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CALABRIA, LA ‘NDRANGHETA INFILTRATA IN FRATELLI D’ITALIA: LE MANOVRE PER ACCAPARRARSI I VOTI DI MAFIA E GOVERNARE

DECINE DI INCHIESTE VEDONO PROTAGONISTI I RAPPRESENTANTI DEL PARTITO DI GIORGIA MELONI

“Quelli sono terrorizzati da Reggio Calabria”. Nel gergo del capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Calabria Giuseppe Neri, per il quale la procura antimafia ha chiesto invano l’arresto per scambio elettorale politico mafioso, “quelli” sono i neo colleghi di partito di FdI, che lo hanno accolto a braccia aperte a dispetto degli anni di militanza nel centrosinistra.
Il terrore invece si deve alle tante, troppe volte in cui il nome di questo o quell’esponente del partito di Giorgia Meloni è finito nelle carte di un’inchiesta giudiziaria, fra gli indagati di un procedimento o gli imputati a processo.
Il “valore aggiunto” di Pittelli secondo Giorgia Meloni
Fra gli ultimi in ordine di tempo, l’ex senatore Giancarlo Pittelli, massone di alto rango, condannato a 11 anni come consigliori del boss di Limbadi Luigi Mancuso per aver messo a disposizione di tutto il suo casato di ‘ndrangheta “il proprio rilevante patrimonio di conoscenze e di rapporti privilegiati con esponenti di primo piano a livello politico-istituzionale, del mondo imprenditoriale e delle professioni”. Quando da Forza Italia era transitato fra i meloniani, la stessa premier se n’era gloriata pubblicamente con un tweet: “La comunità di FdI cresce, si rafforza e dà il suo benvenuto a Giancarlo Pittelli: un valore aggiunto per la Calabria e per tutta l’Italia”.
Il passo indietro obbligato di Valentino in Csm
Gli inciampi però non sono solo circostanza recente, ma trend storico. Senza andare troppo alle radici, quando il partito si chiamava Msi e il suo campione reggino Ciccio Franco, con l’aiuto dell’élite della ‘ndrangheta reggina e di personaggi del calibro di Stefano Delle Chiaie e Pierluigi Concutelli, capitalizzava i Moti, già ai tempi di An c’era qualche problema. E non è certo archeologia giudiziaria se è vero che quello che Giorgia Meloni avrebbe voluto come vicepresidente del Csm, l’ex senatore Giuseppe Valentino, due anni fa ha dovuto fare un passo indietro. All’epoca risultava indagato in un procedimento connesso al maxiprocesso antimafia Gotha, circostanza di cui per altro era perfettamente consapevole: chiamato nel 2021 in aula a riferire dei suoi rapporti con Paolo Romeo – missino della prima ora, massone di alto rango, per i pentiti uomo di Gladio e piduista condannato a 25 anni come esponente di rilievo della direzione strategica della ‘ndrangheta – aveva avuto la possibilità di fare scena muta.
Il sindaco della ‘ndrangheta
Agli atti sono rimaste e hanno pesato le sue conversazioni con Romeo – insieme a Giorgio De Stefano, per i giudici Giano bifronte del potere politico-mafioso – negli anni in cui erano impegnati a definire l’assetto istituzionale della città di Reggio Calabria. Dettaglio non di secondo piano, all’epoca Romeo era già stato condannato come eminenza grigia del clan De Stefano, storicamente uno dei cinque che da decenni hanno in mano il potere a Reggio Calabria e non solo.
Il “campione” su cui puntare è Peppe Scopelliti, in seguito sindaco di Reggio e governatore della Calabria, condannato definitivamente a 4 anni e 7 mesi per aver taroccato il bilancio del Comune, facendo sparire un rosso da centinaia di milioni di euro. Dirigente del Fronte della Gioventù come Meloni e in quegli anni insieme a lei fra gli enfant prodige della destra, frequentazioni trasversali dalla curva ai salotti, da picciotti e gregari di ‘ndrangheta ai rampolli della cosiddetta Reggio bene, viene considerato un “braciolettone” ma in grado di fare il “cane di mandria”. Copyright di Paolo Romeo, che mette giù i termini della questione: “Che non faccia il podestà e allora dura, altrimenti il prossimo anno votiamo”.
