUIVA UN RAID ISRAELIANO
Una giornalista palestinese di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco mentre seguiva un raid israeliano nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania.
Con lei c’era anche un collega, Ali Samoudi, ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito alla schiena: adesso è in condizioni stabili.
La sua testimonianza all’Associated Press è determinante per stabilire i contorni di un caso che in breve tempo sta alimentando le tesi anti-Israele.
L’uomo ha detto di far parte, insieme alla vittima, di un gruppo di sette giornalisti inviati a seguire il raid. Tutti indossavano indumenti protettivi che li contrassegnavano chiaramente come giornalisti, e sono passati accanto alle truppe israeliane in modo che i soldati li vedessero e sapessero della loro presenza.
Ha riferito di diversi spari: il primo colpo li avrebbe mancati, ma poi un secondo lo avrebbe colpito, mentre il terzo ha ucciso Abu Akleh. “Non c’erano militanti o altri civili nella zona, solo i giornalisti e l’esercito”.
Shaza Hanaysheh, cronista di un sito di notizie palestinese, ha fornito una testimonianza simile in un’intervista al canale arabo di Al Jazeera. Lui e Abu Akleh sono corsi verso un albero per ripararsi dopo aver sentito gli spari: “Ho raggiunto l’albero prima di Shireen. È caduta a terra. I soldati non hanno smesso di sparare anche dopo la sua caduta. Ogni volta che allungavo la mano verso Shireen, ci sparavano addosso”. La rete con sede in Qatar ha interrotto la trasmissione per annunciare la morte della reporter. In una dichiarazione pubblicata sul suo canale, ha invitato la comunità internazionale a “condannare e ritenere responsabili le forze di occupazione israeliane per aver preso di mira e ucciso deliberatamente la nostra collega”.
Abu Akleh, 51 anni, è nata a Gerusalemme. Ha iniziato a lavorare per Al Jazeera nel 1997.
In rete circolano immagini, non pubblicabili, immediatamente successive allo sparo che mostrano la donna esanime con il viso coperto di sangue.
Secondo quanto riferisce l’agenzia palestinese Wafa, Abu Mazen ha detto di ritenere il governo israeliano “pienamente responsabile di questo atroce crimine”: “Fa parte della politica quotidiana perseguita dall’occupazione contro il nostro popolo, la sua terra ei suoi luoghi santi”. Non si è fatta attendere la risposta del ipremier israeliano Naftali Bennett: “Il presidente palestinese accusa Israele senza prove solide”.
(da agenzie)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
LA RESISTENZA SILENZIOSA PER NON ANDARE AL FRONTE… I MISTERIOSI INCIDENTI CHE IL CREMLINO TIENE NASCOSTI
Una serie di misteriosi incendi nei centri di reclutamento russi svela quel che il Cremlino tiene nascosto.
Primo: non tutti i cittadini della Federazione sono entusiasti della coscrizione di Primavera (dal primo aprile fino a metà luglio) che spedirà 135 mila giovani nelle mani dell’esercito di leva.
Secondo: in Russia è in corso una mobilitazione, segreta, che non ha bisogno di una dichiarazione ufficiale di “guerra totale all’Ucraina” da parte di Putin per mettersi in moto.
Bisogna unire un po’ di puntini di cronaca per seguire questa storia. Partiamo dall’ultimo.
Sei giorni fa a Nizhnevartovsk, nella Siberia occidentale, due uomini hanno lanciato sette molotov contro la vetrata dell’ufficio di leva, dandolo alle fiamme.
L'”incidente di Nizhnevartovsk” è il sesto che capita da quando Putin ha deciso di invadere l’Ucraina. Altri cinque uffici militari sono stati bruciati nei vari angoli del Paese, in particolare nelle regioni Mordovia, Voronezh, Sverdlovsk, Ivanovo e Lukhovitsy.
Episodi di cui si hanno pochissimi dettagli, riportati da media indipendenti e che invece non hanno avuto risalto sulle tv controllate dal governo. Altri tre roghi sono scoppiati nei centri di coscrizione prima dell’attacco all’Ucraina.
