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LA PROCURA DI MILANO NEGA GLI ARRESTI DOMICILIARI AD ABEDINI: “RESTI IN CARCERE”

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

PARERE NEGATIVO DELLA PROCURA PER L’IRANIANO ARRESTATO SU RICHIESTA DEGLI STATI UNITI

La Procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, ha negato gli arresti domiciliari a Mohammad Abedini Najafabadi, l’uomo originario dell’Iran che è stato arrestato all’aeroporto di Milano Malpensa il 16 dicembre scorso su richiesta degli Stati Uniti che lo accusava di aver garantito un “supporto materiale a un’organizzazione terroristica straniera”. La richiesta di alleggerire la misura cautelare era stata presentata dal legale del 38enne, Alfredo De Francesco.
Solo alcune ore fa è merso che i giudici della Corte di Appello di Milano stanno vagliando un documento che è stato trasmesso dal Dipartimento di Giustizia americana in cui si sostiene che Abedini è un soggetto pericoloso
Nell’atto, lungo quattro pagine, è specificato che per il 38enne è necessaria la detenzione in carcere. Il documento è stato inviato specificamente dal Dipartimento di giustizia del Massachusetts e pochi giorni dopo l’arresto di Abedini e quindi prima dell’istanza con cui il suo avvocato difensore Alfredo de Francesco ha chiesto gli arresti domiciliari. Attualmente è all’attenzione della Procura Generale di Milano che dovrà fornire un parere, non vincolante, sulla richiesta presentata dal legale de Francesco.
(da agenzie)

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“DORMO PER TERRA IN CELLA E MI HANNO TOLTO ANCHE GLI OCCHIALI”: CECILIA SALA RACCONTA LE SUE CONDIZIONI NEL CARCERE DI EVIN, DOVE È DETENUTA DAL 19 DICEMBRE.

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

LA 29ENNE HA PARLATO AL TELEFONO CON I SUOI GENITORI E IL COMPAGNO E HA RIVELATO CHE NON LE È ARRIVATO NESSUN PACCO CON I BENI DI PRIMA NECESSITÀ, COME RIFERITO DALLE AUTORITÀ DI TEHERAN – ALL’INTERNO DEL CARCERE È FREDDO E LA LUCE È ACCESA 24 ORE SU 24

Nella cella lunga quanto lei sdraiata, Cecilia Sala non ha un materasso e dorme per terra, su una coperta. Ne ha un’altra di coperta per proteggersi dal freddo di Evin che è pungente — «doloroso», dicono le detenute iraniane —, e congela. Cecilia Sala non vede nessuno dal 27 dicembre, dal giorno in cui ha incontrato l’ambasciatrice Paola Amedei.
Non vede nemmeno le guardie perché le passano il cibo — molti datteri — da una fessura della porta. Non ha ricevuto nessun pacco. Nessun panettone. Nessun cioccolato, né sigarette, né maglioni, né i quattro libri che già immaginavamo tra le sue mani, né la mascherina per proteggersi dalla luce al neon accesa 24 ore su 24, né beni di prima necessità. Anzi: a Cecilia Sala sono stati confiscati gli occhiali da vista.
L’unico — l’unico — particolare che per la famiglia della giornalista in cella in Iran dal 19 dicembre aveva l’ombra di una rassicurazione, era quella frase pronunciata dalle autorità subito dopo l’arresto: «Tratteremo la reporter italiana in modo dignitoso». Ora lo sappiamo: non va così.
A Sala è riservato lo stesso trattamento delle prigioniere politiche che affollano le celle del carcere simbolo della repressione della Repubblica islamica. Il metodo è identico: senza dignità.
Ieri, primo gennaio, nemmeno 24 ore dopo il discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dedicato anche a lei, alla giornalista del Foglio e di Chora Media sono state concesse tre chiamate: alla madre, al padre, al compagno e collega Daniele Raineri. Telefonate sconvolgenti per la famiglia che la immaginava in condizioni migliori, viste le informazioni degli ultimi giorni. E che hanno spinto la Farnesina a chiederne la «liberazione immediata» e «garanzie totali sulle sue condizioni di detenzione».
Ma il regime fa il regime e non rispetta la parola data. La versione della Repubblica islamica era un’altra. Avevano raccontato che è stata scelta una cella singola per farla sentire al sicuro, per farla stare meglio. Avevano aggiunto che finalmente erano riusciti a consegnarle il pacco dell’ambasciata con alcuni dolci, libri e beni di prima necessità. Niente di tutto questo è vero.
Sala è una prigioniera a tutti gli effetti degli ayatollah che non specificano ancora l’accusa per cui l’hanno arrestata. La tengono in regime d’isolamento con un generico «ha violato le leggi della Repubblica islamica».
«Fate presto», ha detto la giornalista nella prima chiamata dopo l’arresto. Lo ha ripetuto anche ieri: «Fate presto». Sala non può rimanere chiusa tra le pareti di una prigione dove non vengono rispettati i diritti umani.
Se il suo destino è speculare a quello di Mohammad Abedini-Najafabad — l’ingegnere iraniano esperto di droni e detenuto in Italia dal 16 dicembre per conto degli Stati Uniti — in realtà ci sono già molte differenze tra le loro storie, le loro detenzioni: Abedini ha un materasso, delle coperte, dei libri, dei vestiti, contatti umani. Ha la certezza di un sistema giudiziario che gli garantirà un trattamento giusto, secondo le leggi del diritto internazionale. Sala è ostaggio di un Paese illiberale che sta mostrando tutta la sua ferocia nei confronti di una cittadina straniera che è andata in Iran per fare il suo lavoro con un visto giornalistico regolare
(da la Repubblica)

