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COME MAI L’OPA OSTILE DI UNICREDIT SU BANCO BPM HA TERREMOTATO I NEURONI LEGHISTI? IL MINISTRO DEL MEF GIORGETTI HA SUBITO ALZATO LE BARRICATE: L’OPA È STATA “COMUNICATA, MA NON CONCORDATA COL GOVERNO”, MINACCIANDO ADDIRITTURA LA GOLDEN POWER, COME SE UNICREDIT FOSSE DI PROPRIETÀ CINESE

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

ANCOR PIÙ IMBUFALITO È SALVINI: L’OPERAZIONE DI ORCEL AVVIENE DOPO L’ACCORDO BPM-MILLERI-CALTAGIRONE PER PRENDERSI MPS. COSI’ IL CARROCCIO CORRE IL RISCHIO DI PERDERE NON SOLO BPM, STORICAMENTE DI AREA LEGHISTA, MA ANCHE MPS, IL CUI PRESIDENTE NICOLA MAIONE È IN QUOTA LEGA

Con l’Offerta pubblica di scambio lanciata su Banco Bpm, il ceo di Unicredit Andrea Orcel conferma le sue funamboliche qualità di manager concentrato in acquisizioni e/o fusioni (dette M&A, cioè Mergers and Acquisitions).
Una decisione che Orcel ha preso una volta constatato che la scalata di Unicredit alla banca tedesca Commerzbank trova davanti pesanti ostacoli a causa dello stato di recessione della Germania, che ha costretto il premier Scholz a indire elezioni il prossimo febbraio, con alte probabilità che la prima poltrona del Bundestag sia occupata dal capo della Cdu, Friedrich Merz.
Messa in stand-by l’acquisizione tedesca, che ha davanti tempi lunghi e complessi poiché una fusione comporterà almeno 6 mila esuberi per Commerzbank, mentre licenziamenti e chiusura di fabbrica stanno azzoppando quello che una volta era il ‘’motore dell’Europa’’, da abilissimo pokerista, Orcel ha rilanciato su Bpm, con un’Ops che vale oltre 10 miliard
Essendo quella di Unicredit un’Offerta pubblica di scambio effettuata a prezzi di mercato con un debolissimo sopraprezzo, quella di Orcel è un’operazione tattica per farsi rispondere “no, grazie” dal cda di Bpm, guidata dal ceo Giuseppe Castagna. Ma Orcel sa benissimo che, dal momento del sicuro rifiuto, per regolamento, entra in ballo la “Passivity Rule”.
Per “regola della passività”, l’articolo 104 della Consob prevede che, in caso di Ops, “le società italiane quotate i cui titoli sono oggetto dell’offerta si astengono dal compiere atti od operazioni che possono contrastare il conseguimento degli obiettivi dell’offerta”. La “Passivity Rule” è superabile solo da un’eventuale autorizzazione dell’assemblea ordinaria o straordinaria in tal senso.
Orcel, davanti al rischio montante di fallire l’acquisizione di Commerzbank (che ha diminuito a mero “investimento” che “ha tempo per maturare”), ha subito reagito “bloccando” l’attivismo di Banco Bpm per costruire il Terzo Polo bancario, lanciando un’Operazione ostile. Così Castagna per mesi non potrà muoversi. Unicredit prevede infatti che l’esecuzione dell’offerta di scambio su Bpm “sarà completata entro giugno 2025”.
La mossa di Orcel su Bpm non poteva non far incazzare la Lega che dall’epoca della gestione di Massimo Ponzellini gode di una sorta di ‘’padrinaggio’’ sull’istituto milanese. E sulle agenzie il ministro del Mef Giorgetti, di solito taciturno, ha subito alzato le barricate dichiarando che l’operazione di UniCredit è stata “comunicata, ma non concordata col governo”.
L’irritazione leghista arriva al punto tale che il ministro varesotto di Cazzago Brabbia ha minacciato addirittura la Golden Power, come se Unicredit fosse di proprietà cinese o russa.
Ancor più imbufalito è Matteo Salvini, che arriva a disconoscere l’italianità di Unicredit: “A me le concentrazioni e i monopoli non piacciono mai, ero rimasto al fatto che Unicredit volesse crescere in Germania. Non so perché abbia cambiato idea. Unicredit ormai di italiano ha poco e niente: è una banca straniera, a me sta a cuore che realtà come Bpm e Mps che stanno collaborando, soggetti italiani che potrebbero creare il terzo polo italiano, non vengano messe in difficoltà”.
Gran finale: “Non vorrei che qualcuno volesse fermare l’accordo Bpm-Mps per fare un favore ad altri”.
Ecco il punto dolente: l’accordo Bpm-Mps (più Anima Sgr) in cordata con Milleri/Del Vecchio e Caltagirone, operazione caldeggiato dal governo Meloni, farebbe sì che diventerebbe il Terzo Polo bancario, dopo Intesa e Unicredit. Tanto nervosismo (eufemismo) da parte del Carroccio contro Unicredit nasce dal rischio di perdere non solo Bpm politicamente di area leghista ma anche Mps, il cui attuale presidente Nicola Maione è in quota Lega.
E la recente Opa di Castagna su Anima Sgr, il più grande gruppo indipendente del risparmio gestito in Italia che ha in Bpm e Mps i maggiori clienti, è stato poi seguita, su sollecitazione di Giorgetti, dall’Opa su Mps. (Chissà perché, pur essendo stata risanata e con ottimi bilanci, tutte le maggiori banche si tengono lontane da Siena?).
Operazione, partita da Roma, che Castagna non avrebbe gradito granché (d’altra parte ha sempre dichiarato lo “stand alone” di Bpm), anche perché l’operazione Mps lo vede in compagnia di due imprenditori, la Delfin/Del Vecchio guidata da Milleri e da Caltagirone (azionista di Mps e caro alla Fiamma Magica di Palazzo Chigi, vedi la Legge Capitali).
Si racconta che Lor Signori sarebbero entrati nella partita Mps-Anima su invito dei Fratellini d’Italia al fine di controbilanciare la Lega “bancaria” congegnata da Giorgetti. Anche perché, in uno scenario futuribile, una volta portata a termine la fusione Bpm-Mps, l’obiettivo sarebbe la conquista di Mediobanca che ha in pancia il 13% di Generali, da anni sogno infranto di Caltagirone.
Vero, falso, verosimile? Quello che è certo è che in Borsa ieri Banco Bpm ha guadagnato la vetta guadagnando il 5,48% (attestandosi a 7 euro per azione), mentre Unicredit è scivolata sul fondo, cedendo il 4,76% (a 36,27 euro per azione).
(da Dagoreport)

