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“GRANDI TITOLI IRREALI ANNUNCIANO GLI AVVENIMENTI; E SPESSO NON HANNO ALCUN RAPPORTO COI FATTI”

FABIO MARTINI ANALIZZA I RAPPORTI TRA MEDIA E POLITICA: “NEL GIORNALISMO ITALIANO SPALLEGGIARE È SEMPRE STATO PIÙ IMPORTANTE CHE INFORMARE. IL SENSAZIONALISMO, LA FAZIOSITÀ E IL CONSOCIATIVISMO DEI MEDIA NON SONO SOLTANTO UNO SPECCHIO DI QUESTA POLITICA, MA CONTRIBUISCONO SPESSO A PEGGIORARLA. SE DA 20 ANNI L’ITALIA È FERMA, NON È SOLTANTO PER RESPONSABILITÀ DI UNA POLITICA DAL PASSO CORTO”

Oramai una “giusta” dose di inciviltà è la regola di ingresso per partecipare alla discussione pubblica, i media sono dentro al gioco e quando restano coinvolti in qualche incidente, anziché riflettere sul proprio ruolo, puntano il dito. La colpa è degli altri, sempre degli altri. Di recente due casi hanno conquistato i riflettori, due casi scambiati per eccezioni, ma che illuminano bene il corto circuito orami permanente tra media e politica.
Le espressioni ambivalenti con le quali Francesca Albanese ha definito l’assalto alla redazione de La Stampa hanno provocato un gran trambusto in tanta parte del sistema politico-mediatico, ma si tratta della stessa persona elevata a personaggio grazie alla frequente e ribadita ospitalità nei talk show e nei principali quotidiani. Secondo una procedura inconfessabile: i media contribuiscono all’ascesa di un personaggio e spesso ne favoriscono la caduta. Nella logica del “consumismo” usa e getta. Ma nel frattempo l’elevato di turno ha già messo da parte il suo tesoretto di influenza e di popolarità.
Qualche settimana prima, il Procuratore di Napoli Nicola Gratteri era incorso in un infortunio poco professionale,
attribuendo a Giovanni Falcone una intervista del tutto inventata, ma in questo caso il corto circuito era stato doppio: a suggerire la citazione era stato proprio un giornalista amico e in diretta tv nessun giornalista ha sollevato dubbi sull’autenticità del contributo di Falcone, la cui opinione sulla separazione delle carriere era nota da tempo: da 34 anni.
Due corti circuiti che – come sempre – sono stati derubricati a casi bizzarri, tenendo distanti i riflettori da una questione rimossa, oramai centrale: il sensazionalismo, la faziosità e il consociativismo dei media non sono soltanto uno specchio di questa politica, ma contribuiscono spesso a peggiorarla.
Già da tempo i leader politici e i personaggi pubblici giocano su emozioni di breve durata. Sull’invettiva permanente. Sulle auto-celebrazioni. E soprattutto su un campionario di pronta beva: le battute confezionate ad uso dei Tg e dei Social oramai rappresentano il know how più “pensato” dai leader.
E mentre le leadership politiche si propongono in questo modo così emozionale, la narrazione si adegua: fa da specchio, alimenta un consumo compulsivo di queste ininterrotte scosse emotive. Gran parte dei media preferiscono togliere il filtro. Prendono per “buone” le battute più effimere o ripetitive. Rinunciano a contestualizzare i posizionamenti e i veloci riposizionamenti. Raccontano l’imbizzarrirsi della politica con un atteggiamento agnostico, come se la realtà politica fosse uno “Strano ma vero” del quale prendere atto. Tutto è buono per essere consumato.
In prima linea ci sono i talk show. Non tutti, perché diversi
programmi tengono le distanze, non puntano ad emozionare ma a capire. Altri, la maggior parte, fanno massa: massa acritica. In Italia la presenza di questo genere televisivo è estesa come in nessun’ altra democrazia: da noi è possibile svegliarsi, assistendo a dibattiti di politica e addormentarsi a tarda notte con la stessa “musica”.
In linea teorica chi guida questi programmi, dovrebbe aiutare a capire come stanno le cose sui diversi problemi. Intrecciando il dibattito con quel tanto di “verità” possibile e condivisa, che è tipica di un inquadramento giornalistico ben fatto. Ma le regole che presiedono al format-talk rispondono ad un primo imperativo, lo share ad ogni costo.
E per fare ascolti la via migliore è mettere in scena personaggi, non importa se competenti, ma capaci di bucare lo schermo, fare battute e polemiche. In altre parole si scommette su cast eclettici ed emozionanti, chiamati ad eccitare segmenti diversi di opinione pubblica: di solito lo share tende ad alzarsi con la somma di pubblici diversi.
