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LIBIA, IL PRIMO MINISTRO SCARICA AL.MASRI:”E’ UN CRIMINALE, MAI CHIESTO L’ESTRADIZIONE ALL’ITALIA”

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

E COSI’ SMENTISCE LA VERSIONE DEL GOVERNO MELONI ALLA CORTE PENALE INTERNAZIONALE…. ORA CI MANCA CHE PARLI IL TORTURATORE E SIAMO A POSTO, LA FIGURA DEGLI INUTILE SERVI SAREBBE CERTIFICATA

Sono giorni di fuoco a Tripoli da quando sono iniziati gli scontri armati tra le milizie contrapposte che stanno creando nuovi equilibri nel paese. Tutto è iniziato con l’esecuzione, in stile mafioso, di Abdel Ghani al-Kikli, meglio noto
come Gheniwa, capo di uno dei gruppi armati più potenti di Tripoli, la Stability Support Authority (Ssa). Ieri il primo ministro Abdul Hamid Mohammed Dabaiba ha annunciato di voler consegnare alla Corte Penale Internazionale Najeem Almasri, il capo della polizia giudiziaria libica, gestore delle prigioni lager dove, come confermano i rapporti degli organi di giustizia internazionale, vengono rinchiusi i migranti che arrivano da tutti paesi dell’Africa per partire per l’Europa, e vengono sottoposti a torture ed estorsioni. Almasri è ricercato dalla CPI per crimini contro l’umanità, e dopo il suo arresto in Italia nel gennaio scorso, fu rispedito in Libia con un volo di Stato dal nostro governo, che non lo consegnò alla Corte dell’Aja. Dabaiba con un video pubblico ieri, ha scaricato Almasri, definendolo un pericoloso criminale ed ha detto di voler rendere pubblico il rapporto sui suoi crimini. Proprio due giorni fa, nel bel mezzo degli scontri armati che stanno attraversando Tripoli, il governo libico aveva annunciato il riconoscimento della Corte Penale Internazionale, che fino ad oggi aveva ignorato.
“Ho ricevuto pressioni per il suo rilascio, mai chiesto estradizione all’Italia”
Nel video, reso pubblico in Europa dal collettivo Refugees in Libya, che denuncia da sempre i crimini dei miliziani libici, che negli anni hanno assunto ruoli di potere enormi in Libia, il primo ministro Dabaiba ha parlato dei crimini di Almasri. “Najeem Almasri è ricercato dalla Corte Penale Internazionale, non ho chiesto la sua estradizione dall’Italia – ha detto Dabaiba – siamo rimasti
sorpresi dal rapporto della CPI sui suoi crimini, avrebbe stuprato una ragazza di 14 anni, come possiamo fidarci di una persona del genere? Pubblicherò il rapporto che ho ricevuto su di lui e sui crimini che ha commesso”.
Oltre a scaricare di fatto quello che è stato fino a pochi giorni fa il capo della polizia giudiziaria libica, il premier ha anche smentito quella che è stata la memoria presentata dal governo italiano alla CPI rispetto alla mancata consegna di Almasri, quando era stato fermato in Italia nel gennaio scorso.
Lo scorso 6 maggio infatti, nel documento inviato da Roma a l’Aja, c’era scritto che l’Italia aveva dato precedenza alla richiesta di estradizione avanzata dalla Libia, per questo lo aveva rispedito a Tripoli. Gli eventi degli ultimi giorni si susseguono ad un ritmo incessante a testimonianza di una operazione articolata, probabilmente pianificata da qualche tempo. Mentre le milizie armate della Brigata 444, provenienti da Misurata, armati con equipaggiamento turco ed addestrati da contractor italiani, sono entrati in città per fare “pulizia”, il governo di Dabaiba si è impegnato a riconoscere la giurisdizione della CPI fino al 2027 per i crimini commessi in Libia dal 2011. L’impegno è avvenuto il 12 maggio, lo stesso giorno dell’assassinio di Al Khikli. Dopo la morte del potente boss, è scattata la caccia ad Almasri. La brigata 444 di Misurata ha iniziato a scontrarsi nelle strade di Tripoli con la Rada, la milizia di Almasri. Due giorni fa il procuratore della CPI, Kharim Khan ha chiesto alla Libia di consegnare Almasri dando seguito al mandato di cattura internazionale che pende nei suoi
confronti. Il video messaggio di Dabaiba arriva dunque in risposta alla CPI. Alcune delle cose dette dal primo ministro libico faranno sicuramente discutere. Innanzitutto perché Dabaiba ha detto di non conoscere quello che fino a pochi giorni fa era il capo della polizia giudiziaria del paese che governa. “Non lo conosco, non l’ho mai incontrato prima” ha detto il primo ministro libico. Eppure qualcuno deve avercelo messo a capo delle prigioni lager dove vengono torturati i migranti. Ed ha aggiunto: “Siamo sorpresi da chi lo difende. Ho avuto pressioni da più parti ed anche dall’ambasciata italiana per il suo rilascio”.
“La grande pulizia”: eliminare alcuni boss e unificare il paese
L’impressione è che nell’ultima settimana in Libia sia andato in scena un piano ben congegnato e che gode del supporto internazionale. La brigata 444 di Misurata, è fedele a Dabaiba ed ha lanciato la sfida alla Rada di Almasri, che, come un vero e proprio clan mafioso, gestiva a piacimento gli affari interni. Il premier ha annunciato di aver preso il controllo delle prigioni ed aver sciolto la Rada, di fatto ha quindi dichiarato guerra ad Almasri, che nel frattempo viene braccato dalle milizie di Misurata. Prima ancora, l’esecuzione di Al Khikli ha rappresentato l’eliminazione di un altro boss della milizia di grande potere. L’estate scorsa c’era stato l’assassinio di Abd al-Rahman Salem Ibrahim al-Milad, meglio noto come “Bija”, il capo della cosiddetta Guardia costiera libica, addestrata a finanziata dal nostro paese. Ma è stato il caso Almasri e la sua gestione da parte del governo Meloni che ha acceso i riflettori internazionali
sulla situazione libica. Di sicuro la vicenda Almasri ha imbarazzato il nostro paese ma anche la diplomazia europea, già alle prese con l’ottemperanza dei mandati di cattura contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Lo stesso premier libico dalla vicenda Almasri ne è uscito con le ossa rotte politicamente, in quanto considerato una figura molto debole nelle mani dei miliziani accusati di crimini contro l’umanità. Ma subito il governo Meloni ha dovuto fare i conti con la presenza di Al Khikli a Roma, dove si è fatto curare in un ospedale della capitale. A questi eventi, sono poi seguiti due appuntamenti internazionali in cui è possibile che l’Italia abbia affrontato l’argomento con diversi partner. Il vertice Med 5 di Napoli dello scorso 11 aprile, con i ministri degli esteri dei paesi del Mediterraneo, in cui capo del Viminale, Matteo Piantedosi, ha incontrato l’omologo libico Mustafà Trabelsi. E soprattutto il vertice Italia – Turchia, tra Giorgia Meloni e Recyyp Erdogan di due settimane fa. Il piano sembra aver preso di mira i principali boss delle milizie, con lo scopo però di unificare le due parti in cui è divisa la Libia, quella della Tripolitania e quella della Cirenaica nelle mani del maresciallo Haftar. Proprio il figlio di Haftar, insieme ad alcuni rappresentanti di Dabaiba sono stati ricevuti a Washington nelle settimane scorse. Un piano quindi che avrebbe messo insieme interessi internazionali diversi, finalizzati ad un nuovo equilibrio di potere in Libia. E così quelli che fino a due settimane fa erano considerati, dal governo di Tripoli, rispettabili funzionari pubblici, come Almasri e A
Khikli, ora sono diventati pericolosi criminali. Il primo, contro cui la Procura di Tripoli ha emesso anche un mandato di cattura, potrebbe essere consegnato alla CPI in caso di cattura, il secondo invece è stato fisicamente eliminato.
Cambiare tutto per non cambiare nulla: Hamza il nuovo uomo forte
Come ha denunciato in questi giorni Refugees in Libya, gli scontri armati tra la Brigata 444 di Misurata e la Rada hanno lasciato per le strade di Tripoli una lunga scia di sangue. Molti i migranti che ne hanno fatto le spese, trovandosi in mezzo agli scontri, venendo colpiti come vittime collaterali. Quello che sta accadendo a Tripoli però, non dà proprio l’idea di una svolta democratica nel paese che si trova di fronte alle coste italiane del Mediterraneo. Eliminati i boss di una milizia, ora sono i capi della Brigate 444 di Misurata a dettare legge nelle strade della capitale. Il nuovo boss sembra essere Mahmoud Hamza, direttore dell’intelligence militare e comandante della Brigata 444. Anche lui ha combattuto contro Gheddafi quando è stato deposto l’ex dittatore, ma la sua milizia è considerata una elite dal punto di vista della formazione militare. Hamza è stato spesso negli Usa ed in Europa, e tutto fa pensare che il rafforzato governo di Dabaiba possa affidare a lui il ruolo di “uomo forte” per garantire la sicurezza a Tripoli. L’eliminazione dei boss delle milizie dunque sarebbe finalizzato ad una sostituzione di fatto, e non alla fine di un modello di governance del tutto oscuro che vige nel paese dalla caduta di Gheddafi. La prima uscita internazionale del governo libico, dopo quello che sta accadendo in
questi giorni, sarà nuovamente in Italia, al vertice NATO per la sicurezza del Mediterraneo che si terrà a Napoli il prossimo 26 maggio.