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G7, BORRELL GELA L’IPOCRISIA DELL’ITALIA: “BASTA SCUSE, GLI STATI EUROPEI ARRESTINO NETANYAHU”

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

TAJANI AMMETTE: “IL DIRITTO INTERNAZIONAE PARLA CHIARO”

L’Alto rappresentante uscente Ue demolisce il pressing italiano per trovare un’intesa Europa-Usa sui mandati d’arresto della Cpi e tutelare il leader israeliano. Strada stretta all’ultimo vertice a guida Italia
La grana del mandato d’arresto a Benjamin Netanyahu per crimini di guerra a Gaza tiene banco al G7 di Fiuggi, l’ultimo a guida italiana ma pure l’ultimo dell’era Biden. Tra meno di due mesi s’insedia Donald Trump e le due sponde dell’Atlantico s’allontaneranno – la conferma stamattina dei dazi in preparazione da subito ha gelato le speranze degli alleati. Ma sulla decisione della Corte penale internazionale lo strappo tra Europa e Usa rischia di consumarsi ancora prima. Josep Borrell, pure lui in scadenza di mandato, ha messo in chiaro stamattina che è così che deve andare: «Gli americani non riconoscono la giurisdizione della Corte, facciano un po’ quel che gli pare. Ma gli europei devono implementare quella decisione: è un obbligo, non un’alternativa», ha attaccato l’Alto rappresentante Ue (uscente) per la politica estera. Tradotto: tutti gli Stati membri, Italia compresa, non hanno scelta se non quella di impegnarsi ad arrestare Netanyahu e Gallant dovessero passare sul loro territorio.
Il dilemma impossibile dell’Italia
Un affondo netto, e pubblico, per tentare di rompere le uova nel paniere dell’Italia, che come Antonio Tajani ieri ha lasciato intendere, lavora invece in queste ore dietro le quinte per trovare un “testo comune” sulla grana-Cpi su cui i Paesi del G7 possano ritrovarsi nella dichiarazione finale. Quale? Difficilissimo trovare un punto d’equilibrio che tenga insieme l’apertura di canali di contatto col governo israeliano con il rispetto dell’operato della Corte dell’Aja.
Eppure il governo italiano è determinato a tenere insieme le due esigenze: la prima perché «l’obiettivo è la pace», ha ribadito più volte in queste ore Tajani, e per negoziare i cessate il fuoco in Libano (vicino) e a Gaza (lontano) Netanyahu resta l’unico interlocutore; il secondo perché alla Cpi l’Italia è legata a doppio filo, non solo come firmataria, ma come “creatrice” stessa di quell’istituzione: fu la nostra diplomazia a spingere negli anni ‘90 per l’istituzione di una corte internazionale in grado di perseguire i responsabili di crimini di guerra, e quella storica Convenzione, non a caso, porta il nome della città di Roma.
Le acrobazie giuridiche di Tajani e il diritto internazionale
Da quando l’Aja ha spiccato i mandati d’arresto, venerdì, il governo ha preso tempo, dando mandato ai suoi esperti giuridici di trovare una via d’uscita dall’impasse. Ieri Tajani ha evocato presunte «immunità per i capi di governo stranieri» come possibile paravento per un effettivo arresto di Netanyahu. Idea che suona oggettivamente strampalata, altrimenti non si spiegherebbe la pressione internazionale su Vladimir Putin, ricercato anch’egli dalla stessa Corte per i crimini di guerra commessi in Ucraina. Ipotesi ancor più ardita, ma sul tavolo secondo Il Messaggero: accordarsi su una «sospensiva» del processo all’Aja contro Netanyahu «finché la guerra sarà in corso». Il che rischierebbe però di tramutarsi in un ulteriore, drammatico incentivo al capo del governo israeliano a proseguire ad oltranza nei combattimenti a Gaza, come i parenti degli ostaggi lo accusano di fare già da mesi pur di non aprire la fase politica post-conflitto. Un rebus, insomma, che Borrell in versione “kamikaze” (domani a Strasburgo sarà votata la fiducia alla nuova Commissione Ue e lui sarà rimpiazzato da Kaja Kallas) ha squadernato senza troppi complimenti, tentando di rompere il filo che i diplomatici italiani stanno provando a tessere. Dopo le fughe in avanti Tajani oggi ammette che «siamo amici di Israele ma dobbiamo rispettare il diritto internazionale». E così per salvare capra e cavoli, alla fine Usa, Italia, Francia, Germania e Regno Unito potrebbero semplicemente spostare il focus dell’attenzione nel documento finale: aggirare il tema dell’effettivo arresto di Netanyahu, che in ogni caso non avverrà se il premier israeliano si terrà alla larga dai Paesi “a rischio”, e insistere sull’urgenza del doppio cessate il fuoco. Prima che arrivi il ciclone Trump, se possibile.
(da La Repubblica)