L’ultimo coincide temporalmente con i giorni in cui è circolata con insistenza l’indiscrezione che Putin, durante il discorso alla parata sulla Piazza Rossa del 9 maggio per l’anniversario della vittoria contro la Germania nazista, avrebbe annunciato la guerra all’Ucraina (sinora, negando l’ovvio, ha sempre parlato solo di “operazione speciale”) con la conseguenza della mobilitazione generale. Ma altri puntini raccontano che non ne ha bisogno, perché in un certo modo la mobilitazione è già in atto.
Il sito di informazione verstka.media pubblica la testimonianza di una donna, moglie di un impiegato della metropolitana di Mosca, che parla di una strana riunione coi dirigenti cui suo marito è stato costretto a partecipare.
Strana a cominciare dalla location: un deposito dei treni. “Nell’incontro, verbalmente e senza doppi sensi, a tutti i dipendenti è stato ordinato di sottoporsi a una visita medica straordinaria per un eventuale invio in guerra in Ucraina. I suoi superiori facevano riferimento a non precisati decreti delle autorità della città di Mosca, del Ministero della Difesa e del governo. Quei documenti non sono stati mostrati, nessuno ha firmato niente. Ma hanno detto a mio marito che la dirigenza era stata obbligata a destinare un certo numero di “volontari” alla possibile chiamata al combattimento”. Aggiungendo un particolare di non poco conto. “Sono stati minacciati di licenziamento, nel caso si rifiutassero”.
Anche nelle autoproclamate Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk e in Crimea si hanno evidenze di una mobilitazione sottotraccia, accanto a quella “ufficiale”.
Poco prima del 24 febbraio, nel Donbass occupato giravano auto con l’altoparlante montato sul tetto da cui usciva una voce che gracchiava: “Difendere la patria è il sacro dovere di ogni uomo”. I due capi delle Repubbliche hanno emesso decreti per la mobilitazione generale, affermando che le imprese dovrebbero inviare il 50% dei loro dipendenti maschi in età di leva agli uffici di registrazione e arruolamento militare. I manager di queste imprese – persone che non hanno nulla a che fare con le forze armate – hanno dovuto decidere da soli chi era candidabile alla mobilitazione e chi no. Quasi immediatamente, ci sono state segnalazioni di uomini catturati per strada, portati via dal lavoro e da casa.
Il Cremlino tace. Di ufficiale c’è, come detto, che il primo aprile è iniziata in Russia la coscrizione primaverile. Il ministro della Difesa Sergej Shoigu ha promesso che i coscritti non saranno inviati “nei punti caldi”.
Non hanno da stare allegri, però. Un portavoce di Putin, settimane fa, aveva dichiarato che la Russia non avrebbe mandato soldati di leva in Ucraina. Salvo poi scoprire che alcuni erano stati fatti prigionieri vicino a Kiev. L’ennesima goffa bugia.
(da agenzie)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
NAUFRAGATA IN AULA ANCHE GRAZIE AI 41 ASSENTI DI FORZA ITALIA E LEGA… LA MELONI NON SI FIDA PIÙ DI BERLUSCONI E SALVINI E TEME SGAMBETTI SULLA LEGGE ELETTORALE
La Camera dei deputati ieri pomeriggio ha bocciato la proposta di legge di Fratelli d’Italia per l’elezione diretta del capo dello Stato.
L’assemblea di Montecitorio, infatti, con 236 sì, 204 no e 19 astenuti (i parlamentari di Italia viva) ha approvato un emendamento del Movimento 5 Stelle con il quale sono stati soppressi i primi quattro articoli della riforma, di cui Giorgia Meloni era la prima firmataria. Partito democratico, Movimento 5 Stelle e Leu hanno votato compatti per affossare la proposta. Iv ha preferito invece l’astensione perché è favorevole al presidenzialismo ma non a quello prospettato dalla leader di Fratelli d’Italia.