(da Fanpage)

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SPIAZZATA DALLA CLAMOROSA ESCLUSIONE AL VERTICE DI TIRANA, MELONI PROVA A TORNARE IN PARTITA PROSTRANDOSI A VANCE E TRUMP

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

PUNTA SU UN INCONTRO CON VANCE E VON DER LEYEN OGGI PER UNA FOTO DA SPENDERSI SUI MEDIA

Visto che con il blocco di testa dell’Ue i rapporti restano complicati — il gelo con Macron è plateale, gli scambi con Merz sono cordiali, ma il cancelliere, si è visto ieri, non si sfilerà dall’abbraccio franco-tedesco — la premier si affida allora al canale con l’altro lato dell’Atlantico.
I contatti con l’amministrazione repubblicana sono febbrili, in queste ore. Il primo obiettivo a cui lavora Palazzo Chigi è considerato già alla portata, dall’entourage di Meloni: il vice- presidente Usa, JD Vance, oggi è a Roma per l’intronizzazione di papa Leone XIV. La presidente del consiglio lo incontrerà. Fonti governative di primo piano considerano estremamente avanzate le trattative per coinvolgere nel summit la presidente della commissione europea, Ursula von der Leyen.
La proposta a cui lavora l’Italia è un incontro vero, non un rendezvous estemporaneo, magari in piedi, nella basilica di San Pietro. L’idea è ospitarlo a Chigi, dove potrebbe essere ricevuto anche Volodymyr Zelensky. O a villa Taverna, nell’ambasciata statunitense.
Comunque in una sede istituzionale, anche per dare l’idea di un vertice con tutti i crismi, non un rapido scambio a margine della cerimonia papale.
La foto del terzetto sarebbe un primo tentativo di rammendare i danni politici e
d’immagine causati dallo scatto in Albania, quel tavolone con Macron, Starmer, Tusk e Merz al telefono con Trump, mentre la premier era in una stanza affianco.
Il secondo step per Meloni riguarda direttamente The Donald. Il tycoon ieri ha annunciato che domani chiamerà Putin, Zelensky e «alcuni paesi della Nato». Ecco, il governo punta ad essere nella lista. Non sono ancora arrivate conferme da Washington, ma l’operazione, con tutte le cautele, è in corso sottotraccia.
Per la premier, molto più della foto col vice-Donald oggi, sarebbe una chance per mostrarsi in pista, nel novero dei leader con cui il capo della Casa Bianca si consulta sui dossier più spinosi, come l’Ucraina.
I margini di manovra in Ue restano invece angusti. Lo strappo con Macron, certificato ieri mattina con parole nettissime dal braccio destro della premier, Giovanbattista Fazzolari, sembra quasi impossibile da ricomporre. Con Friedrich Merz, ricevuto ieri con tutti gli onori a Chigi, e poi a cena, Meloni ha una consuetudine di rapporti, il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, può giocare di sponda con la Cdu, gemellata a FI nei popolari.
Ma il tedesco non ha intenzione di stravolgere gli equilibri consolidati. Resta saldamente al fianco di Parigi. Pure nella sede del nostro governo ha speso sì elogi per la premier, molti complimenti per la visita a Washington, l’Italia deve restare «protagonista» e va coinvolta, etc. Ma anche in ambienti di governo, quasi nessuno ormai scommette su uno sganciamento del tedesco da Macron
Merz gli ha anche dato ragione sul fatto che non si stia discutendo di truppe in Ucraina, cioè l’opposto di quanto sosteneva a Tirana Meloni. Poi ha preso le distanze dalla lettera che prepara l’Italia sulla corte di giustizia europea, ha lodato Draghi e Letta, ha parlato delle distanze con Roma sul Mercosur.
(da Repubblica)

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ALMENO 80 GIORNALISTI SONO RIUSCITI A RADDOPPIARE LE LORO PENSIONI, SPOSTANDO I CONTRIBUTI DALL’INPS ALL’INPGI, L’ISTITUTO PREVIDENZIALE DI CATEGORIA CHE ORMAI GESTISCE SOLO GLI ACCANTONAMENTI DEI COLLABORATORI NON ASSUNTI

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

HANNO SFRUTTATO UNA NORMA DEL 1990, CHE RIVALUTA DEL 4,5% ANNUO I CONTRIBUTI VERSATI … “A BENEFICIARNE SONO PARECCHI PEZZI DA 90 DELLE MAGGIORI TESTATE ITALIANE, TRA I QUALI ALCUNI DIRETTORI, VICEDIRETTORI, CAPOREDATTORI, CORRISPONDENTI E INVIATI. E A PAGARE SONO I CONTI DELL’INPS, ALLA FACCIA DI COCOCO E COLLABORATORI DELLE LORO STESSE TESTATE, LE CUI FUTURE PENSIONI SARANNO DA FAME”