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L’ALLARME DI RENZI PER CECILIA SALA: “SITUAZIONE GRAVE, MELONI INTERROMPA LE VACANZE E CONVOCHI I LEADER DI TUTTI I PARTITI”

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

“CONDIZIONI DI DETENZIONE LONTANISSIME DA QUELLE DESCRITTE DALLA FARNESINA, ORA UNIAMOCI PER LIBERARE CECILIA”

La situazione in cui si trova Cecilia Sala è «molto seria», ben più grave di quella che era apparsa sinora. Le condizioni della giornalista 29enne rinchiusa dal 19 dicembre nel carcere di Evin appaiono «lontanissime da quelle descritte dal nostro ministero degli Esteri nei giorni scorsi».
Lo scrive Matteo Renzi in un post allarmato sui social dopo le notizie pubblicate stamattina dai giornali sulle condizioni di Cecilia Sala, che nelle telefonate di ieri ai suoi cari ha rivelato di dormire per terra in una cella angusta, di non aver mai ricevuto alcun bene di prima necessità di quelli inviati dall’ambasciata e di essere stata privata perfino degli occhiali. «È molto provata», hanno detto preoccupati i genitori della ragazza. Per questo ora l’ex premier e leader di Italia Viva si rivolge direttamente a Giorgia Meloni, cui chiede di convocare un vertice d’urgenza con i leader di tutte le forze politiche.
«Interrompiamo tutti le vacanze» per Cecilia
«Nessuno di noi vuole far mancare il proprio sostegno al Governo perché davanti all’arresto illegittimo di una cittadina italiana, a maggior ragione se giornalista, non c’è maggioranza e non c’è opposizione», premette Renzi.
Ma in casi gravi e preoccupanti quello ora sotto gli occhi di tutti, continua, «è giusto che la Premier riunisca subito i leader di tutti i partiti o i capigruppo. Chiedo alla Presidente Meloni di riunire in sua presenza i leader di maggioranza e opposizione o semplicemente i capigruppo già oggi. O al più tardi domani. Siamo pronti a raggiungerla a Palazzo Chigi oggi o domani, interrompendo tutti le vacanze, perché la situazione è molto più seria e più grave di come è stata descritta ai giornali. Diamo la massima disponibilità e il massimo sostegno al Governo, ma il Governo faccia ciò che altri premier hanno fatto in situazioni analoghe in passato coinvolgendo da subito tutte le opposizioni. Cecilia deve essere liberata subito e tutti insieme dobbiamo fare la nostra parte. Non c’è un minuto da perdere», sprona il governo il leader di Italia Viva.
(da agenzie)