L’assessore di An “Sono stato poliziotto, massone e ‘ndranghetista”
Lui invece ci prova, favorisce solo un clan – raccontano le inchieste – e gli altri entrano in subbuglio. Per trovare una soluzione ci è voluta una doppia riunione romana. Motivo? “Peppe doveva mettersi in riga con le varie famiglie, doveva smettere di favorire così tanto i De Stefano”, racconta il pentito di ‘ndrangheta Seby Vecchio, ex assessore comunale di An, rimasto a piede libero abbastanza tempo da transitare in FdI, che quando inizia a collaborare davanti ai pm esordisce così: “Sono stato un poliziotto, un politico, un massone regolare e uno ‘ndranghetista”.
‘Ndragheta e politica
Sono i primi anni Duemila e a Roma ci sono due incontri. Il primo per “parlare di ‘ndrangheta e di politica” negli uffici di An alla presenza “di Sarra, dell’allora senatore Giuseppe Valentino e di Umberto Pirilli” che di lì a poco sarebbe diventato eurodeputato. La seconda, al cospetto dei rappresentanti dei vertici dei clan più importanti di Reggio Calabria, con Sarra a fare da garante per le decisioni prese.
“Credere, obbedire, ballare”
Vecchio è attendibile, hanno più volte confermato i giudici, incluso nel processo in cui Alberto Sarra, braccio destro di Scopelliti ed ex sottosegretario regionale anche lui con An in pedigree, è stato condannato a 13 anni come riservato di ‘ndrangheta. Scopelliti e Pirilli – per i magistrati strumento del progetto dei clan di prendersi le istituzioni, dal Comune al Parlamento Ue – ai tempi della sentenza risultavano indagati in procedimento connesso. A far salire le quotazioni di Scopelliti, sarà poi un finto attentato – “una buffonata”, l’ha definita il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo in sede di requisitoria – che grazie a tre informative del Sismi, firmate da Marco Mancini, in quel periodo curiosamente spesso in città, diventa una minaccia della ‘ndrangheta. Dopo quell’ordigno senza innesco piazzato in bagni in cui nessuno passa, Scopelliti diventa una star dell’antimafia e a Reggio Calabria inizia l’era del “credere, obbedire, ballare”, infinita estate da cicala, che ai clan fa fare grandi affari e lascia la città in rovina.
Frana tutto quando il bubbone dei conti a Reggio Calabria scoppia e le inchieste iniziano a far saltare fuori i legami fra la destra che ha governato e i clan. Il Comune viene sciolto per mafia. Scopelliti è già governatore, ma l’onda lunga lo raggiunge: c’è “continuità nella contiguità”, dice la relazione.
L’arresto del coordinatore regionale di FdI
Archiviata quella stagione con Scopelliti in carcere per i conti del Comune taroccati e progressivamente scaricato da An, per il partito di Giorgia Meloni le cose certo non migliorano. Le indagini sul clan Valle Lampada a Milano nel frattempo hanno travolto anche il consigliere regionale Franco Morelli, poi condannato definitivamente a 8 anni e 3 mesi perché, come l’ex giudice Giglio – anche lui condannato – “uomini ridotti alla condizione di ricattabilità e subalternità”. E anche il nuovo corso a Reggio inciampa nell’ennesimo dirigente che rotola nella polvere per i rapporti con i clan di ‘ndrangheta. Lui si chiama Sandro Nicolò, è stato travolto dall’inchiesta antimafia “Libro Nero” e arrestato mentre di FdI era assessore regionale e coordinatore. Per i magistrati era in tutto e per tutto espressione del clan Libri, lo stesso che gli ha ammazzato il padre. Su di lui, le cosche avevano puntato alle regionali del 2014, tanto da esultare in chiaro alla notizia dei risultati: “Con Sandro abbiamo vinto”. Ma l’ex coordinatore di FdI – hanno svelato poi altre indagini – pescava anche fra altre famiglie: “Compare non stai facendo niente per questa campagna elettorale, non ti stai impegnando, io te lo dico, vedi un attimo nella famiglia tutti quanti, però», dice Nicolò intercettato a un uomo del clan Serraino. «Dobbiamo spingere un pò di più, di più, di più» gli dice. La rilevanza penale di interlocuzioni e accordi la definirà il processo, rimane il dato inequivocabile dei rapporti intimi con esponenti dei clan del Reggino.