Per anni hanno implorato la politica e lo Stato di salvare le loro pensioni, visto che i conti del “vecchio” Inpgi, l’istituto previdenziale di categoria, erano stati scassati da decenni di prepensionamenti facili per far felici i padroni dei giornali. Alla fine il salvataggio pubblico, ma solo di quelli assunti in pianta stabile, è scattato dal 1º luglio 2022.
Ora invece, zitti zitti, decine di giornalisti (almeno 80 nel solo 2024) hanno fatto marcia indietro: hanno riportato le loro pensioni dall’Inps a ciò che resta dell’Inpgi che ora gestisce solo gli accantonamenti dei collaboratori non assunti.
Nel trasloco però, grazie a una norma del 1990, hanno moltiplicato anche per quasi due volte e mezza le loro pensioni: a pagare sono i conti dell’Inps, alla faccia di cococo e collaboratori delle loro stesse testate, le cui future pensioni saranno spesso da vera fame.
A beneficiarne sono parecchi pezzi da 90 delle maggiori testate italiane, tra le quali Corriere, Repubblica, Il Sole 24 Ore, tra i quali alcuni direttori, vicedirettori, caporedattori, corrispondenti e inviati. Oltre ovviamente agli editori i quali, non sazi degli aiuti pubblici per centinaia di milioni l’anno, hanno incentivato il giochetto
Tutto legale, certo. Operazione ammessa anche per le altre casse previdenziali,
certo. Ma la storia emerge dal bilancio consuntivo 2024 dell’Inpgi. A pagina 28, il rendiconto riporta che “i contributi per le ricongiunzioni” (in ingresso nel patrimonio della cassa) “scelte da 80 giornalisti” sono stati “pari a 71,3 milioni, in forte aumento di 68,4 milioni” rispetto al 2023.
Nel 2023 i contributi da ricongiunzione erano solo 2,92 milioni. In appena 12 mesi, insomma, le ricongiunzioni sono aumentate di 23 volte. Per quale motivo questi giornalisti avrebbero lasciato la “sicurezza” – così lungamente reclamata – della pensione pubblica per tornare in una piccola cassa previdenziale
Il trucco si chiama rivalutazione del montante contributivo: nel passaggio, i soldi accantonati per la pensione si moltiplicano. Il meccanismo sfrutta la legge 45 del 1990 (governo Andreotti) che facilita per tutti i professionisti italiani la ricongiunzione delle posizioni previdenziali tra casse diverse, cioè la confluenza di tutti i contributi in un solo ente.
La ricongiunzione porta a una enorme rivalutazione del montante contributivo (l’accantonamento previdenziale versato): la legge la stabilisce nel 4,5% fisso annuo. Il meccanismo premia chi ha avuto redditi alti e lunghi periodi con il sistema retributivo, che per il “vecchio” Inpgi è rimasto in vigore sino al 2017. Il tutto senza oneri: l’Inpgi non fa pagare nulla sulla ricongiunzione in termini di montante.
A differenza del “vecchio” Inpgi, le regole per la pensione del “nuovo” Inpgi (rimasto attivo dopo la confluenza della parte maggioritaria nell’Inps scattata
dal primo luglio 2022) prevedono che l’assegno di pensione scatti a 63 anni di età con almeno 20 anni di contribuzione oppure a qualsiasi età se si raggiungono i 40 anni di contribuzione.
Cos’hanno escogitato dunque nel 2024 gli 80 giornalisti che avevano una sessantina d’anni, tra i quali ex vertici dell’Inpgi e alti esponenti del sindacato di categoria, la Fnsi? Invece di accettare i prepensionamenti che hanno propiziato per centinaia di loro colleghi, con il relativo taglio degli assegni, si sono dimessi dai rispettivi giornali dopo aver contrattato scivoli e laute buonuscite almeno fino ai 63 anni di età, comprese collaborazioni retribuite.
In base alla legge, in quanto collaboratori hanno aperto nuove posizioni contributive all’Inpgi. Poi, essendo iscritti anche all’Inps, hanno fatto domanda di ricongiunzione di tutta la loro posizione previdenziale maturata nei decenni trasportandola indietro dall’Inps all’Inpgi e incassando gratis, così, la rivalutazione del montante al 4,5% annuo fisso composto.
Quando andranno in pensione, a 63 anni (4 anni in meno rispetto ai requisiti Inps) o anche prima, otterranno assegni molto più pesanti: chi ha versato per 40 anni, secondo alcune simulazioni (ma i calcoli variano da caso a caso), potrà ottenere un montante rivalutato del 130% rispetto a quello che aveva all’Inps, chi ha il minimo di 20 anni di contributi otterrà “solo” il 46,7% in più.
Il tutto a scapito dell’ente di Stato, che ha dovuto girare all’Inpgi montanti individuali ben maggiori di quelli ricevuti nel 2022. In attesa che qualcuno
chiuda la stalla, i buoi intanto continuano a scappare.
(da Il Fatto Quotidiano)

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IL PASSAGGIO RIPRESO DA LEONE XIII, PAPA DELLA “RERUM NOVARUM” E FONDATORE DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA: “SE LA CARITÀ PREVALESSE NEL MONDO, NON CESSEREBBE SUBITO OGNI DISSIDIO E NON TORNEREBBE FORSE LA PACE?”

