CHI NON VUOLE DRAGHI AL QUIRINALE
BERLUSCONI, CONTE, RENZI E LA GAMBA CENTRISTA
“Che Draghi rimanga a Palazzo Chigi è la via prioritaria. Draghi non è fungibile”. È Giuseppe Conte l’ultimo leader sceso dal carro che porterebbe l’attuale presidente del Consiglio al Quirinale.
Una retromarcia annunciata prima due giorni fa in tv, poi ribadita ieri davanti ai suoi parlamentari, dopo che non più di una settimana fa sul quel carro ci era salito più che volentieri.
È uno strano trio di leader quello uscito allo scoperto affinché l’ex presidente della Bce rimanga a fare quello che sta facendo.
Oltre a Conte ecco Silvio Berlusconi, “sempre più convinto” che “interrompere il buon lavoro del governo mentre la ripresa è appena avviata e l’emergenza sanitaria – pur controllata grazie al vaccino – è ancora attuale sarebbe irresponsabile”.
E poi c’è Matteo Renzi, che da Bruxelles dove è andato in trasferta per presentare il suo libro dice e non dice, ma si capisce che sta con il freno a mano tirato: “Draghi può fare tutto: il presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica, della Commissione Europea o del Consiglio Europeo”. Ma quella del Quirinale “è una partita complicata e qualcuno ci ha perso l’osso del collo”.
Per tutti, per motivi diversi e in parte tangenti, non è un attestato di disistima al premier, ma di sostanziale sfiducia che l’attuale maggioranza possa reggere alla secchiata d’acqua che arriverebbe qualora l’ombrello sotto il quale si sono rifugiati venisse improvvisamente chiuso.
Insomma, con Draghi al Quirinale le urne sarebbero assai più vicine. E sono in pochi i parlamentari disposti a immolare la propria pensione – che maturerebbe solo se la legislatura durasse fino al settembre del prossimo anno – sull’altare del Migliore al Colle, nonostante lo pensino o soprattutto perché non lo pensano.
C’è una quarta gamba che si aggiunge alle prime tre in una resilienza sotterranea a che SuperMario cambi lavoro, ed è quella del gruppo Misto.
Un corpaccione di 98 grandi elettori che arriva a sfiorare il 10% di coloro che decideranno nel segreto dell’urna il prossimo inquilino del Colle.
Al Senato 26 provengono dalle fila del Movimento 5 stelle, alla Camera gli eletti con i pentastellati che ora vagolano tra i senza gruppo sono addirittura 43, 14 dei quali confluiti nei ribelli de L’Alternativa c’è.
Una pattuglia che per pregiudiziali ideologiche e pregiudiziali economiche è robustamente contraria da un lato a Draghi, dall’altro a dire addio al Palazzo, avendo tutti o quasi pochissime carte in mano per giocarsi il prossimo giro di giostra.
Il collante dello strano fronte è sopravvivere alle urne, che, complice il taglio dei parlamentari, falcidierebbero gli onorevoli elettori.
Conte lo ha subito. Quando ha provato a proporre la soluzione che prevede l’ex governatore della Banca d’Italia a succedere a Mattarella e di Daniele Franco in virtù della sua competenza e della sua terzietà a potergli fare da successore preservando gli attuali equilibri, apriti cielo.
All’interno dei 5 stelle è partita una gragnuola di sospetti: “Vuole andare al voto e mettere in lista per le prossime elezioni solo i suoi”. Uno stillicidio che lo ha costretto a una precipitosa retromarcia, completata con l’assicurazione al gruppo che “non ci sono le condizioni per una fine anticipata della legislatura”.
Le acque non si sono placate, non tutti si sono convinti della seconda versione, il corpaccione pentastellato, quello che verrà più di tutti decimato alle urne, continua a riunirsi in capannelli in cui l’argomento principe è sempre e solo questo, con tutti i corollari del caso.
Renzi rivendica di aver inventato lui la soluzione Draghi è ha buon gioco a intestarsela, e per lo stesso motivo fatica a dire un no secco all’ipotesi Quirinale. Ovviamente i suoi coltivano una certa refrattarietà a misurarsi con le urne. Dice un parlamentare che “è ovvio che a noi serve tempo per strutturarci, per allargare il campo moderato e liberale con il quale vogliamo essere alternativi ai sovranisti e al centrosinistra che ha scelto i grillini”.
Se si butta un occhio al magro bottino elettorale raccolto da Italia viva si completa il quadro. Berlusconi ha scartato dai suoi alleati: Giorgia Meloni ha detto a chiare lettere che in caso di elezione di Draghi spingerebbe per le urne, Matteo Salvini la seguirebbe volentieri, Giorgetti permettendo. Il Cavaliere frena, gioca una sua partita personale, coltiva velleità senza farsi illusioni, ma soprattutto non vuole finire schiacciato nella morsa dei populisti.
Deve inoltre tenere conto di un importante pezzo del suo partito, a cominciare dall’intera delegazione di governo, che non ha nessuna intenzione di interrompere l’esperienza di questo governo, un’adesione tale che nelle ultime settimane si sono dovuti difendere dalla poco elegante accusa dei falchi di “essersi venduti al premier”.
Una coalizione bizzarra sulla cui tenuta nessuno è pronto a scommettere, anche perché se il treno Draghi partisse direzione Quirinale non sarebbe facile farlo deragliare. Certo poi, spiega un parlamentare di lungo corso, “dipende sempre da come ci si arriva: al primo scrutinio con ovazione sarebbe un conto, al decimo con morti e feriti per strada lo scenario cambierebbe assai”.
(da agenzie)
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