ASPETTANDO LA VOLATA DI DRAGHI AL QUIRINALE
UNA CORSA IMPAZZITA
Il Quirinale è come il giro d’Italia, e siamo ancora lontani dalla tappa finale.
È per questo che chi si rivolge a un esperto di ciclismo, e di Draghi, come Giancarlo Giorgetti, si sente ripetere: “Chi vince non è mai chi tira la voltata… ma chi per ora sta dentro al gruppo”. E in quel “per ora” c’è il senso dell’attesa per quel che, prima o poi, farà o dirà Mario Draghi, che dalla corsa, come evidente, non si è sottratto né quando è stato tirato in causa direttamente né quando lo hanno sottratto gli altri, sia i suoi umorali partner di governo sia quagli ambienti, come il Financial Times, cui pure è sensibile.
E se, già in pieno governo gialloverde, la Cassandra leghista ne previde l’ineluttabile arrivo a palazzo Chigi sei mesi prima, per logica e chissà se per informazioni a disposizione, stavolta è convinta (la Cassandra) che Draghi darà un colpo sul pedale una volta approvata manovra vissuta da molti, nei Palazzi, come l’ultimo vero atto politico di questo governo. E a quel punto la corsa entrerà nel vivo.
Perché c’è poco da fare: in un sistema politico impazzito, il premier, in questo momento, può essere l’unico king maker di se stesso al Colle, prospettando un patto politico ai partiti, o l’unico king maker di un altro inquilino, confermando per sé le ragioni che lo hanno portato a palazzo Chigi.
Il resto rientra nel novero delle ipotesi di contorno, che da sempre accompagnano ogni sport nazionale perché, come va dicendo Dario Franceschini, “normalmente c’è il dibattito politico, ora che non c’è il dibattito politico c’è questo divertimento collettivo del Quirinale, iniziato già da due mesi”.
C’è però che il divertimento collettivo degli effetti li ha già prodotti, quantomeno a livello di clima, perché, in poche settimane si è passati da un coro verso il De Gaulle italiano a un coro di segno contrario, con tutta la maggioranza che sembra volere il premier lì dove è, segno di corridori non in grado di gestire una corsa ordinata.
E nel frattempo la gara è iniziata e qualcuno già ha indossato la maglia rosa, come Silvio Berlusconi, il cui telefono è tornato ad essere il terminale di chiamate da pare di alleati e amici che, fino a qualche tempo fa, avevano remore anche a farsi fotografare con lui.
Si sa, che la corte è piena di malelingue. E in parecchi lo hanno messo in guardia dalla sincerità della Meloni che “sulla manovra ha fatto l’accordo con Franco, sul Quirinale con Draghi, sulle elezioni con Letta”.
Però, sarà perché è tornato a sentire Ignazio La Russa un giorno sì un alto no, sarà perché è tornato ad Atreju come ai vecchi tempi, ma il Cavaliere è convinto che alla fine il sostegno lo avrà. Dall’una (la Meloni) e dall’altro (Salvini), cui ha promesso (a entrambi) l’incarico, se il centrodestra vincerà le elezioni, di formare un governo. Anche se l’altro l’ha messo in guardia dall’una ripetendogli più volte, ciò che ha spiegato in modo ancor più velenoso di fronte al tiramisù di Natale con i suoi parlamentari: “Lei giocherà ad accoltellare qualunque candidato proponiamo noi, non voterà mai Berlusconi”.
È così convinto, il Cavaliere, che pure Gianni Letta, ha sentito su di sé l’ombra del sospetto, dovuta ad un iper-attivismo relazionale perché non c’è evento che non lo veda in prima fila, dal salone del mobile alla giornata nazionale sulla montagna. E, nel corso di una riunione, ha voluto chiarire coram populo: “Sia chiaro, io non sono interessato, ma lavoro per Silvio Berlusconi”.
E se è vero che, a corsa iniziata, non si può ragionare come se si stesse ai nastri di partenza, di uguale alla prima tappa c’è il principale elemento di forza di Draghi.
Che i frequentatori di palazzo Chigi riassumono in una semplice domanda: “Può esistere una maggioranza sul Quirinale diversa dalla maggioranza di governo senza questo abbia conseguenze sul governo?”.
Domanda che ha come risposta un “no”, e l’indicazione su chi sia l’unico a poterla tenere assieme. Però il tempo e le tappe logorano anche i migliori. E c’è un motivo se qualcuno, come il professor Giavazzi ha smesso di fare, con qualche amico, le battute che si concedeva qualche tempo fa quando, se gli si chiedeva qualcosa per febbraio, rispondeva che la questione avrebbe riguardato un altro governo.
Da un po’, anche a palazzo Chigi, si respira maggiore prudenza. Perché, dopo che sono filtrati i nomi di Franco, Colao e Cartabia per un governo Draghi senza Draghi che assicuri la legislatura col premier al Colle, la risposta dei partiti, sincera o tattica, è stata “resta lì”.
E si capisce perché, almeno formalmente nessuno a destra per ora vuole formalmente rompere con Berlusconi, se proprio si è fissato a fare un giro al quarto scrutinio: finché c’è sullo sfondo l’ipotesi che si possa andare al voto, è fondamentale tenere una parvenza di coalizione, quella sì “un campo largo”.
A palazzo Chigi dunque tengono l’assunto di fondo, ma la politica pedala, anche se in direzione scomposta. E questo fa sì che Draghi, almeno al momento, non è più la prima opzione, ma l’opzione che torna buona bruciate le altre. E deve calibrare bene il momento della volata, per non finire risucchiato dal gruppo e dal gorgo. Anche a costo di accelerare per ultimo, non avendolo fatto per primo.
(da Huffingtonpost)
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