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

IL TESTO INTEGRALE DELL’OMELIA DI PAPA LEONE XIV

Cari fratelli Cardinali, Fratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, distinte Autorità e Membri del Corpo Diplomatico, fratelli e sorelle! Saluto tutti voi con il cuore colmo di gratitudine, all’inizio del ministero che mi è stato affidato
Scriveva Sant’Agostino: «Ci hai fatti per te, [Signore,] e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te» (Le Confessioni, 1, 1.1). In questi ultimi giorni, abbiamo vissuto un tempo particolarmente intenso. La morte di Papa Francesco ha riempito di tristezza il nostro cuore e, in quelle ore difficili, ci siamo sentiti come quelle folle di cui il Vangelo dice che erano «come pecore senza pastore» (Mt 9,36).
Proprio nel giorno di Pasqua, però, abbiamo ricevuto la sua ultima benedizione e, nella luce della Risurrezione, abbiamo affrontato questo momento nella certezza che il Signore non abbandona mai il suo popolo, lo raduna quando è disperso e «lo custodisce come un pastore il suo gregge» (Ger 31,10).
In questo spirito di fede, il Collegio dei Cardinali si è riunito per il Conclave; arrivando da storie e strade diverse, abbiamo posto nelle mani di Dio il desiderio di eleggere il nuovo successore di Pietro, il Vescovo di Roma, un pastore capace di custodire il ricco patrimonio della fede cristiana e, al contempo, di gettare lo sguardo lontano, per andare incontro alle domande, alle inquietudini e alle sfide di oggi.
Accompagnati dalla vostra preghiera, abbiamo avvertito l’opera dello Spirito Santo, che ha saputo accordare i diversi strumenti musicali, facendo vibrare le corde del nostro cuore in un’unica melodia. Sono stato scelto senza alcun merito e, con timore e tremore, vengo a voi come un fratello che vuole farsi servo della vostra fede e della vostra gioia, camminando con voi sulla via
dell’amore di Dio, che ci vuole tutti uniti in un’unica famiglia. Amore e unità: queste sono le due dimensioni della missione affidata a Pietro da Gesù.
Ce lo narra il brano del Vangelo, che ci conduce sul lago di Tiberiade, lo stesso dove Gesù aveva iniziato la missione ricevuta dal Padre: “pescare” l’umanità per salvarla dalle acque del male e della morte.
Passando sulla riva di quel lago, aveva chiamato Pietro e gli altri primi discepoli a essere come Lui “pescatori di uomini”; e ora, dopo la risurrezione, tocca proprio a loro portare avanti questa missione, gettare sempre e nuovamente la rete per immergere nelle acque del mondo la speranza del Vangelo, navigare nel mare della vita perché tutti possano ritrovarsi nell’abbraccio di Dio.
Come può Pietro portare avanti questo compito? Il Vangelo ci dice che è possibile solo perché ha sperimentato nella propria vita l’amore infinito e incondizionato di Dio, anche nell’ora del fallimento e del rinnegamento.
Per questo, quando è Gesù a rivolgersi a Pietro, il Vangelo usa il verbo greco agapao, che si riferisce all’amore che Dio ha per noi, al suo offrirsi senza riserve e senza calcoli, diverso da quello usato per la risposta di Pietro, che invece descrive l’amore di amicizia, che ci scambiamo tra di noi.Quando Gesù chiede a Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?» (Gv 21,16), si riferisce dunque all’amore del Padre.
È come se Gesù gli dicesse: solo se hai conosciuto e sperimentato questo amore
di Dio, che non viene mai meno, potrai pascere i miei agnelli; solo nell’amore di Dio P adre potrai amare i tuoi fratelli con un “di più”, cioè offrendo la vita per i tuoi fratelli.
A Pietro, dunque, è affidato il compito di “amare di più” e di donare la sua vita per il gregge. Il ministero di Pietro è contrassegnato proprio da questo amore oblativo, perché la Chiesa di Roma presiede nella carità e la sua vera autorità è la carità di Cristo.
Non si tratta mai di catturare gli altri con la sopraffazione, con la propaganda religiosa o con i mezzi del potere, ma si tratta sempre e solo di amare come ha fatto Gesù. Lui – afferma lo stesso Apostolo Pietro – «è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo» (At 4,11).
E se la pietra è Cristo, Pietro deve pascere il gregge senza cedere mai alla tentazione di essere un condottiero solitario o un capo posto al di sopra degli altri, facendosi padrone delle persone a lui affidate (cfr 1Pt 5,3); al contrario, a lui è richiesto di servire la fede dei fratelli, camminando insieme a loro: tutti, infatti, siamo costituiti «pietre vive» (1Pt 2,5), chiamati col nostro Battesimo a costruire l’edificio di Dio nella comunione fraterna, nell’armonia dello Spirito, nella convivenza delle diversità.
Come afferma Sant’Agostino: «La Chiesa consta di tutti coloro che sono in concordia con i fratelli e che amano il prossimo» (Discorso 359, 9). Questo, fratelli e sorelle, vorrei che fosse il nostro primo grande desiderio: una Chiesa
unita, segno di unità e di comunione, che diventi fermento per un mondo riconciliato.
In questo nostro tempo, vediamo ancora troppa discordia, troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso, da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri.
E noi vogliamo essere, dentro questa pasta, un piccolo lievito di unità, di comunione, di fraternità. Noi vogliamo dire al mondo, con umiltà e con gioia: guardate a Cristo! Avvicinatevi a Lui! Accogliete la sua Parola che illumina e consola! Ascoltate la sua proposta di amore per diventare la sua unica famiglia: nell’unico Cristo siamo uno.
E questa è la strada da fare insieme, tra di noi ma anche con le Chiese cristiane sorelle, con coloro che percorrono altri cammini religiosi, con chi coltiva l’inquietudine della ricerca di Dio, con tutte le donne e gli uomini di buona volontà, per costruire un mondo nuovo in cui regni la pace.
Questo è lo spirito missionario che deve animarci, senza chiuderci nel nostro piccolo gruppo né sentirci superiori al mondo; siamo chiamati a offrire a tutti l’amore di Dio, perché si realizzi quell’unità che non annulla le differenze, ma valorizza la storia personale di ciascuno e la cultura sociale e religiosa di ogni popolo.
Fratelli, sorelle, questa è l’ora dell’amore! La carità di Dio che ci rende fratelli tra di noi è il cuore del Vangelo e, con il mio predecessore Leone XIII, ogg
possiamo chiederci: se questo criterio «prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?» (Lett. enc. Rerum novarum, 21).
Con la luce e la forza dello Spirito Santo, costruiamo una Chiesa fondata sull’amore di Dio e segno di unità, una Chiesa missionaria, che apre le braccia al mondo, che annuncia la Parola, che si lascia inquietare dalla storia, e che diventa lievito di concordia per l’umanità. Insieme, come unico popolo, come fratelli tutti, camminiamo incontro a Dio e amiamoci a vicenda tra di noi.
(da agenzie)

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UNA MOSTRA PER AIUTARE IL MYANMAR

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

NELLE FOTO D’ARTE DI TASSONI ESTENSE LA QUOTIDIANITA’ DI UN PAESE MAGICO E FERITO

Dal 19 maggio nelle sedi di Ostello Bello a Milano, Roma e Palermo la mostra fotografica di Nicolò Tassoni Estense che racconta il Myanmar. Il ricavato sarà devoluto a due Ong che operano sul territorio
Un omaggio alla bellezza del Myanmar che porta con sé un aiuto concreto. Dal 19 maggio al 20 giugno, le sedi di Ostello Bello a Milano Centrale, Roma e Palermo ospitano From Darkness to Light: Burmese Baroque, una mostra fotografica firmata dall’artista e diplomatico Nicolò Tassoni Estense. L’iniziativa non è solo un viaggio artistico nel cuore del Paese, ma anche una concreta operazione di solidarietà: l’intero ricavato della vendita delle fotografie e del catalogo sarà infatti devoluto alle ong New Humanity eMedacross, impegnate sul campo nell’assistenza alle comunità colpite dal devastante terremoto avvenuto in Myanmar il 28 marzo.
La mostra presenta una raccolta di scatti che immortalano la quotidianità del Myanmar, realizzati con lenti volutamente imperfette che donano alle immagini un’aura pittorica e barocca. Le fotografie riflettono la visione personale e il legame profondo con l’ex Birmania dell’autore, Tassoni Estense, già diplomatico in Giappone, Egitto, India, Francia, Libia e nella Repubblica del Congo, dove ha ricoperto il ruolo di Ambasciatore d’Italia. Oggi Tassoni Estense ricopre l’incarico di Capo Missione dell’Ambasciata d’Italia a Yangon. Le immagini raccontano la resilienza spirituale del popolo birmano, la cui forza interiore emerge nonostante il delicato momento, sia dal punto di vista politico che sociale. Una testimonianza visiva potente, che diventa anche un’opportunità di poter sostenere attivamente il popolo birmano.
Ostello Bello, che conta 11 sedi in Italia e una proprio a Mandalay — la zona più colpita dal sisma — ha vissuto in prima linea l’emergenza, con il suo team locale impegnato nel soccorso e nel supporto ai viaggiatori presenti in città. L’impegno della struttura in Myanmar è il simbolo tangibile del legame tra il popolo italiano e quello birmano. L’evento inaugurale si terrà il 19 maggio alle ore 19 presso Ostello Bello Milano Centrale in Via Lepetit 33. All’incontro parteciperanno, tra gli altri, Francesco Romagnoni, Hostel Manager di Ostello Bello Myanmar, e i rappresentanti delle ong beneficiarie del progetto, per
raccontare le loro attività sul campo. L’ingresso è gratuito fino a esaurimento posti. Oltre alla sede di Milano centrale sarà possibile visitare la mostra presso l’Ostello Bello di Roma in Via Angelo Poliziano 75 e l’Ostello Bello di Palermo in Via Galileo Ferraris 3/5
(da agenzie)