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MELONI SI COMPRA CASA PER 1.2 MILIONI DI EURO E SENZA FARE MUTUO

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

HA COMPRATO PER 1.254.000 EURO LA CASA DOVE ABITA DA SEI MESI… 433 METRI QUADRI PIU’ DUE BOX E UNA PISCINA

Finalmente Giorgia Meloni ha comprato per un milione e 254 mila euro la casa nella quale abita da più di sei mesi. Come già raccontato dal Fatto la presidente del consiglio aveva sottoscritto un preliminare il 30 marzo 2023 per l’acquisto di una villa nella zona di Roma sud al prezzo di 1,1 milioni. Aveva versato già 300 mila euro e aveva previsto di pagare il resto entro il 31 ottobre solo se i venditori, due fratelli, avessero realizzato entro il 30 settembre 2023 tutti i lavori di ristrutturazione elencati in un capitolato che includeva la realizzazione di una piscina.
Ai primi di giugno Giorgia Meloni ha deciso di trasferirsi comunque nella villa, nonostante il termine dei lavori fosse stato ampiamente superato dai venditori.
Per sei mesi e mezzo ha abitato nella casa sulla base di un accordo con i promittenti venditori e solo lo scorso 23 dicembre 2024 ha firmato il contratto definitivo, registrato in Conservatoria il 24 dicembre.
Il prezzo finale pattuito è più alto di quello previsto nel preliminare ormai un anno e 9 mesi fa. Invece di 1,1 milioni Meloni pagherà un milione e 254mila euro come stabilito nel contratto, firmato in rappresentanza della premier come al solito da Patrizia Scurti. Il prezzo lievita per accordo tra le parti dovuto ai maggiori lavori.
Meloni si era riservata nel preliminare la possibilità di ricorrere a un mutuo. Invece ha deciso di pagare tutto in assegni e bonifici. Nel 2023 grazie anche ai diritti dei suoi libri, il suo reddito è balzato a 459 mila euro annui, quasi raddoppiando rispetto al 2022.
Comunque è stato un bello sforzo anche considerando la vendita a 650mila euro della prima casa. Se si includono le spese per imposte (ridotte dall’agevolazione prima casa) notaio e agenzia avrà tirato fuori 1,3 milioni.
In cambio ha una gran villa con piscina, anche se in zona un po’ periferica. Nell’atto sono dichiarati 500mq. Sono 433 mq catastali di abitazione più 34 mq per il primo box e 44 mq per il secondo box. La piscina prevista nel preliminare (9 metri per 3 ,5 profonda 1,5 m) non è indicata nell’atto ma solo perché è una pertinenza della villa.
I pagamenti hanno seguito l’andamento dei lavori. Dopo i primi 300mila del preliminare sono stati pagati dalla premier 290 mila euro in tre versamenti e poi nel mese scorso 100mila euro il 5 dicembre 2024; 196 mila euro il 16 e altri 367 mila euro il 23 alla stipula del definitivo.
Le pratiche urbanistiche sono state tutte fatte dai venditori. Il 25 maggio 2023 è stata presentata una SCIA al Comune. Il 21 marzo 2024, più di 5 mesi dopo la scadenza inizialmente prevista per la fine lavori, 6 mesi e mezzo dopo il nostro primo articolo sulla villa con piscina, tre mesi prima del trasloco, è stata presentata una richiesta di permesso di costruire che probabilmente include la piscina. Il 24 maggio il permesso a costruire del Comune n.2/2024 è stato rilasciato. Dopo l’inizio del trasloco di Meloni nella nuova casa ai primi di giugno, il 27 giugno 2024 è stata depositata la comunicazione di fine lavori. Il 25 giugno c’è la richiesta di deposito del certificato di collaudo. L’8 luglio 2024 c’è la segnalazione certificata per l’agibilità. L’ultima pratica è una seconda variazione per aggiornamento planimetrico del 17 dicembre scorso. Sei giorni dopo, con le carte tutte a posto, finalmente la villa con la piscina diventa a tutti gli effetti di Giorgia Meloni.
(da ilfattoquotidiano.it)

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L’UE BLOCCA I FONDI PER UN MILIARDO ALL’UNGHERIA DI ORBAN: “VIOLA LO STATO DI DIRITTO”