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CONCLUSA L’INDAGINE DEI FAMILIARI DELLE VITTIME: “STRAGI DEL 7 OTTOBRE CAUSATE DALL’ARROGANZA DI NETANYAHU, HA RAFFORZATO HAMAS”

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

UN ELENCO DI FALLIMENTI, ERRORI STRATEGICI, IMPREPARAZIONE

Una condanna senza appello nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ritenuto colpevole di aver «soffocato le voci critiche, radicato l’errata concezione che il denaro potesse comprare la tranquillità con Hamas e alimentato l’impreparazione dello Stato sotto quasi ogni aspetto».
È quanto si legge nel rapporto finale della Commissione d’inchiesta civile indipendente, che aveva lo scopo di individuare i responsabili del 7 ottobre 2023, quando centinaia di miliziani di Hamas entrarono in Israele e massacrarono oltre 1.200 civili. Una accusa senza se e senza ma, diretta alla persona del premier, e che funge da cartina al tornasole del sentore popolare. Il report è frutto di un lavoro di quattro mesi, durante il quale sono state raccolte le testimonianze di circa 120 abitanti dei kibbutz e alcuni familiari delle vittime di Hamas.
L’arroganza di Netanyahu e i finanziamenti ad Hamas
Il piano di Hamas era noto da tempo, perché alle forze militari no? «Arroganza e cecità intrinseca», la risposta della Commissione è icastica. Una incapacità di vedere al di là del confine con la Striscia che si è riversata nella strategia di finanziamento di Hamas per minare la stabilità di Abu Mazen, presidente della Autorità nazionale palestinese e della Palestina. Valigie di contanti che – questa l’illusione di Netanyahu – non avrebbero mai permesso alla formazione paramilitare di armarsi contro Tel Aviv. Una sicurezza comprata con il denaro, e che ha portato il premier a «non consultarsi con le parti interessate». In primo luogo le forze di intelligence (Mossad, Shin Bet su tutti), che da mesi allertavano Tel Aviv di un possibile conflitto imminente con Hamas. La risposta sarebbe sempre stata la stessa: «Hamas è scoraggiato e non vuole una campagna ad alta intensità».
L’indebolimento degli organi di controllo
Da qui, dalla pretesa di poter gestire tutto da sé, sarebbe derivata una seconda problematica: «Il deterioramento delle relazioni tra leadership politica e militare», che avrebbe influenzato pesantemente il «processo decisionale del governo israeliano». La mancanza di ascolto avrebbe infatti causato «l’impreparazione di vari ministeri e sistemi pubblici, ritardando la risposta ai residenti assediati e successivamente agli sfollati del sud e del nord». Fallimenti durati settimane oltre il 7 ottobre, che durerebbero fino a oggi: «Sono ancora in pieno vigore tutti quei fattori che non generano una profonda riflessione strategica sui possibili sviluppi della sicurezza». E che sarebbero iniziati anni prima, con il «costante indebolimento di vari organi di controllo e lo svuotamento delle istituzioni, al punto che non svolgono più le loro funzioni». Anzi, «nell’ultimo decennio si è creata un’atmosfera in cui l concetto guidato dal primo ministro e dai leader militari diventa l’unica verità». E il Consiglio di sicurezza è solo un organo che «serve le intuizioni del premier».
Le responsabilità di Gallant e il rapporto teso con il premier
All’interno di questo sistematico infiacchimento dei centri decisionali, tra cui governo e consiglio di sicurezza nazionale, un faro specifico è puntato sulla relazione tra Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant, raggiunti nei giorni scorsi da un mandato di arresto emanato dalla Corte penale internazionale. «La relazione tesa tra il primo ministro e il ministro della Difesa – si legge nel rapporto – ha danneggiato gravemente la sicurezza dello Stato fino alla destituzione di quest’ultimo». Anche da qui, oltre che dall’impreparazione totale di fondo, è derivata la mancata efficacia della reazione all’attacco del 7 ottobre. L’Idf, secondo la commissione, si sarebbe affidata eccessivamente alla tecnologia e troppo poco agli uomini in campo, tanto che in un campo militare non erano presenti fucili da usare per difendersi. Un concetto riassunto con una parola: «Abbandono»
Bennett e Lapid (quasi) come Netanyahu
Oltre a Netanyahu e ai suoi ministri, la Commissione ha sottolineato le responsabilità degli ex premier Naftali Bennet e Yair Lapid. Anche loro, in forme diverse rispetto a Benjamin Netanyahu, hano implementato il sistema di «denaro in cambio di tranquillità», che negli anni ha permesso all’arsenale di Hamas di crescere a dismisura. Il governo, poi, si è reso colpevole anche «dell’incapacità di fornire una risposta alle famiglie delle persone scomparse e prigioniere». Per tutto questo «nove milioni di procuratori chiedono risposte».
(da agenzie)