Qualcuno accusa: nei talk show ci sono troppi incompetenti, troppi urlatori, troppi “prezzolati”. Tipologie diverse: in effetti gli incompetenti – dal comico al giornalista onnisciente – sono chiamati a disquisire di argomenti che ignorano e questa rappresenta una originalità tutta italiana. Francamente penosa. Ma soffermarsi sui “mostri”, rischia di distrarre dal vero deficit deontologico: per chi intenda proporre una buona informazione, il problema principale non dovrebbe essere quello di soffocare le posizioni radicali, ma semmai far in modo che tutti gli ospiti
siano costretti a misurarsi con le conoscenze consolidate su un determinato argomento.
E finalmente siamo al punto: quel che manca in diversi “talk” è un solido filo narrativo. E proprio l’assenza di questa tessitura professionale è il varco attraverso il quale si consente ad una parte dei politici e dei cosiddetti opinionisti di proporre sentenze oracolari: io lo dico, quindi è vero. Ma se su qualsiasi questione ci si limita a dare la parola agli opposti “pareri”, a quel punto è ineluttabile che si apra una gara puramente emozionale: la caccia all’applauso. Tra l’altro una parte dei giornalisti che partecipano ai “talk” sono ingaggiati per interpretare il ruolo degli ultras nello spettacolo che prevede politici&giornalisti di destra contro politici&giornalisti di sinistra.
Una complicità appesantita dall’altra serissima ipoteca che accompagna alcuni “talk” di punta: la conclamata partigianeria di alcuni conduttori che artatamente lasciano scivolare il filo narrativo tutto da una parte.
Anche sui giornali ci sono cattivi esempi che incoraggiano la “mala politica”. Certo, c’è la tendenza di alcuni quotidiani collocati sulle “ali” a dettare la linea ai leader. A surrogarli. Ma il male più diffuso è il sensazionalismo. Vent’ anni fa Piero Citati scrisse: “Grandi titoli irreali annunciano gli avvenimenti; e spesso non hanno alcun rapporto coi fatti”. Nel frattempo sono sopraggiunti i Social e la tv h24 e, per tenere il passo, i quotidiani tendono spesso a leggere gli eventi politici nella chiave agonistico-sportiva: l’”horse race”, la corsa dei cavalli. Si alimentano dualismi immaginari e anche contese minori sono
lette nella logica “chi vince e chi perde” e questo finisce per eccitare il protagonismo vanesio dei leader.
Chi scrive, ha avuto la fortuna di iniziare a vivere il rapporto tra media e politica da una postazione privilegiata – La Stampa dei primi anni Novanta – un giornale dotato di virtù anomale: la curiosità senza pregiudizi e il rigore sulle fonti. Atteggiamenti che nella tradizione italiana sono sempre stati scambiati, diciamo la verità, per ingenuità. Nel giornalismo italiano è sempre prevalso l’affiancamento a tutti i poteri, di governo o di opposizione, economici o culturali. Spalleggiare è sempre stato più importante che informare.
Ma la massa acritica ed emotiva avanza e se si pensa che sia arrivato il tempo di una riflessione critica e autocritica, nessuno degli addetti ai lavori dovrebbe tirarsi fuori. Di certo senza una scossa il percorso è tracciato. La credibilità dei giornalisti continuerà a calare, mentre quelli che svolgono bene il proprio mestiere, saranno sempre più stretti tra politici invadenti ed elettori viziati alla faziosità e dunque insofferenti all’indipendenza. Gli editori consapevoli del proprio ruolo oramai da anni si stanno diradando. I leader politici producono raffiche crescenti di post, video, battute effimere ad effetto, fissando una rincorsa poco virtuosa.
La politica mutua la superficialità e il sensazionalismo dei media e, a sua volta, li alimenta. Un’osmosi nella quale è difficile ogni volta capire chi abbia “cominciato per primo” ma certamente la qualità complessiva del dibattito pubblico si sfibra. Se da 20 anni l’Italia è ferma, non è soltanto per responsabilità di una politica
dal passo corto: ad essersi ingolfati sono entrambi i motori che formano una classe dirigente degna di questo nome.
(da La Stampa)

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