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

UNA CRISI ISTITUZIONALE CHE METTE A RISCHIO IL FUTURO DELLE RELAZIONI CON L’UE

A mezzanotte del 31 dicembre, Bruxelles ha sancito ufficialmente la perdita definitiva della prima tranche dei fondi di coesione destinati all’Ungheria: 1,04 miliardi di euro. Questo taglio fa parte di un pacchetto più ampio di 19 miliardi, congelati dal 2022. Il motivo: le gravi violazioni dello Stato di diritto imputate al governo di Viktor Orbán.
La decisione non è stata presa all’improvviso: due anni fa è stato attivato un meccanismo di condizionalità, che ha avuto la funzione di avvertire Budapest. Un sistema che collega i fondi dell’Unione Europea al rispetto di determinate regole democratiche e principi di stato di diritto. L’attivazione di questo meccanismo ha rappresentato una sorta di monito per l’Ungheria, che non ha però portato ai cambiamenti richiesti. Il governo ungherese ha infatti continuato a ignorare le richieste di modifiche.
Le critiche principali riguardano vari aspetti del governo di Orbán, tra cui la scarsa trasparenza nella gestione dei fondi pubblici, la presenza di conflitti di interesse e le pressioni politiche che minano l’indipendenza della magistratura e dei media. La Commissione Europea aveva già richiesto delle riforme precise per garantire che il sistema giudiziario fosse al riparo da influenze politiche, ma le modifiche proposte dal governo ungherese sono state considerate insufficienti.
In questo contesto, uno dei casi più noti, almeno per l’Italia, è stato quello di Ilaria Salis, oggi europarlamentare, che ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze della fragilità dello Stato di diritto in Ungheria. La sua esperienza ha attirato l’attenzione internazionale, e ha evidenziato il clima di intimidazione e le difficoltà di chi tenta di opporsi al governo di Orbán.
Arrestata e trattenuta in custodia cautelare in carcere a Budapest, Salis ha denunciato le gravi violazioni dei suoi diritti fondamentali, compresi lunghi periodi di detenzione preventiva e un processo che, anche secondo i giudici italiani, era viziato da forti pressioni politiche.
In una lettera scritta al suo legale, Eugenio Losco, Salis raccontava il sovraffollamento, i trasferimenti in catene, l’ora d’aria al giorno che non sempre era garantita, celle infestate da insetti e “una dotazione mensile di 100 milligrammi di sapone, quattro pacchi di carta igienica e un ciuffo di cotone per il ciclo mestruale”.
Il caso di Salis ha sollevato domande sul funzionamento della giustizia ungherese, spesso accusata di essere controllata dal governo di Orbán e di servire più interessi politici che l’equità e l’indipendenza richieste dagli standard europei. La vicenda ha portato alla ribalta le problematiche sistemiche del sistema giudiziario ungherese, attirando l’attenzione delle istituzioni europee e contribuendo a rafforzare la posizione di Bruxelles con Budapest.
La situazione nelle carceri ungheresi
Nel mese di dicembre 2023, l’Hungarian Helsinki Committee (HHC), una Organizzazione non governativa impegnata nella difesa dei diritti umani, con sede a Budapest, ha reso pubblico un rapporto che evidenziava la situazione allarmante delle carceri ungheresi: a ottobre 2023, il numero di detenuti aveva superato le capacità strutturali, con 18.407 persone reclusi a fronte di una capacità massima di 17.998, raggiungendo un tasso di occupazione del 102%. A Budapest, la capitale, la situazione sembrava essere ancora più drammatica, con il tasso di occupazione che variava dal 104% al 107%.