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IL GOVERNO FA DIETROFRONT E MODIFICA IL DECRETO CHE AFFIDA ALLE CORTI D’APPELLO I RICORSI DEI RICHIEDENTI ASILO: I GIUDICI AVRANNO ALTRI 30 GIORNI DI TEMPO PER ADEGUARSI ALLA GESTIONE DEL CASO MIGRANTI

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

DIETRO LA DECISIONE C’È LA SOLLECITAZIONE DEI TECNICI DEL QUIRINALE, PRONTI A BOCCIARE IL TESTO IN MANCANZA DI “AGGIUSTAMENTI”… I 26 PRESIDENTI DELLE CORTI D’APPELLO AVEVANO SCRITTO A MATTARELLA, DENUNCIANDO “IL DISASTRO ANNUNCIATO” CHE FAREBBE “LIEVITARE GLI ARRETRATI”

Una corsa contro il tempo. Con l’ennesima forzatura parlamentare messa a segno ieri dalla maggioranza, tra le proteste dell’opposizione, e la “rettifica” apportata in extremis per concedere alle Corti d’Appello italiane, ora investite del caso migranti, almeno «30 giorni».
È il termine minimo chiesto da tutti e 26 i presidenti italiani, e sostenuto anche dalla decisiva valutazione dei tecnici del Quirinale, che ieri viene aggiunto precipitosamente, in un emendamento, con ritorno improvviso in Commissione Affari Costituzionali, pena la bocciatura del testo.
Il dettaglio consentirà (forse) alle Corti di organizzare il complesso trasferimento delle competenze sul trattenimento dei migranti, imposto dalle destre. Quel ritocco è la precondizione che serve al decreto Flussi per ottenere il via libera. Oggi il voto in Aula, su cui il governo ha già posto la fiducia.
L’input è: blindare l’unica arma in grado di scongiurare il flop da 900 milioni di euro e zero risultati della missione Albania. Mentre sui migranti interviene anche il ministro della Giustizia Nordio: «Vi è una grande confusione sotto il cielo d’Europa. Ed è lì che la questione va risolta. Perché mancano una normativa e un orientamento giurisprudenziale omogenei».
Che cosa c’è nel decreto blindato? Sotto forma di emendamento governativo, ecco l’elenco dei Paesi sicuri di origine dei richiedenti asilo. Tra questi: anche il Bangladesh, l’Egitto e il Marocco. Mentre spunta l’altra significativa “copertura”: i contratti pubblici per la cessione di mezzi e materiali a Paesi terzi, orientati alla sicurezza delle frontiere e dei flussi migratori, saranno secretati.
A fare più rumore, tuttavia, è la correzione di rotta sul cosiddetto “emendamento Musk” (dall’esternazione clamorosa del tycoon americano contro i giudici italiani). Fuori tempo massimo, è il presidente della Commissione Affari costituzionali Pagano (FI) a richiamare l’emendamento, per apportare la rettifica dei 30 giorni, e farlo tornare in Aula.
«È l’ennesimo pasticcio della maggioranza su questo doppio decreto. Se non saranno ripristinate le minime condizioni democratiche non parteciperemo ai lavori, solleveremo il problema davanti al presidente della Camera», è la levata di scudi di Filiberto Zaratti, Simona Bonafe’, Alfonso Colucci, Fabrizio Benzoni, Riccardo Magi, i capigruppo di Avs, Pd, M5s, Azione e Più Europa.
C’è anche il Colle dietro alla scelta del governo di riportare in commissione la norma che affida alle Corti d’appello i ricorsi dei richiedenti asilo. Di certo, il Quirinale apprezza la decisione dell’esecutivo di tornare sui propri passi, concedendo ai giudici più tempo per adeguarsi.
E considera di «buon senso» il ritocco approvato in commissione Affari costituzionali della Camera. Un intervento necessario anche per evitare quella che per alcune ore è sembrata la tentazione di una forzatura tecnica da parte del ministero della Giustizia.
I fatti, dal principio. Nei giorni scorsi, la reazione delle Corti d’appello al decreto del governo che stravolge il sistema dei ricorsi dei migranti è più che infastidita. I magistrati sostengono che il tempo per attrezzarsi al nuovo corso – un mese – è irrisorio, insufficiente, problematico. Lamentano il rischio che il sistema si paralizzi. E premono per ottenere modifiche.
Il ministero della Giustizia è sordo alle critiche, a lungo. A un certo punto, però, spunta quella che nelle intenzioni del Guardasigilli Carlo Nordio rappresenterebbe una soluzione di compromesso: sarà una circolare di via Arenula, questa è la proposta, a concedere una proroga di dieci o quindici giorni per l’entrata in vigore del provvedimento. Troppo poco. E soprattutto: assai irrituale.
A questo punto, interviene in qualche modo il Colle. La questione non arriva fino a Sergio Mattarella, perché si risolve prima: gli uffici della presidenza della Repubblica segnalano ai tecnici del governo la criticità di una norma che non garantisce alle Corti d’appello tempo sufficiente per adeguarsi.
E l’esecutivo corre ai ripari, modificando la norma in Parlamento. A via Arenula viene spiegato, soprattutto, che non sarebbe stato possibile utilizzare una circolare amministrativa per definire l’entrata in vigore di un provvedimento di legge.
La maggioranza, imbarazzata, fa dunque dietrofront. E decide di tornare in commissione dopo alcune ore di stallo in aula: alla Camera, infatti, mancano a lungo i numeri per approvare il nuovo passaggio in Affari costituzionali.
Il rischio è finire battuti dalle opposizioni. Poi, a metà pomeriggio e dopo aver richiamato tutti i deputati presenti nella capitale o nei dintorni, la situazione si sblocca. Sia chiaro, la mossa del Colle è puramente tecnica. Di più: non fa altro che venire incontro alle richieste delle Corte d’appello, giudicate ragionevoli e ineludibili
(da La Repubblica)