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LASCIO’ IN EREDITA’ 3 MILIONI DI EURO ALLA ASL PER UN OSPEDALE, MA I SOLDI FINISCONO A UNA “PALESTRA”

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

LA BEFFA SUL TESTAMENTO DI VITA CARRAPA… CRONACA DI UN PAESE INAFFIDABILE

Morta nel 2019 a 95 anni, l’anziana di Maglie aveva devoluto i risparmi di una vita della sua famiglia al progetto di una nuova struttura ospedaliera. Non solo quel fondo è finito su un altro progetto, ma i lavori hanno sforato la scadenza imposta dal testamento. E ora la Asl rischia di perdere quel denaro
Vita Carrapa aveva devoluto 3 milioni di euro alla Asl di Lecce per realizzare un ospedale. Peccato però che quei soldi siano finiti a finanziare un progetto di una palestra, secondo la denuncia di Antonio Giannuzzi, fiduciario della donatrice. Come spiega il Corriere del Mezzogiorno, Giannuzzi dice che i soldi devoluti dall’anziana «non sono stati utilizzati per realizzare il nuovo ospedale
come da volontà testamentarie». Era tutto scritto nel testamento consegnato al notaio Giovanni De Donno il 22 dicembre 2009. Ma finora pare che anche il progetto della palestra sia ben lontano dal vedere la luce.
Passi pure per il progetto non proprio in linea con le ultime volontà dell’anziana. Ma anche i ritardi andrebbero contro le disposizioni testamentarie della donna di Maglie morta a 95 anni il 16 febbraio 2019. La donna aveva chiesto che un ospedale nel Basso Salento doveva essere realizzato entro cinque anni dalla data di apertura del testamento, avvenuta l’11 settembre 2019 in diretta sulla Rai. Visto che già alla stesura del testamento, l’idea del nuovo ospedale era troppo vaga, l’anziana aveva usato una formula generica, chiedendo «una struttura di cura e assistenza».
Nel caso in cui la Asl non avesse seguito le ultime volontà dell’anziana, il lascito doveva passare all’Ispe, l’Istituto per i servizi alla persona per l’Europa «che gestisce la casa di riposo per anziani di Maglie o per crearne una nuova». Insomma Carrapa voleva un centro dedicato agli anziani. Come ricorda il Corriere del Mezzogiorno, il ritardo della Asl è già di nove mesi, per quello che è ancora un cantiere di un «Presidio riabilitativo distrettuale ad alta tecnologia robotica». Il cantiere però secondo Giannuzzi sarebbe stesso deserto.
Dalla Asl avevano già fatto sapere che non c’era stato alcun problema sul rispetto delle ultime volontà dell’anziana. Quel denaro, frutto dei risparmi della sua famiglia «è stato utilizzato in perfetta rispondenza alle sue disposizioni
testamentarie», spiegava il dg della Asl di Lecce Stefano Rossi. Ma i membri del Comitato che ancora sperava in un ospedale tra la città di Aldo Moro e Raffaele Fitto e Melpignano promettono battaglia, mentr non c’è ancora una data per l’inaugurazione del centro di riabilitazione.
(da Open)

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L’ACCADEMIA DEI PROVINCIALI DI FORZA ITALIA: L’ASCESA DEI FEDELISSIMI DI TAJANI, DAI TERRITORI AL PARTITO

