CONDANNATI A 21 E 14 ANNI DI CARCERE I FRATELLI ACCUSATI DI AVER UCCISO IL PADRE DURANTE UN LITIGIO: L’UOMO ERA UN VIOLENTO, LI MALTRATTAVA DA TEMPO E CONTINUAVA A DARE LA CACCIA ALLA MOGLIE. MA IN ITALIA LA LEGITTIMA DIFESA VALE SOLO PER I LEGHISTI? ALLORA SCRIVETELO NEL CODICE PENALE
NONOSTANTE IL TRIBUNALE GLI AVESSE INTIMATO DI NON AVVICINARSI. IL 10 AGOSTO 2020 HA VIOLATO IL DIVIETO: SI È PRESENTATO A CASA… I FIGLI HANNO DIFESO LA MADRE
«Sono stato io». Quando il 10 agosto 2020 i carabinieri sono entrati nell’appartamento di via Garrone, a Genova, hanno trovato un cadavere e un giovane di 28 anni che ha subito confessato. Anzi, lo aveva anticipato nella sua telefonata al 112: «Venite, ho colpito mio padre».
A casa con lui c’era il fratello Simone, vent’ anni. A un anno e mezzo dall’omicidio che ha sconvolto il piccolo quartiere di San Biagio in Valpolcevera, la Corte d’assise di Genova ha condannato in primo grado a 21 e 14 anni di carcere i due fratelli Alessio e Simone Scalamandré, accusati di aver ucciso il padre Pasquale durante un litigio furibondo. Ultimo atto di una triste storia familiare
DIVIETO DI AVVICINAMENTO
Pasquale Scalamandré aveva 62 anni, era un ex conducente dell’azienda di trasporti pubblici locali. Ed era violento. Il tribunale aveva emesso nei suoi confronti un provvedimento nel quale intimava di non avvicinarsi ai figli né alla moglie. L’uomo li maltrattava da tempo e continuava a dare la caccia alla moglie, tanto che lei è stata portata al sicuro in una struttura protetta in Sardegna.
Scalamandré però non si rassegnava e quella sera di agosto ha violato il divieto: si è presentato a casa pretendendo che i ragazzi ritirassero la denuncia presentata, con la madre, contro di lui. La discussione si è fatta sempre più accesa finché la situazione è sfuggita al controllo, è nata una lotta terminata quando il maggiore dei due figli ha afferrato un mattarello e ha colpito il padre più volte.
L’arma è stata trovata nell’appartamento, sporca di sangue, insieme a un cacciavite. Alessio ha ricostruito quei terribili momenti davanti ai giudici: «Voleva sapere dove la polizia aveva trasferito mia madre, ma io mi sono rifiutato di dirglielo per proteggerla. Così abbiamo litigato e io l’ho colpito fino a ucciderlo perché mi ha aggredito. A mio padre però volevo molto bene».
Il fratello maggiore si è sempre assunto tutte le responsabilità, escludendo la partecipazione del più piccolo. Entrambi però sono finiti a processo con l’accusa di omicidio volontario in concorso aggravato dal vincolo di parentela. Per Alessio e Simone, che oggi hanno 30 e 22 anni, il sostituto procuratore Francesco Cardona aveva chiesto rispettivamente 22 e 21 anni di carcere.
La Corte d’assise ha applicato per Simone l’articolo 114 del codice penale che implica la «minima importanza» del contributo dell’imputato nella commissione di un reato in concorso, una delle poche attenuanti che consente di abbattere sensibilmente la pena, come indicato dal suo legale Nadia Calafato.
Per Alessio invece la pena inflitta è quella minima prevista dalla legge, dopo che con il Codice Rosso è stata introdotta una modifica che impedisce alle attenuanti di prevalere sull’aggravante del vincolo di parentela: sotto i 21 anni di condanna non si poteva andare.
Il suo avvocato Luca Rinaldi aveva chiesto ai giudici di riconoscere la sussistenza della legittima difesa, quantomeno putativa o come eccesso colposo, visto che Alessio ha colpito il padre dopo una provocazione di quest’ ultimo, e anche che fosse escluso il dolo trasformando il reato in omicidio colposo.
Ma soprattutto, con il parere favorevole del pubblico ministero che sul punto ha presentato una memoria scritta, di rimettere alla Corte Costituzionale proprio l’articolo del Codice rosso che di fatto impedisce al giudice di valutare caso per caso le attenuanti. Istanza che la Corte non ha accolto. «Un caso come quello di Alessio che uccide il padre dopo anni di vessazioni spiega l’avvocato Rinaldi viene così parificato a situazioni molto diverse, per fare un esempio a un figlio che uccide il padre per mere ragioni economiche. Nel caso del torinese Alex Pompa era stato lo stesso pm ha chiedere di sollevare la questione. Questo sarà uno dei nostri motivi di appello».
I due ragazzi, che hanno partecipato a tutte le udienze, hanno assistito in silenzio alla lettura della sentenza. Poi Alessio, che si trova tuttora agli arresti domiciliari, è stato accompagnato a casa dal fratello Simone, dove vivono con la madre che invece ha preferito non essere presente alla lettura del verdetto. Dice il suo difensore: «Alessio è molto provato, ma sa che non è finita».
(da agenzie)
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