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SANITA’, I “VIAGGI DELLA SPERANZA” DAL SUD AL NORD COSTANO TRE MILIARDI DI EURO

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

IL FENOMENO SUPERA I NUMERI PRE COVID E CRESCE LA MOBILITA’ PER PRESTAZIONI A BASSA COMPLESSITA’

Nel 2023 la mobilità sanitaria ha raggiunto il valore di 2,87 miliardi di euro. La ricerca di prestazioni e ricoveri migliori al Nord da parte dei cittadini del Sud Italia, quelli che una volta venivano chiamati “viaggi della speranza”, ha raggiunto i livelli pre Covid. Nel 2019 erano 2,84 miliardi, secondo i dati di Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali). Come riporta l’Adnkronos, ad aumentare è la domanda di prestazioni a bassa complessità mentre quella ad alta complessità diminuisce. Il ministero della Sanità vuole però stanziare nella legge di Bilancio un disincentivo per i ricoveri ritenuti inappropriati.
I dati sulla fuga al nord
Le strutture preferite dai cittadini del Sud Italia sono quelle dell’Emilia Romagna, della Lombardia, del Veneto e della Toscana. Da qualche anno c’è però in atto una tendenza: «Quello che si è visto negli ultimi anni è che la mobilità ad alta complessità si è ridotta mentre è aumentata quella dei pazienti per prestazioni a bassa complessità, anche a fronte di una azione di alcune Regioni del centro Nord interessate ad attrarre pazienti da altre Regioni», spiega il direttore generale della Programmazione del ministero della Salute Americo Cicchetti.
Quindi non tanto più interventi salva vita, ma operazioni anche più “semplici”. Lo spostamento interno dei cittadini italiani permette ad alcune regioni di avere saldi di mobilità in positivo: Emilia e Lombardia hanno, rispettivamente, un saldo di 388 milioni e 379 milioni di introiti solo per il 2023. A discapito delle amministrazioni del Sud: Campania (-210 milioni di costi da rimborsare), la Calabria (-190 milioni), la Sicilia (-138 milioni) e la Puglia (-127 milioni).
La manovra: accordi bilaterali per disincentivare gli spostamenti
Il ministero della Sanità ha quindi elaborato una norma da inserire nella manovra, ora in Parlamento, per limitare gli spostamenti ingiustificati tra regioni. Il provvedimento obbliga le Regioni a «sottoscrivere accordi bilaterali – recita l’articolo 55- , per il governo della mobilità sanitaria interregionale e delle correlate risorse finanziarie, con tutte le altre regioni con le quali la mobilità sanitaria attiva o passiva assuma dimensioni che determinano fenomeni distorsivi». Il ministero dovrà mettere a disposizione entro febbraio 2025 una struttura di accordo entro la quale le regioni dovranno operare e sottoscrivere entro l’aprile successivo. Il format così pensato dovrà regolare la cosiddetta “mobilità apparente” (quella cioè tra Regioni confinanti) e quella per prestazioni “a bassa complessità”. In particolare, maglie più strette sono previste per quelle Regioni che «registrano una mobilità passiva pari almeno al 20 per cento del fabbisogno sanitario standard annualmente assegnato», recita il dispositivo.
I disincentivi
«L’idea è che gli accordi fissino dei paletti per disincentivare anche finanziariamente le cure a bassa complessità, magari rimborsando al 50% il Drg», spiega il Dg della programmazione del ministero. Tramite il raggruppamento omogeneo di diagnosi (Drg) è possibile classificare tutti i malati dimessi da un ospedale in gruppi omogenei in base alle risorse impegnate per la loro cura. «Faccio un esempio: la Lombardia si impegna con la Calabria a fare delle verifiche sull’appropriatezza delle prestazioni rese ai cittadini calabresi e nel caso quei ricoveri non lo siano allora la Calabria non rimborserà o rimborserà di meno quelle prestazioni, se l’accordo lo prevede», continua ancora Cicchetti. Il tutto però tutelando la libertà di scelta delle persone «cioè quella di curarsi dove vogliono generando però dei disincentivi se queste persone si muovono quando non ce n’è bisogno perché ospedali buoni sono ovunque», conclude il Dg del ministero.
(da agenzie)

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L’ACQUA E’ POCA E LA PAPERA NON GALLEGGIA: NEGLI ULTIMI 10 ANNI C’È STATO UN CALO DRASTICO DI ACQUA DI FIUMI, LAGHI E FALDE

