QUANDO GLI ITALIANI ERANO GLI “INVASORI OLIVASTRI” DELL’AUSTRALIA: DALLE MINIERE AL GOVERNO
CENTO ANNI DOPO ARRIVA IL RISCATTO DEGLI EMIGRANTI “PELLI-OLIVA” CON IL TRIONFO DI ANTONY ALBANESE, PRIMO PREMIER AUSTRALIANO D’ORIGINE ITALIANA… LE VITE DEGLI ITALIANI CHE HANNO SOFFERTO DISCRIMINAZIONI PESANTISSIME
«Mi rincresce di dover dare l’allarme ma l’Italia sta preparandosi a invadere l’Australia. Lo so, nessuno da noi ne aveva mai avuto sentore. Eppure è un fatto ormai denunziato e incontestabile. Vengono i brividi a pensare che milioni di italiani si alzano tutte le mattine, si fanno la barba, prendono il caffellatte ed escono, senza nemmeno immaginare che il loro paese è sul punto nientemeno di occupare un continente».
Un secolo dopo, la sarcastica profezia di Filippo Sacchi, uscita sul Corriere nel luglio 1925, fa sorridere. Tanto più dopo il trionfo elettorale di Antony Albanese, avviato a diventare il primo premier australiano d’origine italiana, sia pure casualmente, essendo il padre Carlo un marinaio di Barletta conosciuto dalla madre Maryanne Therese durante l’unica crociera della donna da Sydney in Europa. Ed è giusto sorriderne, oggi. Viva l’Italia, viva Australia, viva l’amicizia e la stima reciproca cresciuta nel tempo anche grazie a uomini come il sindaco della Sydney olimpica Franco Sartor o il governatore del Victoria James Gobbo.
Per non dire, prima ancora, di figure come Raffaello Carboni, «Il garibaldino d’Australia» (titolo di un saggio di Desmond O’ Grady) che dopo la caduta della Repubblica Romana del 1849 finì esule a Melbourne per prender parte alla folle corsa all’oro nella vicina Ballarat, dove descrisse a tinte forti nel libro Eureka Stockade l’inferno fangoso della miniera («Abbiamo avuto il fegato di lottare faccia a faccia con il vecchio Belzebù sul suo terreno») e la prima rivolta dei minatori australiani contro l’impero inglese, con tanto di lettura d’una dichiarazione d’indipendenza.
Per molto tempo, però, l’ostilità verso gli immigrati italiani fu durissima. Al punto che nel 1934 quando nel centro minerario di Kalgoorlie, scoppiò una rivolta contro gli immigrati italiani con saccheggi, incendi e pestaggi nati da una rissa in cui c’era scappato il morto, l’aria era così tesa, scrissero Richard e Michal Bosworth nel libro Fremantle’ s Italy (poi ripreso da Flavio Lucchesi in Cammina per me, Elsie ) che certi commentatori dell’epoca teorizzavano che «l’Africa cominciava da qualche parte nella penisola italiana», che l’Italia era «l’ultima delle grandi potenze perché razzialmente imperfetta» e che gli italiani stavano «a metà strada tra gli aborigeni e i cinesi».
Ma torniamo al reportage, per metà divertito e per metà furente, dell’inviato del Corriere : «Ma perché tutto questo accanimento contro gli italiani? Ve lo spiego io: per mantenere l’Australia “bianca”. Keep the Australia white , è la vera parola d’ordine di questa crociata.
Infatti noi non siamo bianchi, siamo “oliva”. Olive-skinned influx , diciamo». E raccontava che un grande quotidiano di Melbourne aveva titolato proprio così la notizia di un’inchiesta del governo del Queensland sui nostri immigrati: «L’invasione delle pelli-oliva”».