Il sovraffollamento carcerario è un problema di lunga data, simile a quello che affligge anche l’Italia, dove, in base alle informazioni fornite dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e analizzate dal Garante nazionale per le persone private della libertà, relative alla situazione al 30 novembre 2024, il numero complessivo dei detenuti è salito a 62.464, con un tasso di sovraffollamento pari al 133%, calcolato sui posti effettivamente disponibili.
Un rapporto del 2018 del Consiglio d’Europa, la principale organizzazione che monitora i diritti umani in Ue, ha documentato casi di abusi da parte delle forze di polizia: i racconti, documentati nel rapporto, parlano di pestaggi brutali, spesso compiuti in assenza di testimoni e lontano dalle telecamere di sorveglianza.
Le condizioni igieniche sembrano essere poi un altro dramma: secondo il rapporto di HHC, in almeno 20 carceri ungheresi, ci sarebbero infestazioni da cimici dei letti. Anche Salis, nelle sue lettere dal carcere, parlava del tormento causato dalle cimici, dagli scarafaggi e dai topi.
Le difficoltà non si fermano qui: sarebbero scarsi gli impianti di riscaldamento funzionanti e e sarebbe proprio assente l’acqua calda. La legge ungherese impone che nelle strutture pubbliche la temperatura non superi i 18 gradi, ma nelle carceri ungheresi spesso è ben al di sotto di questa soglia. Nonostante le ripetute richieste da parte dell’Unione Europea e di altre organizzazioni internazionali di migliorare le condizioni carcerarie e il sistema giudiziario, gran parte delle sollecitazioni sembrano oggi ancora senza risposta da parte delle autorità ungheresi.
Promesse infrante e perdita di risorse
Per tutto il 2023, Orbán ha cercato di rassicurare i partner europei con promesse di riforme. Tuttavia, le misure annunciate, come una revisione del sistema giudiziario, si sono rivelate troppo vaghe o incomplete per soddisfare Bruxelles. Orbán aveva garantito che il suo governo avrebbe adottato misure per prevenire abusi e tutelare l’indipendenza delle istituzioni, ma il rapporto annuale della Commissione sullo Stato di diritto ha evidenziato che molti problemi restano irrisolti.
Nonostante la gravità della situazione, la stampa ungherese ha trattato con discrezione la notizia del taglio dei fondi. I media vicini al governo sembrano aver concentrato l’attenzione su altri temi, come il conflitto in Ucraina o presunti successi interni.
Questo silenzio sembra essere una strategia: evitare che l’opinione pubblica percepisca la decisione europea come un fallimento politico del governo.
La perdita di questi fondi potrebbe infatti rappresentare un duro colpo per l’economia ungherese, che dipende in larga parte dalle risorse europee per finanziare progetti infrastrutturali e di sviluppo regionale. Con la presidenza del Consiglio UE, ora nelle mani della Polonia, il margine di manovra di Orbán si restringe ulteriormente, poiché il suo governo rischia di perdere ulteriori risorse se non apporterà cambiamenti sostanziali
Un bivio per l’Europa
Questa vicenda sembra essere più di una semplice disputa economica. Per l’Unione Europea, potrebbe rappresentare una prova della sua capacità di difendere i principi fondanti che la rendono un’unione di valori, oltre che di interessi. La posta in gioco sembra insomma essere alta: cedere su questi temi potrebbe compromettere la credibilità dell’Unione, mentre un approccio troppo rigido rischia di spingere l’Ungheria verso un isolamento ancora maggiore. Dall’altro lato, per Orbán, la questione sembra non riguardare solo i fondi, ma la sopravvivenza stessa del suo modello politico, spesso definito “democrazia illiberale”.
(da Fanpage)