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

TRA IL 2015 E IL 2023 LA QUANTITÀ MEDIA DI ACQUA DOLCE IMMAGAZZINATA SULLA TERRAFERMA È STATA DI 1.200 CHILOMETRI CUBICI INFERIORE AI LIVELLI MEDI REGISTRATI DAL 2002 AL 2014 – NON A CASO, 13 DEI 30 EPISODI DI SICCITÀ PIÙ INTENSA SI SONO VERIFICATI DOPO IL 2015

Da dieci anni a questa parte i continenti del pianeta sono diventati più aridi: a partire dal maggio 2014 la quantità di acqua dolce presente in fiumi, laghi e falde acquifere è bruscamente diminuita e poi non è più aumentata. Questo cambiamento, probabilmente legato al cambiamento climatico, potrebbe indicare l’inizio di una nuova fase persistentemente più secca. Lo indicano le osservazioni dei satelliti Grace e Grace-Follow On della Nasa e dell’Agenzia spaziale tedesca, pubblicate sulla rivista su Surveys in Geophysics.
I satelliti Grace, operativi da marzo 2002 a ottobre 2017, e quelli della generazione successiva Grace-Follow On, lanciati a maggio 2018, hanno misurato su scala mensile le fluttuazioni della gravità terrestre che rivelano cambiamenti nella massa d’acqua del suolo e del sottosuolo. Le misurazioni fatte tra il 2015 e il 2023 hanno mostrato che la quantità media di acqua dolce immagazzinata sulla terraferma (che include l’acqua liquida superficiale di laghi e fiumi, oltre all’acqua delle falde acquifere sotterranee) è stata di 1.200 chilometri cubici inferiore ai livelli medi registrati dal 2002 al 2014.
Il declino è iniziato con una grande siccità nel Brasile settentrionale e centrale, ed è stato poi seguito da una serie di importanti episodi di siccità tra Asia e Australia, in Nord e Sud America, Europa e Africa. Le temperature oceaniche più calde nel Pacifico tropicale dalla fine del 2014 al 2016, culminate in uno degli eventi El Nino più significativi dal 1950, hanno portato a cambiamenti nelle correnti a getto (jetstream) atmosferiche alterando il meteo e le precipitazioni in tutto il mondo.
Successivamente, anche dopo la fine di El Nino, l’acqua dolce globale non è riuscita ad aumentare. Non a caso, 13 dei 30 episodi di siccità più intensi al mondo osservati dai satelliti Grace si sono verificati a partire da gennaio 2015. “Il riscaldamento globale porta l’atmosfera a trattenere più vapore acqueo, il che si traduce in precipitazioni più estreme”, spiega il meteorologo della Nasa Michael Bosilovich.
“Il problema quando si verificano precipitazioni estreme è che l’acqua finisce per defluire invece di essere assorbita e riempire le riserve di acqua sotterranea. Le temperature elevate aumentano sia l’evaporazione dell’acqua dalla superficie all’atmosfera, sia la capacità di ritenzione idrica dell’atmosfera, aumentando la frequenza e l’intensità delle condizioni di siccità”.
(da agenzie)

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PARENTI D’ITALIA: CROSETTO CHIAMA IL CUGINO DELLA MOGLIE NEL GABINETTO DEL MINISTERO DELLA DIFESA

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

CONTINUA LA TRADIZIONE FAMILISTICA NEL PARTITO DI MELONI… E’ UN APPUNTATO DEI CARABINIERI

Cugini d’Italia al ministero della Difesa. Si tratta di Antonio Saponaro, 40 anni di cui 20 di servizio, appuntato dei carabinieri, da gennaio del 2023 è entrato – in comando – a far parte dello staff di Guido Crosetto.
Il militare è il cugino di primo grado – i padri sono fratelli – di Gaia Saponaro, seconda moglie del ministro e cofondatore di Fratelli d’Italia.
E’ inquadrato nella segreteria del gabinetto. Si occupa di incarichi di stretta fiducia ma anche tecnici come l’organizzazione della sala stampa. Saponaro fino agli inizi del ‘23 lavorava al comando generale di Tor di Quinto con il grado di appuntato. A tre mesi dalla vittoria delle elezioni da parte del centrodestra, il marito della cugina, Crosetto appunto, lo ha chiamato al ministero. “Nessuno scandalo anche perché lo stipendio per questo nuovo incarico è suppergiù equiparato al precedente”, raccontano dalla Difesa dove invitano a guardare altrove. “Qui non si tratta di persone senza titoli piazzati nella segreteria a prendere chissà quanti soldi, ma di uno spostamento in base a una nomina fiduciaria”.
Saponaro percepisce circa 400 euro netti al mese come indennità per il ruolo che svolge nel gabinetto, ma non usufruisce degli straordinari.
La faccenda semmai rientra nella categoria degli epifenomeni. Di un partito, Fratelli d’Italia, che nel comporre gli staff, a tutti i livelli, nel dubbio si muove molto su logiche legate alla famiglia: sorelle, mariti, cognati, mogli. E anche Crosetto non sembra esserne immune. All’ultima festa del Fatto a proposito della moglie Gaia Saponaro, che tentò di entrare nell’Aise, il ministro della Difesa disse: “Quando smetto di fare il ministro facciamo un libro sulle mogli e i figli di politici che lavorano nei servizi segreti”. E a questo punto anche sui cugini.
(da agenzie)