Quella che Meloni aveva definito poco prima in Aula «la madre di tutte le riforme» è naufragata anche grazie alle numerose assenze nei gruppi parlamentari di Forza Italia e Lega. Un particolare, questo, che contribuirà a far salire ulteriormente la tensione tra Fratelli d’Italia e i partiti alleati.
In FI erano presenti 57 deputati su 80: solo 7 i parlamentari azzurri in missione, 16 invece erano assenti non giustificati.
Nella Lega hanno partecipato al voto 95 deputati su 133: 13 erano in missione, 25 gli assenti ingiustificati.
Dei 20 deputati di Coraggio Italia ne mancavano quattro senza giustificazione. E persino dentro FdI ci sono state due assenze ingiustificate.
Dunque, sono stati 45 in tutto i deputati del centrodestra che non hanno votato, pur non essendo in missione.
Sono numeri importanti, che hanno segnato le sorti di quella riforma, tanto più se si pensa che c’erano diversi assenti anche sull’altro fronte, quello del centrosinistra.
Non è un caso dunque, che il dem Emanuele Fiano rigiri il coltello nella piaga, invitando FdI a «riflettere» sul comportamento di Lega e Forza Italia. Infatti, anche se gli alleati di Meloni sono favorevoli al presidenzialismo («non c’è bisogno di chiederci prove di lealtà, noi lo votiamo», aveva annunciato in mattinata Matteo Salvini), in questa fase, visti i pessimi rapporti, non avevano nessun interesse a consegnare una vittoria d’immagine alla leader di Fratelli d’Italia.
Meloni non ha intenzione di demordere. Lo ha fatto capire ancora prima del voto in Aula, conscia di come sarebbe andata a finire: «Comunque andrà si sappia che FdI continuerà questa battaglia, per cui se la proposta non dovesse passare, alle prossime elezioni politiche chiederemo agli italiani un voto anche per questo». Ma, almeno pubblicamente, evita le polemiche con gli alleati: «Il segnale del voto sul presidenzialismo per il centrodestra è stato buono, al di là delle nostre difficoltà, sulle grandi questioni fondamentali abbiamo una convergenza. Noi siamo insieme per scelta, gli altri per impedirci di vincere», ha detto a Viterbo, alla presentazione del suo libro Io sono Giorgia .
Ma Meloni, al di là delle dichiarazioni ufficiali, sa bene che i suoi alleati l’hanno messa nel mirino. E non si fida troppo di loro. E le sue parole contro il «malcostume indegno» delle modifiche del sistema elettorale suonano quasi come un avvertimento a Forza Italia e a Lega: «Confido nella compattezza del centrodestra nel respingere una proposta di legge in senso proporzionale».
(da il Corriere della Sera)
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Maggio 11th, 2022 Riccardo Fucile
TRA UN IDRAULICO E UNA COMMESSA GLI ANNUNCI PER ANDARE A MORIRE AL POSTO DI PUTIN: LA PAGA E’ DI 500 EURO AL MESE
“Scegli stabilità, ampie opportunità di autorealizzazione, un tenore di vita dignitoso e uno status sociale elevato”, recita l’annuncio.
Ma, a conti fatti, sono 500 euro al mese per rischiare la vita in Ucraina. Nella Piazza Rossa Putin ha onorato il sacrificio dei soldati russi morti nella sua “operazione speciale”, motivo “di grande lutto per tutti i russi” e ha anticipato un “sostegno speciale” per i loro orfani.
Lontano dalle celebrazioni, però, ne sta cercando di nuovi da mandare al fronte ad allungare ancora la lista dei lutti: maschi dai 18 ai 40 anni, disposti entrare nell’esercito e rischiare la vita per uno stipendio da insegnante. Non solo attraverso canali istituzionali, come il sito della Difesa, ma anche siti di annunci di lavoro, come la piattaforma Superjob.ru, dove la campagna sotto traccia ha attive 19.419 posizioni vacanti, tante quante le vittime stimate finora tra le truppe russe al fronte: così, tra un idraulico e una commessa, sul portale del lavoro spuntano avvisi per “fucilieri”, artiglieri, comandanti di fanteria, “mitraglieri antiaereo”, autisti di forze di terra, assaltatori e pure agenti da impiegare nell’Fsb, i servizi segreti russi che vigilano sul fronte come sul dissenso interno.