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

IL NUOVO SCHEMA: MENO MOVIMENTO D’OPINIONE E PIU’ CACCIA ALLE PREFERENZE

Sognava la rivoluzione liberale, ha attuato quella del provinciale. La Forza Italia d. C. (dopo Cav.) è il tripudio del territorio, delle preferenze, delle bande musicali da valorizzare (con una proposta di legge da otto milioni di euro) e poi sagre e parrocchie, campetti e oratori. Maradona, d’altronde, non c’è più. Restano i gregari, i Renica, la classe operaia andata quasi in paradiso e diverse stelline qua e là. Finito in gloria il movimento d’opinione del capo carismatico, ora c’è il porta a porta dei tajanei. Molto centro e sud, meno Milano e nord produttivo. Sono i provinciali europei. E’ l’accademia del rustico azzurro, scarpe grosse e cervello fino. La riscossa della contea, gente di poche parole
molta fede: vota Antonio!
Se Silvio Berlusconi dopo la sconfitta del ’96 imbarcò “i professori” (da Melograni a Pera, da Colletti a Marzano, da Rebuffa a Brunetta, da Mathieu a Vertone e poi ancora i Sirchia e i Tremonti), ora è tutto diverso. Il ciociaro Antonio Tajani da Ferentino – ma proveniente da famiglia di nobile lignaggio – ha distribuito il bastone del comando a un gruppo di collaboratori storici. Sono i figli dell’Italia di mezzo, della campagna. Burini, per i velenosi. Ma qui – a partire da chi scrive – nessuno si offende. Anzi. Laboriosi capomastri, si definiscono loro, quelli della forza tranquilla. Sono tutti cresciuti distanti anni luce dal mondo della finanza, della tv e di Arcore e dei salotti milanesi. Andavano a Roma con la corriera o con il ciuff ciuff: Cassia bis e Flaminia, biglietto obliterato e sole in tasca. Al posto di “tac!”, erre arrotate e “mi consenta”, ora è un profluvio di “annamo, che famo?, “sei gojo?” (traduzione: sei matto?). Look normali, senza eccessi di vanità, senza sartorie napoletane, né guance glabre (le vedesse Lui!). Tajani li ha allevati e pescati nel lago elettorale del Centro (Lazio, Umbria, Marche) dove ha scorrazzato per quasi trent’anni a caccia di voti fondamentali per i palazzi di Bruxelles e Strasburgo. Collezionando così incarichi e medaglie da appuntare al petto baritonale.
Viterbo, Terni, Tolfa: storie di consolari che portano all’Urbe. E’ la piccola epopea della falange tajanea.
Non è il Giglio e nemmeno la Fiamma, ma la “Porchetta magica”. Dal gusto per
la pietanza – maialino arrosto condito con finocchietto selvatico ficcato dentro una croccante rosetta di pane – che unisce tutti i protagonisti di questa storia che forse piacerebbe a Guido Piovene o a un Piero Chiara in trasferta da Luino a quaggiù.
Non ci sono particolari ristoranti da raccontare dopo le riunioni. Se non il circolo degli Esteri, cioè casa di Tajani, o le rare apparizioni ai tavoli di Lola sulla via Flaminia. Ma solo questi panini addentati oltre a spartani catering fatti salire nella sede di piazza in Lucina, ora che Palazzo Grazioli è una curva nella memoria nonché sede e coworking della Stampa estera. La combriccola va matta per la porchetta, appunto, ma anche per i salumi. Per non parlare delle mozzarelle. Il vicepremier e ministro degli Esteri ne ha regalate di succose e lacrimose perfino al vicepresidente degli Stati Uniti J. D. Vance quando è venuto a Palazzo Chigi a pranzo. Insomma: altro che cravatte di Marinella, qui si va di zizzona di Fondi, basso Lazio. Snob? No, grazie. Perché, come canta Paolo Conte, “noi di provincia siamo così / le cose che mangiamo / son sostanziose come le cose / che tra di noi diciamo…”.
Francesco Battistoni da Proceno (Alta Tuscia) è il responsabile dell’organizzazione di Forza Italia; Raffaele Nevi da Terni fa il portavoce del partito; Alessandro Battilocchio da Tolfa si occupa dei dossier elettorali; Paolo Barelli dalla capitale, ex olimpionico di nuoto, è il roccioso capogruppo alla Camera, nonché fresco parente del leader da quando due settimane fa il figlio
Gianpaolo ha sposato Flaminia Tajani (cerimonia riservata, lontana dal gossip di “chi c’era”). I quattro della zolla condividono da anni una chat su WhatsApp. Dettaglio: il gruppo cambia nome a seconda del governo. Adesso si chiama “I Meloni”, prima “I Draghi”. Qui commentano e scherzano. In poche parole cazzeggiano in uno spirito un po’ alla “Amici miei”. Ma sempre con moderazione, siamo gente di provincia, biografie normali, niente super ego. Non ci sono Celesti né felpate eminenze azzurrine, tantomeno sanguigni Verdini né Paoloromani.
“Mi scusi, non posso parlare: sto presiedendo il congresso di Forza Italia a Orte”. A Orte? “Sì, perché?”, risponde al telefono Battistoni, 58 anni, in FI dal ’94, deputato, già senatore. Fu il capogruppo del Pdl nel Lazio che scoperchiò l’allegra contabilità del suo predecessore: Francone Fiorito da Anagni, detto Batman, giovane missino che nel ’93 si ritrovò a tirare le monetine a Craxi davanti all’hotel Raphaël, salvo poi, quasi vent’anni dopo, finire in mezzo al caso dei rimborsi dei consiglieri regionali. Da lì a poco la governatrice Renata Polverini si dimise. Battistoni è stato assistente di Tajani all’Europarlamento, ma anche sindaco di Proceno, paesino a nord del Lazio, nel Viterbese, non distante dal castello di Luciano Gaucci a Torre Alfina (ecco perché è stato anche dirigente del Perugia calcio, club provinciale per eccellenza dalle stelle alle stalle). Pizzetto da moschettiere, il riservatissimo Batti ha da sempre una consuetudine con le gerarchie ecclesiastiche. Conosce per motivi territoriali il
cardinale Pietro Parolin (già arcivescovo di Acquapendente), vanta uno zio prete, Alfio, storico assistente di monsignor Luigi Boccadoro, presidente delle commissioni episcopali della Cei per il clero e i seminari nonché fautore dell’istituto di Scienze religiose “San Bonaventura da Bagnoregio”, passione di Papa Ratzinger. Lo chiamano il chierichetto, Battistoni. E come chi è nato fra campanili e piazze del comune conserva una certa attenzione – che eroe – verso i giornali di carta (meglio ancora la stampa locale). Pallino d’altronde di Tajani che nella precedente vita fu cronista del Giornale di Montanelli e capo della redazione romana del quotidiano berlusconiano (con famoso aneddoto del ceffone rimediato in Transatlantico dal deputato del Msi Alfredo Pazzaglia).
Con i giornalisti parla per lavoro Raffaele Nevi, 52 anni da Terni, titolare di un’azienda agricola con maiali allevati en plein air. Tipo misurato e cortese, tranne quella volta che diede del “paraculetto” a Matteo Salvini con conseguente scandalo del giorno e tempesta di carta per 24 ore. Nevi è il liberale della compagnia. Nipote d’arte, con tanto di tessera del Pli presa a 14 anni. Inizia a far politica quando nella rossa Terni d’acciaio e Che Guevara diventa sindaco l’ex ministro, liberale, Gianfranco Ciaurro sicché debutta come consigliere di circoscrizione. Poi conosce Tajani nella prima campagna elettorale per le europee del ’96 e diventa anche lui un tajaneo doc, tendenza cascate delle Marmore. Elezioni comunali, regionali, coordinatore del partito cittadino e regionale: in Umbria ultimamente non ha avuto grandi successi
visto che ha perso un po’ tutte le principali elezioni (in ternano si dice: portamo a spasso li dolori). Ma il suo Antonio, mormorano nel partito le fisiologiche malelingue, è già pronto a salvarlo, quando sarà, con un seggio blindato in Calabria. La moglie di Nevi è amica della signora Tajani: le due hanno accompagnato i mariti all’ultimo congresso del Ppe a Valencia: paella alla Manfred Weber. Perché questi sobri rapporti provinciali si nutrono anche di famiglie, senza jetset né cene eleganti. “Guardi, le posso dire solo una cosa: siamo fissati con il territorio e con la semplicità delle piccole cose. Basti pensare che io e Antonio abbiamo lo stesso numero di cellulare da oltre 20 anni”, confida Nevi con il fare di chi sta per mollare lo scoop dell’anno.
Con la perenne cartellina sotto braccio, spunta invece dal portone di Montecitorio Alessandro Battilocchio, detto Bat, altro pupillo storico del segretario di Forza Italia, deputato e presidente, ovviamente, della Commissione parlamentare sulle periferie. Se Battistoni è il cattolico, Nevi il liberale, lui è il socialista di questi cugini di campagna, nonché il più giovane: ha 48 anni ma è in politica da quando a 23, dopo cinque anni da assessore, diventò sindaco di Tolfa (comune di cinquemila anime “inconigliato” sulla roccia). E’ il responsabile elettorale di Forza Italia: si occupa di simboli e liste. Conobbe Tajani a Strasburgo quando venne eletto con il Nuovo Psi di Gianni De Michelis, europarlamentare, a 27 anni. Ha una passione per frati e suore,
conventi e chiese: santi voti. Poi c’è Barelli, 70 anni, è il Bud Spencer di questa Forza Italia per via dei trascorsi nel nuoto azzurro che conta. Nell’Italia di mezzo, fede e preferenze, anche lui ha nel palmarès una protettrice davanti a cui inginocchiarsi: è la zia Armida Barelli, dichiarata beata da Papa Francesco nel 2022, cofondatrice dell’università Cattolica ma anche delle missionarie della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo e conseguente istituto per le Opere. Barelli è l’altra ombra del leader azzurro, riuscito finora in una complicata operazione di salvataggio di un partito che dopo Berlusconi sembrava destinato a un rapido declino elettorale. Certo, Tajani dice che punta al 20 per cento, numeri da leccarsi i baffi che per ora restano chimere, ma il sorpasso sulla Lega fa incipriare il naso a tutti. Il partito fondato dal Cav. è cambiato. Il segretario viene riconosciuto anche dai detrattori come “insostituibile”. In diversi si sono rassegnati, anche se c’è chi, a volte, mastica amaro per un’eccessiva morbidezza verso il melonismo soprattutto sulle questioni geopolitiche ed economiche, segmento e posizionamento che ancora interessano alla “Famiglia”. E cioè ai Berlusconi, entità che aleggia, per via del cognome, di una fidejussione elargita per la causa da 90 milioni di euro e soprattutto per le possibili, e finora sempre smentite, discese in campo dei figli del Cav. Piersilvio su tutti, poi Marina. Ma chissà.
Tuttavia il menu ormai offre questo. E allora è facile incrociare Tajani che reduce da un vertice internazionale si precipita alla sagra dell’Uva a Marino
(come gli fece notare Matteo Renzi il giorno dell’anniversario del 7 ottobre) o a quella del tartufo (non si possono non citare nella galleria dei provinciali in ascesa i deputati Piero D’Attis da Galatina o Francesco Rubano da Telese).
Si fa largo dunque una nuova Forza Italia fatta di piccoli potentati locali e un po’ di caos (il perenne “mercurio Sicilia” con il governatore Renato Schifani e il coordinatore Marcello Caruso). “La squadra, conta la squadra”, ripete il segretario che cerca sempre di non litigare con i suoi, anche se dicono sia permaloso. Nessun cerchio magico – quello della Porchetta – né club esclusivi, fa sapere il leader che dopo gli scossoni iniziali vanta una discreta armonia intra moenia, tra delegazione di governo, gruppo parlamentare e assetti azzurri. D’altronde è stato capace di nominare i suoi vice con misurino territoriale, storico e perfino aggiornato alla cronaca (Deborah Bergamini per la Famiglia, Alberto Cirio per il nord, Roberto Occhiuto per il sud e infine Stefano Benigni, tendenza Marta Fascina). Il partito, incarichi alla mano, è un incrocio di storie e sensibilità. Si è smilanesizzato. Questo è indiscutibile (al di là del ritorno a casa, con successo, di Letizia Moratti e di Gabriele Albertini). L’altro capogruppo, in Senato, è Maurizio Gasparri, romanissimo, con rubrica telefonica imponente nella destra dei Palazzi fino ai balneari di Ostia. Tajani intanto fa il giro del mondo come Jules Verne. Parla di Russia, Israele, export e dazi americani.
Appena può però taglia nastri per inaugurare sagre e campetti sportivi accompagnato dai suoi ragazzi. Quelli dell’Accademia dei provinciali, sogno
rivisto e corretto dell’Università della libertà tanto agognata dal Cav. Sic transit, eccetera eccetera…
(da ilfoglio.it)

