CINQUESTELLE E IL DIRETTORIO: MA RESTA UN PARTITO PERSONALE
RESTERA’ UN MOVIMENTO DI INTEGRALISTI NOMINATI DALL’ALTO… LA SPERANZA CHE RESTI ANCORA IN VITA IN ATTESA CHE EMERGA UNA DESTRA DECENTE
Grillo i suoi ormai non li sopporta più. Non ne può più delle proteste e delle lamentele, delle nevrosi e dei litigi isterici, delle discussioni infinite su chi deve stare dentro e chi fuori.
Sugli scontrini del caffè e le ricevute dei bonifici. È stanco, dice. Lo ripete più volte davanti al corteo dei cittadini-parlamentari in rivolta che gli piombano sotto casa a Bibbona pronti a rimettere tutto in discussione.
Chi me lo ha fatto fare… avrà anche pensato, mentre di malavoglia ascoltava lo sfogatoio degli onorevoli straagitati senza farli entrare.
Perchè sia chiaro, il movimento che ha in mente Beppe Grillo (che ha sempre avuto in mente) non è mai cambiato.
È un progetto preciso, fatto di poche regole, molto semplici. Forse un po’ rudimentali. Forse incompatibili con la lettura oggi prevalente dell’articolo 49 della Costituzione: i partiti dovrebbero consentire ai cittadini di concorrere «con metodo democratico» alla politica nazionale.
Almeno se si pensa che la democraticità interna di qualsiasi organizzazione presupponga regole impersonali.
Però sono regole che chiunque abbia aderito a quel movimento conosceva benissimo: «Regole non imposte a nessuno, se uno vuole le accetta e se entra nel movimento sottoscrive dei patti, anche con gli elettori, e poi li deve mantenere».
Così disse. Punto e basta.
A Grillo interessa un partito coeso che marcia unito, non gli importa se grande o piccolo. Se 20 o 30 escono, per motu proprio o perchè cacciati con web-liturgia, per lui non cambia nulla. La cosa importante è mantenere la rotta e rimanere compatti.
È il partito degli ortodossi quello che ha in mente da sempre. Non un partito pluralista. Non uno in cui siano ammesse correnti e capibastone o battitori liberi.
«Sono dei portavoce, non sono Charles De Gaulle», che non si montino la testa, dichiarava Casaleggio.
L’indicazione del Direttorio di ieri, formato da 5 fedelissimi (Di Battista, Di Maio, Fico, Ruocco e Sibilia) e battezzato con un plebiscito (sì per il 92% dei votanti), non significa tanto un passo verso la democratizzazione e l’autonomizzazione del movimento, quanto un modo per confermare la teoria del partito degli integralisti, nominati dall’alto e senza competizione (la ratifica della rete era un prendere o lasciare, tutto in blocco, quindi in sostanza un ennesimo voto di fiducia sul leader). Un modo per mettere almeno un grado di separazione tra il leader e la base dei parlamentari sempre più in fibrillazione dopo il flop in Calabria e il forte ridimensionamento in Emilia Romagna, rispetto al 2013.
Il progetto di Grillo, anche quando arretra, non cambia, anzi torna alle origini, all’utopia delle battaglie contro tutti e della partecipazione diretta attraverso una piattaforma virtuale.
È un partito personale e sarà difficile riuscire a trasformarlo in qualcos’altro. Molto simile a quello di Berlusconi, con i suoi Direttori o Collegi dei garanti scelti dalla villa di Arcore, appunto. Con il difetto che far sopravvivere nel tempo questi partiti, privi di procedure democratiche interne consolidate, impersonali, è estremamente difficile, quasi impossibile.
D’altro canto, c’è da augurarsi che Grillo e i 5 stelle non scompaiano, visto il rischio che il vino giovane dell’antipolitica finisca travasato nella vecchia botte xenofoba di Salvini.
Dunque meglio che, anche se con un Direttorio di nominati dall’alto e con le procedure della pseudo-democrazia digitale, il Movimento 5 Stelle viva ancora qualche stagione, almeno fino a quando una destra decente non sarà in condizione di riattivare il bipolarismo.
Per dirla tutta, ci sarebbe da sperare, che, invece di nascondersi dietro ai cinque luogotenenti, Grillo si rassereni, tenga aperto il dialogo con i suoi cittadini-anonimi-momentaneamente-in-parlamento e torni in Tv oppure, se proprio è stanchino, impugni il cellulare e parli alla radio.
È difficile che torni ad essere un partito del 30%. Ma continua ad avere un suo perchè. Ha avuto il grande merito di contribuire, seppure come conseguenza inattesa della sua iniziativa, per una «eterogenesi dei fini» direbbero i molto più raffinati, a inaugurare una fase completamente nuova della politica italiana.
E oggi non può lasciare tutti gli indignati alla destra della nuova Lega dei Popoli. In fondo su una cosa Grillo aveva ragione: «Se non ci fossimo stati noi, ci sarebbe un’Alba Dorata anche in Italia».
Più o meno è andata così, fino ad ora.
Elisabetta Gualmini
(da “La Stampa”)
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