Le regionali del 2020 e il “derby di ‘ndrangheta” fra i candidati FdI
In FdI è un terremoto, da Roma spediscono in riva allo Stretto in qualità di commissario Edmondo Cirielli, attuale viceministro degli Esteri. È sotto il suo mandato che nascono le candidature di Domenico Creazzo e Giuseppe Neri. Il primo è stato arrestato venti giorni dopo l’elezione in consiglio regionale. L’accusa di aver usato suo fratello Antonio come intermediario per chiedere e ottenere dal clan Alvaro, sostegno e voti alle regionali del 2020. In primo grado è stato assolto, la procura ha fatto appello. Così come ricorso ha presentato contro la decisione del gip di non arrestare Giuseppe Neri, suo grande competitor in FdI in quella tornata elettorale e – emerge dall’inchiesta – anche nella ricerca di consensi fra le famiglie di ‘ndrangheta. Due indagini naturalmente connesse che raccontano manovre e interlocuzioni con i clan di Reggio e provincia per accaparrarsi consensi di mafia. E con la consapevolezza piena – è l’accusa dei magistrati a Neri, condivisa anche dal gip – che fossero voti di clan. Degli Araniti soprattutto, ma anche di altre cosche ha personalmente contattato.
E il mediatore dei clan ordina al capogruppo di FdI: “Tu devi rispondere a me”
“Questi te lo dico ad occhi chiusi, mille voti tra Reggio e provincia, ma proprio perché li conosco”, dice l’attuale capogruppo di FdI in Regione Calabria a Luigione Dattola, che si sappia non indagato. Anche lui candidato ma alle comunali, anche lui di FdI, anche lui speranzoso di un appoggio dei clan per la competizione in arrivo. E si affida a Neri, che per lui bussa alla porta del mediatore degli Araniti e genero del boss Mimmo “il Duca”Araniti, Daniel Barillà, di recente finito ai domiciliari anche per le sue manovre elettorali. All’epoca, i rapporti con lui si sono raffreddati. Dopo le regionali del 2020, le interlocuzioni di Neri con il clan Araniti sono venute fuori, il neoconsigliere regionale si è spaventato e si è eclissato. Ma Barillà è alleato a cui non vuole – o non può – rinunciare. Per questo torna all’ovile e incassa senza battere ciglio gli ordini: “Ti ho sostenuto?! Si! E tu mi devi rispondere a me. Se io me ne fotto dei tuoi amici è un altro conto. Questo è il ragionamento che devi fare”.
Il comunicato di solidarietà stoppato da Roma
Circostanze su cui il partito di Giorgia Meloni non ha proferito fiato, Neri è rimasto capogruppo e nessuno ne ha chiesto le dimissioni. Anzi, nei giorni successivi all’arresto, mentre sui giornali iniziavano a circolare le chiacchierate di Neri con esponenti di più clan, condite di minacce e insulti a giornalisti. Lo stop è arrivato da Roma. La linea imposta è quella del silenzio. O del “calati juncu che passa la china”, abbassati giunco quando passa la piena. Strategia che storicamente anche la ‘ndrangheta adotta quando gli arresti ne scuotono le fondamenta.
(da repubblica.it)

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