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BREXIT, A QUATTRO ANNI DALL’USCITA DEL REGNO UNITO DALL’UE, IL 55% DEI BRITANNICI SI PENTE DELLA SCELTA E IL MOTIVO È SEMPLICE: USCIRE, SI È RIVELATO UN BOOMERANG A LIVELLO ECONOMICO

DAL 2020 SONO ANDATI PERSI 1,8 MILIONI DI POSTI DI LAVORO, IL PIL È CALATO E IL POTERE D’ACQUISTO DEI SALARI È SCESO DI 2.000 STERLINE L’ANNO. LE TASSE SONO AUMENTATE DEL 4%, SONO CRESCIUTI I PREZZI DEI BENI PRIMARI

Le ultime elezioni europee hanno premiato gli euroscettici, che lo sono più nelle dichiarazioni che nei programmi. L’uscita dall’Europa oggi la sostiene solo il partito tedesco Afd. Negli anni passati l’aveva cavalcata il Partito Popolare Danese, il Partito delle Libertà in Austria, Perussuomalaiset in Finlandia, il Partito Nazionalista a Malta e il Front National in Francia. In Italia c’era Italexit, mentre Fratelli d’Italia nel programma elettorale per le Europee 2014 proponeva lo «scioglimento concordato dell’eurozona», così come aveva fatto la Lega. […] L’unico Paese che ha lasciato l’Ue è il Regno Unito. Vediamo come è andata.
Parte tutto nel 1993 A chiedere l’uscita dalla Ue fin dal 1993 sono gli indipendentisti dell’Ukip, che sotto la guida di Nigel Farage nel 2014 diventano il primo partito.
David Cameron indice il referendum e il 23 giugno 2016, contro tutte le previsioni, il 51,9% dei votanti sceglie «Brexit». Dopo lunghi negoziati a gennaio 2020 viene siglato il divorzio.
Il Regno Unito, pur versando meno del dovuto, era un contribuente netto, con un saldo negativo di 6 miliardi di euro all’anno.
Oggi il contributo è scomparso, ma Londra non è diventata più ricca. Deve saldare il passivo che ha con Bruxelles: all’approvazione del bilancio comunitario, come fa ogni Stato membro, si era impegnata a versare fondi, ricevendone altri in cambio (aiuti, fondi strutturali, progetti di ricerca). Secondo i conti fatti a luglio 2019 dall’ Obr, l’Ente di controllo sul Bilancio statale, il debito era di 32,8 miliardi di sterline. Nel 2024 ne resta da pagare ancora la metà, mentre il think tank britannico Ippr calcola che quello che il governo riesce a stanziare è il 57% di quanto dava l’Europa
Cresce la spesa pubblica: il ripristino delle frontiere, dogane e tutta la burocrazia connessa agli organismi di controllo ha comportato un aumento del personale di 100 mila unità. Il Regno Unito ha perso l’accesso a quel mercato unico da 450 milioni di consumatori ricchi, non compensato dagli accordi commerciali con i Paesi del Commonwealth, mentre quello di libero scambio con Stati Uniti è naufragato. Il principale mercato di esportazione è ancora quello con la Ue, solo che ora Londra non ha più strumenti per influenzare le decisioni politiche europee.
Fuori dagli standard comuni che facilitavano le importazioni, ora i nuovi controlli sui prodotti alimentari sono a carico delle imprese britanniche con un costo di 2 miliardi di sterline all’anno in più e conseguente crescita dell’inflazione dello 0,2% annuo (Allianz Trade). Per il governo il conto annuale è più basso: 330 milioni di sterline. Intanto per raffreddare l’aumento del costo della vita sono state sospese per i prossimi due anni le nuove tariffe doganali su automobili, carburanti, metalli e beni alimentari, che rappresentano il 45% delle importazioni.
Londra ha dovuto lasciare la Banca europea per gli investimenti (Bei) perché i suoi azionisti sono solo i Paesi membri dell’Ue. La Bei, che raccoglie fondi sui mercati ed eroga prestiti a condizioni favorevoli, nel corso degli anni ha investito nel Regno Unito 146 miliardi di sterline, tra cui il tunnel sotto la Manica, gli ammodernamenti della metropolitana di Londra e lo sviluppo delle energie rinnovabili. Oggi il governo riesce a mettere a disposizione solo 2,4 miliardi di sterline l’anno, meno della metà degli investimenti garantiti dalla Bei tra il 2009 e il 2016.
Nel 2015 il Regno Unito era la quinta economia del mondo, nel 2023 è scesa al sesto posto. Le analisi più accreditate concordano: per Goldman Sachs dal referendum del 2016 il Paese ha avuto risultati inferiori alle altre economie avanzate, con una crescita più bassa e un’inflazione più alta. Sul fonte dell’immigrazione sono calati drasticamente gli europei e aumentati in modo significativo gli extracomunitari.
I dati elaborati da Bloomberg evidenziano che dal 2016 il Pil è cresciuto del 6% contro il 24% di quello della Ue, mentre nei dieci anni precedenti la Brexit aveva guadagnato il 12% rispetto a quello medio europeo.
L’Obr nel report di marzo 2024 certifica: commercio meno 15%, produttività meno 4%. Ne identifica le cause nelle nuove barriere sulle merci e nella parziale perdita di Londra del ruolo di hub. Già a partire dal 2016 banche e broker con sede nel Regno Unito, in vista dell’impossibilità a operare liberamente nei Paesi Ue, hanno spostato attività per 900 miliardi di sterline a Dublino, Parigi, Francoforte e Amsterdam.
A differenza di quanto assicuravano i pro-Brexit il carico fiscale reale è aumentato: oggi, scrive l’Obr, è del 37,1%, il 4% in più rispetto al 2016. Crescono i prezzi dei beni primari, più 30% per gli alimentari, cala il potere d’acquisto di quasi 2.000 sterline l’anno sul reddito medio e il mercato del lavoro perde 1,8 milioni di posti.
Il mercato del lavoro perderà altri 1,2 milioni di posti con una decrescita del 10,1%. Tutto questo farà salire il costo complessivo dell’uscita dall’Ue a 311 miliardi di sterline. Eppure gli inglesi godevano delle condizioni migliori per stare nel «club», ma gli euroscettici hanno preferito raccontare un’altra storia e ora sono i cittadini a pagare il conto salato. Dal 2022 i delusi sono sopra il 50% e ormai si parla apertamente di «Bregret» (pentimento). L’ultimo sondaggio di YouGov è del 27 marzo 2024: contrario alla Brexit il 55%.
Domenico Affinito e Milena Gabanelli
per il “Corriere della Sera”

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