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IL 2025 INIZIA CON TAGLI AI MEDICI E RINUNCE ALLE CURE

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

IL GOVERNO MELONI HA TRADITO LA PROMESSA SULL’ASSUNZIONE DI PERSONALE E SCOPPIA IL CASO DEI TAGLI AI LABORATORI ACCREDITATI

L’importante è la salute, è uno degli auguri tipici di Capodanno. Solo che nel 2025, quella degli italiani sarà sempre meno sotto controllo. Medici e infermieri, infatti, saranno ancora di più sotto pressione per la carenza di ricambi nei reparti, mentre milioni di persone rinunceranno alle visite o, peggio, alle cure perché devono attendere mesi e mesi per le interminabili liste d’attesa. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, nel messaggio di fine anno ha sottolineato il problema: «Vi sono lunghe liste d’attesa per esami che, se tempestivi, possono salvare la vita».
Il decreto varato dal governo nella scorsa estate, durante la campagna elettorale per le Europee, non ha sortito alcun effetto come già preannunciato dalle opposizioni: mancavano gli stanziamenti. Il provvedimento, peraltro, non è mai stato di fatto completato. Mancano cinque dei sei decreti attuativi previsti, tra cui «la definizione del fabbisogno di personale degli enti del Sistema sanitario nazionale» e «le indicazioni tecniche per gestire, da parte del Cup, un nuovo sistema di disdetta delle prenotazioni e ottimizzazione delle prenotazioni».
Il decreto esiste solo sulla carta, mentre il disegno di legge gemello – quello sulle prestazioni sanitarie – è tuttora in esame in commissione affari sociali al Senato, in prima lettura. L’ultima seduta sul tema risale al 18 dicembre. Ma quello delle liste d’attesa è solo uno dei tanti nodi mai sciolti.
Ancora emergenza
Il 2025 inizia con una certezza: per la sanità sarà un anno di emergenza che il governo continua a negare, rifugiandosi nel porto sicuro della propaganda. I numeri confermano che sulla salute la destra ha fatto il minimo indispensabile. Sono spariti dall’orizzonte delle iniziative, per esempio, le assunzioni di 30mila medici, infermieri e tecnici di laboratorio promessi dal ministro della Salute, Orazio Schillaci.
Del resto per rafforzare l’organico occorrono le risorse che non sono state previste nemmeno dalla manovra economica approvata a fine dicembre. Gli infermieri stanno affrontando da tempo la battaglia: «Bisogna investire su stipendi e possibilità di carriera per attrarre giovani che rifuggono questa professione e al tempo stesso per cercare di arginare la fuga degli infermieri in servizio», osserva Andrea Bottega, segretario del Nursind, uno dei sindacati di categoria.
Con Giorgia Meloni a palazzo Chigi l’investimento sulla sanità è inadeguato. La stella polare resta la disamina della Corte dei conti. La spesa sanitaria «cresce a poco meno di 142,9 miliardi nel 2025 e supera i 152 miliardi nel 2027. Una variazione che nel biennio 2026-27 stabilizza la spesa al 6,4 per cento del Prodotto, un livello pari a quello registrato prima della crisi (era il 6,41 per cento nel 2019)», ha sottolineato la magistratura contabile nell’ambito di un’audizione alla Camera.
Dunque nel 2025 la spesa in rapporto al Pil toccherà il punto più basso degli ultimi 15 anni. Insomma, la pandemia non ha insegnato nulla a una maggioranza che ha rimosso le sanzioni ai no-vax.
«Mentre il paese è in galleggiamento, per la sanità non ci sarà nemmeno quello. Si prevede un calo della qualità dei servizi», dice a Domani Marina Sereni, responsabile Sanità del Pd, che mette in evidenza le difficoltà di medici e infermieri: «Il tema del personale sta diventando esplosivo. Parliamo di professionisti che hanno studiato anni e allo stato attuale sono costretti a stare in trincea invece di lavorare al meglio. Questa è una condizione accettabile di fronte a casi estremi, come è stata la pandemia, ma non nella normalità».
Tariffe e cure
C’è poi l’altra faccia del problema ricordato ancora una volta da Mattarella: «Numerose persone rinunciano alle cure e alle medicine perché prive dei mezzi necessari». Il sistema nazionale sta perdendo la propria funzione. Una piaga ricordata peraltro dal Cnel, guidato da Renato Brunetta, tutt’altro che ostile a questo governo.
«Nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie per problemi economici, problemi di offerta o difficoltà a raggiungere i luoghi di erogazione del servizio», ha certificato il Consiglio. Il trend è preoccupante: «Si tratta del 7,6 per cento della popolazione italiana, contro il 7 per cento del 2022».
Il 2025 inizia già con un’incognita: negli ultimi giorni di dicembre, il Tar ha stoppato l’operazione sul nuovo nomenclatore tariffario, voluto dal governo, per gli istituti accreditati. Il 28 gennaio ci sarà la decisione definitiva. L’attesa riguarda soprattutto i piccoli laboratori, che rischiano di essere schiacciati dai tagli. Il tutto a favore dei big player del settore, le multinazionali a cui pure la destra dice di non voler far concessioni.
«Il governo è dalla parte delle piccole imprese ed è contrario ai monopoli che uccidono la concorrenza», ha detto il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, uno dei pesi massimi di Fratelli d’Italia. Di mezzo ci sono possibili ricadute sui servizi garantiti ai cittadini. Ma la disponibilità al dialogo stenta a prendere forma «Sono due anni che ci battiamo anche per la tutela delle strutture pubbliche, perché le strutture accreditate forniscono servizi pubblici», spiega a Domani Mariastella Giorlandino, presidente dell’Unione ambulatori, poliambulatori (Uap).
La questione è solo esplosa di recente, ma si trascina da tempo. «Il governo ha fatto una proposta inaccettabile sul nomenclatore delle tariffe», insiste la leader di Uap, evidenziando che «il taglio è stato fatto sugli esami più routinari, per esempio su quello del Psa libero». Da un lato si fanno le campagne sulla sensibilizzazione per le visite. Dall’altro, nell’anno di grazia 2025, sarà sempre più difficile fare gli esami necessari.
(da editorialedomani.it)

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NEL 2024 NEL MEDITERRANEO SONO MORTE O DISPERSE 2200 PERSONE, TRA QUESTI CI SONO CENTINAIA DI BAMBINI E ADOLESCENTI

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

RAPPORTO “UNICEF”: “UNA PERSONA OGNI CINQUE, DI TUTTE QUELLE CHE MIGRANO ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO, È MINORENNE. LA MAGGIOR PARTE DI LORO FUGGE DA CONFLITTI VIOLENTI E DALLA POVERTÀ” … SMENTITE LE PALLE DEI GOVERNI SOVRANISTI E DEI LORO SERVI