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TAJANI S’È STUFATO DI ESSERE BULLIZZATO E FORZA ITALIA FA SALTARE IL DECRETO GIUSTIZIA: USCITO SCONFITTO DAL VERTICE SULLA MANOVRA, IL VICEPREMIER FORZISTA, SENTITOSI UMILIATO, HA ORGANIZZATO UN BLITZ, FACENDO DISERTARE AI MINISTRI AZZURRI IL CDM DI IERI

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

NEL MERITO, FORZA ITALIA NON ACCETTA LE NUOVE NORME SULLA CYBERSICUREZZA, CHE AMPLIANO I POTERI DELLA PROCURA NAZIONALE ANTIMAFIA

Raccontano che domenica sera, appena uscito da casa di Giorgia Meloni al Torrino, abbia esclamato: “Non possono umiliarci così, forse non hanno capito che ormai siamo la seconda forza politica della maggioranza”.
Era furioso, Antonio Tajani. Al vertice sulla manovra è entrato gladiatore, ne è uscito agnellino. Nessun ampliamento del taglio Irpef, nessun aumento delle pensioni minime, nessuna certezza sull’autonomia differenziata. Il vicepremier chiede anche più rappresentanza al governo, a partire da un sottosegretario per sostituire Raffaele Fitto agli Affari Ue ma la premier non ha intenzione di concederglielo.
Così, di notte, Tajani organizza il blitz. Lunedì, cioè ieri, nessun ministro di Forza Italia si sarebbe presentato in Consiglio dei ministri chiedendo alla premier di rinviare, per l’ennesima volta, il decreto Giustizia che contiene, tra le altre cose, un nuovo “bavaglio” per i magistrati che dovranno astenersi dal parlare di questioni su cui poi dovranno giudicare e soprattutto le nuove norme sulla cybersicurezza, in particolare una che dava compiti di coordinamento sui reati cyber alla Procura Nazionale Antimafia.
Obiettivo: giocare allo sfascio per ottenere qualcosa al tavolo delle trattative sulla legge di Bilancio e far capire agli alleati che FI è il secondo partito della maggioranza e dovrà essere trattato di conseguenza
Il ministro degli Esteri di buon mattino chiede il rinvio del decreto Giustizia: altrimenti non votiamo, è il senso della minaccia. Dopo ore di trattative, alla fine, la premier decide di acconsentire: il decreto sarà rinviato al Consiglio dei ministri di venerdì. La scusa è già pronta: i ministri di Forza Italia non possono essere presenti. Tajani è a Fiuggi per il G7 Esteri, Pichetto Fratin a Baku per la Cop e Anna Maria Bernini non poteva andare in Cdm a porre questioni sul decreto.
Così fonti di Palazzo Chigi fanno sapere che il decreto è rinviato ancora e poi è il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri a porre anche una questione di merito: come anticipato dal Fatto, Forza Italia non è d’accordo a dare i poteri di impulso e coordinamento alla Procura Nazionale Antimafia di Giovanni Melillo.
La norma aveva già provocato tensioni nel governo tra il suo ideatore Alfredo Mantovano e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, contrario. Gasparri, che dovrebbe tenersi ben lontano dalle questioni sulla cybersicurezza visto il suo ruolo passato alla presidenza della società Cyberealm da cui si è dimesso nel marzo scorso, spara: “Questa norma merita una riflessione approfondita, così non passa”.
Forza Italia, che invece è d’accordo sul nuovo bavaglio ai giudici, non può far passare il messaggio di votare un provvedimento che farebbe della DNA una sorta di Superprocura che ha compiti di coordinamento sulle indagini di mafia, terrorismo e cybersicurezza.
Sul decreto invece ci sarebbero stati anche dei dubbi da parte di Fratelli d’Italia a proposito della norma che impedirebbe ai giudici di esprimersi pubblicamente su vicende su cui sono chiamati a decidere. Norma voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ieri ne ha rivendicato la paternità: “Se il magistrato si è espresso su alcuni settori, deve astenersi”. La premier però in Consiglio dei ministri fa un richiamo agli alleati: “Dobbiamo essere meno litigiosi”.
La giustizia è un tema caldo per FI, che in settimana vuole far passare la separazione delle carriere in commissione Affari costituzionali della Camera. In Forza Italia circolano anche veleni più politici: Tajani teme che la premier voglia dare più un ministero a Lupi sostituendo, in prospettiva, FI quando scenderà in campo Pier Silvio Berlusconi.
(da il Fatto Quotidiano)

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DOVE VUOLE ARRIVARE GRILLO VERSIONE VIETCONG NELLA GUERRA CON CONTE: “RIPETIZIONI DI VOTO, BATTAGLIA SUL SIMBOLO E SCISSIONE

Novembre 26th, 2024 Riccardo Fucile

LA STRATEGIA LEGALE PENSATA CON UN AVVOCATO VICINO A RAGGI, IL VIDEO IN PREPARAZIONE CON L’INVITO ALL’ASTENSIONE… IL LOGO GRILLINO POMO DELLA DISCORDIA… IL NUOVO PARTITO DI CONTE DIFFICILE DA ATTUARE