Una mobilitazione in corso, seppur parziale e camuffata, che avviene nelle regioni più remote del Paese, dove per mettere insieme reparti gli uffici di reclutamento lusingano ex militari con servizi a contratto da 30 a 50mila rubli al mese.
Negli annunci la durata è perlopiù semestrale, la destinazione non viene quasi mai indicata, come già accaduto ai giovani soldati di leva mandati al fronte senza preavviso per una “esercitazione”.
Requisiti e condizioni prospettati indicano dunque un pronto impiego che non è difficile immaginare di rinforzo alle linee impegnate sul fronte orientale, dove Putin ha concentrato la seconda fase dell’attacco che – diversamente dalla prima presto fallita – si annuncia lunga e costosa in termini di uomini.
Gli stessi miliziani del Gruppo Wagner, su un canale Telegram, hanno ipotizzato che “servono 600-800mila uomini, o non vinceremo”. La Russia, questo ora è certo, ne sta reclutando di nuovi. In ogni dove e con mezzi anche inusuali, come appunto un sito di annunci di lavoro.
La paga di 40-50mila rubli al mese può allettare soprattutto gli ex militari che vivono nelle regioni più remote della Russia, dove il reddito pro-capite non arriva alla metà (specie nell’agricoltura: 281 euro).
Una cifra piuttosto modesta per rischiare la vita, specie se paragonata a quella dei militari di professione. E veniamo alle inserzioni.
Un annuncio per “soldato a contratto”, postato il 4 maggio, indica in modo alquanto generico la mansione: “garantire protezione e difesa del confine della Federazione Russa”, quel confine che Mosca ritiene minacciato dall’espansione della Nato e (notizia più recente) da un fantomatico piano di attacco alla Crimea pianificato da Kiev che avrebbe giustificato l’invasione.
Le condizioni prevedono 40-50mila rubli più un pagamento aggiuntivo come indennità di servizio, in base all’anzianità.
Tra i “benefit”, la partecipazione al programma di mutui per il personale militare (fino a 37mila euro), fornitura di razioni alimentari, assicurazione sulla vita e sanitaria gratuita, cure mediche.
Tra i requisiti indicati c’è la “assenza di parenti stretti residenti all’estero”, probabilmente indispensabile per garantire fedeltà alla Russia in un mondo che le è diventato ostile.
Che lo scopo dell’arruolamento sia l’invio al fronte lo rivelano le inserzioni mirate a mansioni interne. Quello per la ricerca di un addetto alla sorveglianza di un “importante impianto statale” a Kashirskoe, quadrante sud di Mosca, precisa: “importante: nessun viaggio di lavoro con pericolo per la vita e la salute senza il proprio consenso”. A riprova del fatto che le altre, molto probabilmente, lo sono.
Nel “tariffario” il minimo che si riscontra sono i 20-25 mila euro, ad esempio per la mansione di autista delle Forze di Terra cui “affidare il trasporto del personale delle unità e delle attrezzature logistiche necessarie nella vita quotidiana e in combattimento”.
La paga, 433 euro, non è particolarmente alta, specie quando il candidato arriva al punto in cui leggerà: “i momenti più tesi nell’attività di combattimento del conducente sono la resistenza al fuoco del nemico, la situazione pre-emergenza sulla rotta di movimento, il trasporto del personale dell’unità in condizioni stradali difficili”.
Poi si cercano capi di fanteria, piloti di caccia e altri profili di combattenti secondo le specialità. Insomma, Mosca ha celebrato ieri una vittoria sul nazismo di 77 anni fa, ma non può celebrare quella sugli ucraini dopo 75 giorni di guerra. Per quella, servono uomini da sacrificare alla causa promettendo “stabilità”. Il reclutamento, è in corso.
(da ilFatto Quotidiano)
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