E che al congresso delle donne «un’oratrice autorevole nell’esortare le massaie australiane a non comperare frutta dai negozi italiani, anche se questi praticavano prezzi più moderati» si era lagnata che «dopo aver tanto fatto per difendere l’Australia “bianca” dalla minaccia degli asiatici», c’erano ancora «emigranti oliva continuano a stabilirsi nel paese».
Di più, si indignava Filippo Sacchi: «Siamo una razza tanto degradata che si esortano le donne australiane a non sposare i nostri emigranti» al punto che all’assemblea di Victoria dell’associazione dei combattenti era stato detto: «I matrimoni delle nostre donne con questi forestieri fanno un’impressione disgustosa».
Dice tutto la storia, mezzo secolo prima, di «Cea Venezia». Quando un gruppo di trevisani cadde nella trappola di Charles du Breil de Rays, l’erede d’una famiglia di Finistère rovinata dalla rivoluzione che aveva coperto i muri d’Europa con centinaia di migliaia di manifesti che invitavano i contadini a fondare a Port Breton, dall’altra parte dell’Eurasia, una colonia «libera e cattolica» fedele a Pio IX promettendo «terre di buon clima, di belle baie e di brezze gentili» e 40 campi trevisani ad ogni colono. Il viaggio, via Barcellona, Suez e Singapore, fu interminabile. Con decine di morti. Soprattutto bambini.
Scoperta la truffa e dirottata la nave verso Sydney, i nostri nonni vi arrivarono 368 giorni dopo la partenza in condizioni penose. Separati tutti l’uno dall’altro perché cancellassero l’italiano e parlassero subito inglese, poterono riunirsi solo un anno dopo, in una terra infelice e da disboscare a Lismore, verso Brisbane. Piantarono le vigne, tirarono su una cappella e un po’ di case e diedero al borgo il nome più dolce e poetico: Cea Venessia. Piccola Venezia. Gli australiani dissero no: New Italy. Niente nomi italiani.
Non meno ostile, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, sarebbe stato l’atteggiamento verso i nostri emigrati arrivati nella Riverina, un’area del Nuovo Galles del Sud. Area distribuita a reduci della grande guerra privi di esperienza: erano soldati, non contadini. Il tempo di inserirsi (faticosamente) e gli italiani venuti in Oceania come tagliatori di canna (lavoro spaventoso: si tagliava sotto un sole violento, seminudi e coperti di insetti perché lo zucchero s’ attaccava ai vestiti) o braccianti agricoli presero a comperare una «farma» (venetizzazione dell’inglese farm) dietro l’altra.
Nel 1929 ne avevano già 67: 55 padroni erano veneti, 6 calabresi, 3 abruzzesi, 2 friulani, uno siciliano. Dieci anni dopo erano già saliti a 230. La reazione fu durissima. E ancora una volta basata sulle tesi dell’Immigration Restriction Act elaborato nel 1901 e l’idea che l’Australia dovesse «essere popolata da una sola razza» scelta personalmente dall’«Onnipotente Dio».
Niente italiani o altri europei del sud, dunque, «troppo piccoli e troppo scuri di carnagione»: «Potevano contaminare la purezza» di chi era chiamato a governare.
Il peggio, negli anni della massima tensione nella Riverina via via trasformata secondo il sacerdote e storico Tito Cecilia «in un giardino», l’offrì lo Smith’ s Weekly : «L’eredità di 450 soldati agricoltori (…) è stata strappata via con violenza dagli italiani. Con la schiena contro il muro i reduci di Griffith stanno combattendo, oggi, non solo per le loro case, le loro mogli e i loro figli, ma anche per la preservazione del loro sacro livello di vita».
Non bastasse, la rivista riportò una convinzione: «Tra dieci anni non un solo cittadino australiano o britannico resterà da queste parti». Aveva torto. E l’elezione di Albanese, che rompe gli ultimi schemi xenofobi, suggella la lenta ma continua ricerca di un dialogo finalmente arrivato alla meta.
Gian Antonio Stella
(da il “Corriere della Sera”)
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