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L’AMBASCIATORE STEFANINI: “QUELLA FOTO FA MALE”

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

“L’ASSENZA DI MELONI AL VERTICE DEI VOLENTEROSI SULL’UCRAINA E’ UNA FALLA STRATEGICA, SBAGLIATO SOPRAVVALUTARE IL LEGAME CON TRUMP, ORA L’ITALIA RESTA SOLA”

Quella foto fa male. Gruppo di testa dell’Europa senza Italia. Volodymir Zelensky ugualmente a suo agio. Sono loro, ormai, i “leader”: Merz-Macron-Starmer-Tusk. Donald Trump li ragguaglia sull’incontro di Istanbul – forse
anche sulla telefonata che farà poi a Vladimir Putin? – senza essere turbato dall’assenza di Giorgia Meloni.
Fa male soprattutto perché mette impietosamente a nudo una falla strategica nella politica estera del governo italiano: il filo doppio che lega politica transatlantica e politica europea. Per contare nell’una bisogna contare nell’altra. E viceversa.
Meloni replica di essere «coerente». Se la coerenza riguarda il non invio di truppe in Ucraina, a garanzia della pace, è un falso problema. Se ne parlerà quando la pace sarà in vista. Si parlava di come aiutare l’Ucraina ad arrivarci. E l’Italia non c’era.
Assenza tatticamente perdente su tre fronti: europeo, ucraino e americano. Si può ancora correre ai ripari. Faticosamente. Siamo avvezzi alle corse ad inseguimento, dal G7 nel 1975 – assolutamente uno dei maggiori successi della politica estera italiana – al Gruppo di Contatto sulla ex-Jugoslavia nel 1996. Non sempre con successo, vedi negoziati con l’Iran che, in campo europeo, rimangono prerogativa degli “E3” (Regno Unito, Francia, Germania). Esclusa al primo turno da formati internazionali chiave, l’Italia riesce ad entrare al secondo o al terzo. O non entrare (Iran).
Alla base di questi recuperi, talvolta per mancato invito dei soci fondatori, altre volte per sbadataggine diplomatica, c’è sempre la convinzione, realistica, radicata, strategica, che la politica estera dell’Italia si fa da “dentro” non da
fuori. E che, il punto di partenza è l’Europa: se a Washington, Mosca o Pechino, gli “europei” sono identificati negli E3, l’Italia si trova relegata a ruota di scorta.
Sull’Ucraina, Giorgia Meloni ha ritenuto di poter ovviare all’Europa grazie al rapporto bilaterale privilegiato con Donald Trump. È un doppio errore. Sopravvaluta il legame col presidente americano. Quali che siano le affinità ideologiche o le simpatie personali Trump non guarda in faccia a nessuno, vedi lo scavalcamento di Benjamin Netanyahu, altro pellegrino, come la presidente del Consiglio, a Mar-a-Lago. Secondo, Trump non cerca immaginari “ponti” con l’Europa o l’Ue.
Né li cercano leader come Merz o Starmer. Fanno da soli. Viene quindi meno il tradizionale appoggio americano all’inclusione dell’Italia nei gruppi ristretti, come da manuale diplomatico della Farnesina: bussare alle porte Usa – ce ne sono tante, Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Pentagono – per farsi aprire quelle europee.
Intanto, nella seconda amministrazione Trump, ce n’è una sola che conta, la sua. A Trump, che vuole un’Europa divisa – appoggiò Brexit – e una Unione europea debole perché inimica più della Cina – lo dice – sta benissimo un’Italia che, dall’esterno, metta i bastoni fra le ruote a Bruxelles.
Come l’Ungheria di Viktor Mihály Orbán ma con molto più peso. E che, sull’Ucraina, non rafforzi i volenterosi dai quali potrebbero venire difficoltà alla
sua “pace” da negoziare con Putin – senza europei e senza Kiev al tavolo.
Nell’esclusione dell’Italia ha giocato sicuramente il pessimo rapporto personale fra Emmanuel Macron e Giorgia Meloni. Del quale il presidente francese ha la sua parte di responsabilità (30/70?). Ma la politica estera non si fa sulle simpatie bensì sugli interessi nazionali come la presidente del Consiglio non si stanca di ripetere. Francia e Italia sono il secondo e terzo Paese dell’Ue. Con una guerra nel cuore dell’Europa e un’altra, commerciale, che sta agitando le acque dell’Atlantico. Possibile che non sia possibile trovare un pragmatico terreno d’intesa anziché farsi continui – e puerili – sgambetti?
Pur neofita, la presidente del Consiglio si è mossa accortamente sullo scenario europeo e mondiale. Il cambio della guardia a Washington rimescola le carte. Giorgia Meloni ha una mano più forte grazie all’allineamento ideologico con Maga.
Forse nuovi alleati a cominciare dalla Romania che va alle urne oggi. Ma cambiano le carte, non le regole ferree del poker internazionale. Dall’unità in poi l’Italia si è dibattuta nella ricerca di equilibrio fra “continente” cui l’Italia è agganciata, quindi in primis Germania, e “mari” in cui si proietta, quindi un tempo Uk oggi Usa.
In altre, ma simili circostanze, l’ambasciatore Bruno Archi, consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi, ebbe il coraggio di dirgli «Signor Presidente non possiamo metterci contro la Germania». Berlusconi gli diede retta. Giorgia
Meloni ascolta ancora questi consigli dopo aver mandato in esilio più di un collaboratore?
Stefano Stefanini
(da lastampa.it)