“ll bilancio delle vittime e il numero dei dispersi nel Mediterraneo nel 2024 hanno superato i 2.200, con quasi 1.700 vite perse solo sulla rotta del Mediterraneo centrale. Tra questi ci sono centinaia di bambine, bambini e adolescenti”.
Lo dichiara Regina De Dominicis, direttrice dell’Ufficio regionale dell’Unicef per l’Europa e l’Asia centrale e Coordinatrice speciale per la risposta ai rifugiati e ai migranti in Europa, dopo l’ultima tragedia, avvenuta al largo delle coste di Lampedusa, dove una piccola imbarcazione è affondata e 20 persone sono disperse, tra cui donne e bambini.
“Una persona ogni cinque di tutte quelle che migrano attraverso il Mediterraneo è minorenne. La maggior parte di loro fugge da conflitti violenti e dalla povertà”, ricorda De Dominicis, che a nome dell’Unicef chiede ai governi di utilizzare il Patto sulla migrazione e l’asilo per dare priorità alla salvaguardia di bambine e bambini.
“Ciò include la garanzia di percorsi sicuri e legali per la protezione e il ricongiungimento familiare, nonché operazioni coordinate di ricerca e salvataggio, sbarchi sicuri, accoglienza su base comunitaria e accesso ai servizi di asilo”.
L’Unicef sollecita anche maggiori investimenti nei servizi essenziali per i bambini e le famiglie che arrivano attraverso rotte migratorie pericolose, tra cui il sostegno psicosociale, l’assistenza legale, l’assistenza sanitaria e l’istruzione.”I governi devono affrontare le cause profonde della migrazione e sostenere l’integrazione delle famiglie nelle comunità ospitanti, assicurando che i diritti dei bambini siano protetti in ogni fase del loro viaggio”.
(da agenzie)

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CARO GOVERNO, NON SI STRIZZA L’OCCHIO ALL’EVASIONE FISCALE: PRIMA DI LASCIARE LA GUIDA DELL’AGENZIA DELLE ENTRATE, ERNESTO MARIA RUFFINI INVIA LA SUA RELAZIONE AL MINISTRO GIORGETTI IN CUI ESALTA I RISULTATI RECORD NELLA LOTTA ALL’EVASIONE

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

IL RECUPERO ANNUO DI 30 MILIARDI L’ANNO E’ ORMAI UN DATO CONSOLIDATO (GRAZIE AI SISTEMI INFORMATICI E ALL’USO DELLE BANCHE DATI)… ABBASSARE L’ASTICELLA NON SAREBBE “COLPA” DI INEFFICIENZE DELL’AGENZIA MA DI PRECISE RESPONSABILITÀ POLITICHE…E INFATTI SALVINI TORNA A CHIEDERE UNA NUOVA MAXI ROTTAMAZIONE