Beppe Grillo «rinnega la storia del Movimento 5 Stelle attaccandosi ai cavilli». La furia di Giuseppe Conte sul «tentativo estremo di sabotaggio» dell’Assemblea Costituente da parte del fondatore e garante, che ha chiesto la ripetizione del voto, è palpabile. Ma l’ex Avvocato del Popolo che ha scoperto improvvisamente di essere allergico ai garbugli deve stare attento. Perché l’ex comico «è entrato nella fase Vietcong». E potrebbe continuare a chiedere ripetizioni di voto a… ripetizione.
In particolare potrebbe far ripetere la consultazione finale sul nuovo Statuto. E invitare chi ha votato ad astenersi. Sulla base di un ragionamento semplice: «Se quel 29,1% che ha votato per non cancellare il garante non si presenta la seconda volta, il quorum non si raggiunge ed è tutto annullato».
Il voto bis e il simbolo del M5s
Grillo per ora non parla. Anche se secondo i retroscena dei giornali sarebbe in preparazione un video per spiegare le sue mosse e proprio per invitare all’astensione nella ripetizione del voto. «È mal consigliato e da quando non ha più interlocutori che ritiene alla sua altezza si è chiuso nel fortino. Poi la storia degli figlio accusato di stupro gli ha fatto perdere la testa», è l’analisi anonima riportata oggi dal Fatto Quotidiano.
La sua creative director oggi è la cantautrice Nina Monti, che nei giorni scorsi su Instagram ha pubblicato le parole guerriere di Beppe prima delle elezioni del 2013, che portarono al boom da 25% del M5s. C’è anche un altro nodo sul tavolo: quello del simbolo. Tramite il commercialista Enrico Maria Nadasi Beppe ha fatto sapere che vuole riprenderselo «per estinguerlo e metterlo in un museo». E naturalmente toglierlo così a Conte.
Una norma feudale
Il quale non ci sta a mollare senza combattere. E in un colloquio con Luca De Carolis spiega che il Garante usa una «norma feudale» per un «estremo tentativo di sabotaggio». Oltre a sostenere che Beppe non avrebbe alcun titolo per contestare attraverso vie legali l’uso del simbolo. «Così lui rinnega la sua stessa storia e quella del Movimento, che ha fatto della partecipazione democratica un suo valore fondante», aggiunge l’ex premier. «È opportuno che Conte adesso si faccia il suo simbolo, “Oz con i 22 mandati”, e lasci perdere quel simbolo lì. Il Movimento che abbiamo fondato non può essere stravolto. Se continua col simbolodel Movimento, si valuterà il da farsi», gli risponde idealmente Nadasi. La maggior parte dei dirigenti grillini, sostiene il Fatto, vorrebbe mantenere il simbolo, almeno nel breve termine. Ma c’è chi invoca la modifica per caratterizzare la nuova fase e chiudere con il passato.
Vietcong
Intanto l’avvocato Lorenzo Borré, che ha patrocinato molte cause sullo statuto grillino all’epoca di Grillo e Casaleggio, dice al Foglio che Beppe potrebbe non fermarsi qui. Anche perché ormai è entrato in modalità Vietcong, spiega il legale. E, aggiunge il quotidiano, ha deciso la mossa di chiedere la ripetizione del voto dopo un blitz a Roma per incontrare un avvocato vicino a Virginia Raggi.
«Quello di domenica rappresenta l’esito di una consultazione, ma non modifica direttamente lo statuto che altrimenti rimarrebbe in alcune parti monco. Per modificarlo, recependo il voto sui singoli quesiti, sarà necessario approvare un nuovo statuto, con un nuovo voto. Poi, anche su quello, Grillo potrà chiedere una nuova votazione», dice Borré.
Altri tre voti
Alla fine quindi ci potrebbero essere ancora altri tre voti: quello chiesto ieri da Grillo ieri, quello sul nuovo statuto e la ripetizione di quest’ultimo: «E la cosa divertente è che già dalla prossima volta Grillo –mandando indubbiamente a quel paese tutti le vecchie battaglie sui referendum senza quorum e la democrazia partecipata –potrebbe invitare quel 29,1 per cento che ha votato per non cancellare il garante dallo statuto, a evitare di farlo questa volta. Se i numeri rimanessero gli stessi in questo modo sarebbe certo di invalidare il voto».
Il partito di Conte
L’ipotesi che invece sia Conte a mollare baracca e burattini per farsi il suo partito personale è di difficile praticabilità: «La vedo molto complicata», sostiene Borrè. «Chi dice ‘vedrete che Conte alla fine si farà il partito suo’, non guarda con sufficiente attenzione alle questioni sostanziali: tenere l’attuale associazione consente all’ex premier di ricevere i finanziamenti pubblici, con un nuovo partito non gli rimarrebbe nessuna cassaforte con la quale fare attività politica. Piuttosto sarà costretto anche lui a continuare questa guerra di logoramento con Grillo che per lui, che poi deve raccogliere i voti della gente, è decisamente più scomoda».
Cui prodest
L’avvocato spiega anche che «il fatto che il Movimento conservi nome e simbolo è per Grillo una garanzia personale. Se ci fidiamo di quanto raccontato dal parlamentare del M5s e notaio Alfonso Colucci, Grillo ha rinunciato ai diritti su entrambi che avrebbe in forza di una sentenza della Corte d’Appello di Genova in cambio di una manleva sulle sue spese legali. Dal punto di vista patrimoniale personale insomma non gli converrebbe affatto un cambio di nome e simbolo, ma forse, anche perché le carte di questo accordo non le conosce nessuno, il fondatore ha un interesse politico diverso che può spingerlo anche alla rinuncia a quella manleva. Di una cosa sono certo: ne vedremo delle belle».
(da Open)

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