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CARACAS APRE A UNA VISITA CONSOLARE AD ALBERTO TRENTINI, SI PUNTA FINALMENTE A UNA DISTENSIONE CON MADURO

Maggio 18th, 2025 Riccardo Fucile

IL CAMBIO DI ATTEGGIAMENTO SI INSERISCE NEI NEGOZIATI TRA USA, EL SALVADOR E VENEZUELA

Fonti di Caracas affermano che Alberto Trentini riceverà, al più presto, una visita consolare da parte dei rappresentanti della Farnesina in Venezuela. Sarà quindi la prima volta in cui diplomatici italiani potranno incontrare di persona il cooperante 45enne di Lido Venezia da sei mesi trattenuto nel Paese sudamericano. Ma le tempistiche della visita non sono chiare: “Accadrà presto”, dicono sempre dalla capitale venezuelana.
La richiesta ufficiale di una visita consolare risale allo scorso 16 gennaio, secondo quanto annunciato dal ministro degli Esteri Antonio Tajani all‘Ansa. E in precedenza qualche tentativo è stato compiuto dall’ambasciatore italiano a Caracas, Giovanni Umberto De Vito, senza esito positivo.
L’improvvisa apertura è in continuità con la telefonata concessa da Caracas a Trentini nella quale il cooperante ha rassicurato la mamma, Armanda Colluso,
sulle proprie condizioni di salute e ha sottolineato il desiderio di voler “tornare presto a casa”. Sappiamo che nel caso specifico del cooperante, l’apertura è frutto di un lungo percorso di mediazione che ha coinvolto il governo italiano, la famiglia Trentini e l’avvocata Alessandra Ballerini.
E anche le parole sono state disarmate nel cammino, come direbbe Leone XIV, con il viceministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Edmondo Cirielli, che ha ringraziato il presidente venezuelano Nicolas Maduro auspicando che “si possa giungere alla rapida scarcerazione del connazionale”. Dopo questa mossa, il palazzo di Miraflores attende gesti di distensione sui quali le autorità di Roma sono già a lavoro.
Tuttavia Trentini non è stato l’unico a telefonare: nelle ultime ore quasi tutti i prigionieri stranieri reclusi a El Rodeo I nell’ambito delle tensioni post-elettorali dell’estate 2024 hanno potuto sentire i propri parenti, rompendo così mesi di totale incomunicabilità.
Il punto di Caracas
Vista dal Venezuela, la trattativa si inserisce in una cornice ben più ampia e delicata. Stiamo parlando dei negoziati tra Usa, El Salvador e Venezuela per il rilascio di 252 prigionieri politici, compresi gli oltre 60 stranieri ancora detenuti nel Paese sudamericano, in cambio di altrettanti venezuelani deportati dagli Usa a San Salvador. E una bozza con un primo elenco di nomi sarebbe già stata sottoposta all’esame di Washington e Caracas. “Il nostro è un gesto di apertura
verso El Salvador“, spiegano al palazzo di Miraflores.
Tali negoziati hanno già prodotto un primo risultato con la consegna di Maykelis Espinoza, la bambina di due anni sbarcata all’aeroporto internazionale di Maiquetia, in Venezuela, giovedì 15 maggio dopo essere stata deportata dagli Usa insieme ai suoi genitori, accusati di appartenere alla nota gang transnazionale del Tren de Aragua sotto la legge dell’Alien Enemy Act del 1798. Anche allora si è verificato un altro gesto di distensione: i ringraziamenti di Nicolas Maduro al suo nemico naturale, il presidente Usa Donald Trump, “per aver compiuto questo atto umano di giustizia”.
Ma al centro non c’è solo il ritorno dei connazionali deportati bensì l’auspicata uscita del Paese dall’isolamento internazionale in cui si trova da alcuni anni oltre alla necessità di superare la crisi socio economica aggravata dalle recenti sanzioni Usa. E infine le elezioni amministrative di domenica prossima, 25 maggio, attraverso le quali Maduro vorrebbe consolidarsi ulteriormente sulle macerie di un’opposizione divisa e smarrita.
Altri precedenti già risaputi e che fanno ben sperare riguardano la liberazione dell’imprenditore italo-venezuelano Alfredo Schiavo, recluso dal 2020 nel Penitenziario dell’Helicoide a Caracas, in Plaza Venezuela, e rilasciato per motivi umanitari, così come il trasferimento negli Usa dei cinque oppositori che si erano rifugiati nell’ambasciata di Buenos Aires a Caracas.
Guai però a leggere le recenti mosse di Maduro come cenno di debolezza da
parte del Palazzo di Miraflores. Anche perché da quelle parti lo studio della geopolitica è cosa seria, assidua, ossessiva. D’altronde, chi si schiera contro l’Impero statunitense deve saper giocare le poche carte che ha. E finora il chavismo le ha giocate bene, tenendo testa a Washington anche a costo di grossi sacrifici. In questo senso la Cuba di Fidel Castro è stata una scuola importante. Sono quindi ore delicate nelle quali, citando Aldo Moro, “una qualche concessione non è solo equa, ma anche politicamente utile” ricordando che “in questo modo civile si comportano moltissimi Stati”.
(da agenzie)

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