Il 31 dicembre Ernesto Maria Ruffini ha lasciato definitivamente l’Agenzia delle entrate. L’ex direttore si era dimesso un paio di settimane prima per frenare la polemica politica sorta in maggioranza: lo si accusava di aspirare al ruolo di federatore di un futuro movimento centrista. Ruffini ha – finora – smentito la discesa in campo e ha chiuso il suo rapporto con il governo di Giorgia Meloni, lamentando il clima ostile del centrodestra che vede la lotta all’evasione come una colpa.
L’ultimo giorno dell’anno Ruffini ha inviato al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti una relazione di 328 pagine con le iniziative e i risultati conseguiti dall’Agenzia delle entrate sotto la sua gestione.
Nelle prime righe dell’introduzione, firmata dallo stesso direttore uscente, salta all’occhio un passaggio che suona come una sorta di avviso nei confronti dell’esecutivo: «L’Agenzia ha raggiunto e consolidato una maggiore capacità di recupero dell’evasione, che supera ormai “strutturalmente” di gran lunga i 20 miliardi l’anno per il solo Erario e i 30 complessivi».
In sostanza, Ruffini considera strutturale un incasso annuo di 30 miliardi di euro dalla lotta all’evasione, abbassare l’asticella potrebbe essere dunque determinato non da inefficienze dell’amministrazione, quanto da precise responsabilità politiche. Leggendo il rapporto si comprende che i 30 miliardi di gettito sono «ormai» il risultato che gli uffici possono portare a casa lavorando a pieno ritmo con gli strumenti a disposizione: l’innovazione tecnologica digitale e l’utilizzo delle banche dati.
Dal 2017 al 2023 i numeri parlano chiaramente: dai 19-20 miliardi annui (tranne il biennio del Covid 2020-21) la lotta all’evasione lo scorso anno ha fruttato 25 miliardi, e anche il 2024 garantirà una cifra record. Se si prende in esame la riscossione coattiva si nota un raddoppio: è passata da 8 miliardi nel 2015 a quasi 15 miliardi nel 2023. I dati della riscossione del 2024, aggiornati a novembre, parlano già di 14,2 miliardi di euro.
La progressiva digitalizzazione dei flussi informativi ha consentito di potenziare la compliance. Ovvero, le lettere con cui i cittadini vengono avvisati di possibili anomalie e che nel 2023 hanno prodotto un gettito di oltre 4 miliardi, a fronte di poco più di un miliardo nel 2015. Quelle stesse lettere mandate alle Partite Iva per aderire al concordato che hanno fatto infuriare i leghisti, definite «minacciose e punitive».
L’infrastruttura digitale realizzata negli anni (in particolare fatturazione elettronica e trasmissione telematica dei corrispettivi) ha contribuito ad una maggiore lealtà fiscale, con una crescita costante dell’adempimento spontaneo relativo ai principali tributi gestiti dall’Agenzia delle entrate: da 414 miliardi nel 2017 a 536 miliardi nel 2023, con un incremento del 30%.
Il successore di Ruffini, designato dal Consiglio dei ministri del 23 dicembre, è Vincenzo Carbone, che diventa direttore dopo essere stato il vice vicario. La sua nomina prevede però solo un anno di incarico, fino a gennaio 2026, termine che ricalca la scadenza naturale di quel che doveva essere il mandato di Ruffini. Il via libera alla legge di bilancio ha già riacceso la battaglia nel centrodestra sul fisco. Il vice premier Matteo Salvini torna a chiedere una nuova maxi rottamazione
(da agenzie)

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AUMENTA L’ESERCITO DEI “PENTITI DEI TATUAGGI”: SOLO IN ITALIA, CI SONO 2 MILIONI DI PERSONE CHE VOGLIONO RIMUOVERE I LORO DISEGNI SULLA PELLE

Gennaio 2nd, 2025 Riccardo Fucile

L’ERRORE PIÙ FREQUENTE È TATUARSI IL NOME DELL’EX, MA ANCHE I DISEGNI “BRUTTI”…LA RIMOZIONE CON IL LASER PUÒ ESSERE COSTOSA E MOLTO DOLOROSA. IL PREZZO SI AGGIRA SUi 200 EURO A SEDUTA PER ALMENO 10 SEDUTE

Il tatuaggio non è più per sempre. Con pazienza, dolore e oltre un migliaio di euro si possono cancellare i disegni che in gioventù erano messaggi sulla pelle e adesso hanno perso fascino, colore e significato. Sono sette milioni gli italiani che hanno ceduto al fascino tribale, al senso di ribellione o semplicemente alla moda, e due milioni quelli che, secondo l’Istituto superiore di Sanità, si sono pentiti e ora bussano alla porta dei chirurghi estetici in cerca di una soluzione.
Che esiste, si chiama laser e con l’evoluzione tecnologica diventa sempre più efficiente e preciso.
Il nome dell’ex è la più classica delle situazioni: dei due milioni di persone che vogliono cancellare il passato, il 61 per cento ha commesso questo errore madornale.
I tatuaggi disegnati male sono la seconda causa di cancellazione (45 per cento): tanti ragazzi hanno cercato di risparmiare sulle spese, senza riflettere su quanto costa rimediare a un lavoro malfatto. Seguono in questa classifica i tattoo fatti con ex amici o parenti che non si frequentano più (41 per cento) e quelli in stile tribale (33) o, al quinto posto, troppo grandi e visibili da diventare imbarazzanti.
Una casistica particolare riguarda le persone che partecipano ai concorsi nelle forze armate. Le regole vietano in genere la presenza di tatuaggi in aree del corpo non coperte dalla divisa.
La rimozione richiede più sedute, fino a dieci e oltre, con pause di due mesi tra ognuna – spiega lo specialista. Il prezzo: dai 200 euro in su per ogni fermata dal chirurgo plastico. In un attimo si arriva a parcelle a sei zeri. L’alternativa in caso di urgenza è la rimozione chirurgica, che però lascia una cicatrice permanente. È sempre meglio rispettare i tempi di attesa e permettere all’organismo di eliminare i frammenti di inchiostro frantumati dal laser.
(da la Stampa)

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