CONTANO PIU’ I SOLDI O I DIRITTI? IL BRACCIO DI FERRO TRA UE E ORBAN CHE FRENA IL RECOVERY FUND
IL COMPAGNO DI MERENDE DI SALVINI E MELONI COME SEMPRE OSTACOLA L’ITALIA… RIBADIAMO: CERTI PAESI DELL’EST SENZA VALORI EUROPEI DOVEVANO RESTARE CON LE PEZZE AL CULO, ALTRO CHE SUCCHIARE SOLDI ALL’EUROPA E CON QUELLI RISANARE LA PROPRIA ECONOMIA
Persino sul recovery fund si pone il dilemma di sempre: si possono sacrificare i diritti in nome dell’economia? Europa 2020, piegata dalla pandemia, spinta a decidere l’impossibile: un pacchetto inedito di aiuti ai paesi più in difficoltà , a partire dall’Italia. Eppure, ancora oggi, in questo bel quadretto di passi in avanti compiuti e per niente scontati, adesso si pone l’interrogativo che spesso nella storia ha accompagnato le decisioni politiche.
Nella trattativa in corso tra la presidenza tedesca, a nome degli Stati membri, e il Parlamento europeo già si intravede l’altare sul quale potrebbe essere sacrificato lo stato di diritto. Sacrificio necessario, ci dicono, per far partire i fondi del ‘Next generation Eu’.
L’incastro non è facile da spiegare. Eppure l’enigma è antico, persino banale. Qui si tratta di scegliere.
Da una parte, le intimidazioni di Viktor Orban che, pur di continuare a fare il suo comodo in Ungheria sullo stato di diritto e al tempo stesso godere dei fondi europei, minaccia di bloccare il recovery fund.
Dall’altra, il Parlamento europeo, che chiede invece condizionalità stringenti intorno alle nuove risorse europee: vanno bloccate, è la richiesta, anche solo in presenza di “condizioni generali” di violazione dello stato di diritto e non solo di violazioni “accertate”, come propone l’ultima mediazione presentata ieri dalla presidenza tedesca.
Da tempo, il Consiglio europeo ha aperto un’inchiesta sul rispetto dello stato di diritto in Ungheria e Polonia, su richiesta del Parlamento. Ma finora non ha mai aperto una procedura.
Inoltre, il Ppe – la famiglia dei Popolari, primo gruppo al Parlamento europeo di cui fa parte anche la Cdu di Merkel — ancora non riesce a risolvere il ‘problema Orban’, per ora solo sospeso dal partito su richiesta dei nordici che lo vorrebbero fuori.
In questa cornice, l’indomito ungherese continua a puntare i piedi, minacciando il recovery fund se gli toccano l’accordo raggiunto dai 27 leader Ue a luglio, accordo per il quale aveva esultato insieme al collega polacco Mateusz Morawiecki.
Non solo. Proprio mentre scriviamo, la tensione tra Bruxelles e Budapest sta salendo alle stelle.
In una lettera a Ursula von der Leyen, Orban chiede le dimissioni della vicepresidente della Commissione europea Vera Jourovà¡, responsabile della relazione sullo stato di diritto che verrà comunque presentata domani, confermano da Palazzo Berlaymont. Per il premier ungherese, Jourovà¡ ha fatto dichiarazioni “incompatibili con il suo attuale mandato”, quando ha affermato che in Ungheria si starebbe costruendo “una democrazia malata”.
Si tratta di un “attacco politico contro il governo ungherese democraticamente eletto” e “un’umiliazione all’Ungheria e al popolo ungherese”, scrive Orban, “una palese violazione del principio di leale cooperazione” tra Budapest e la Commissione che dovrebbe invece essere “neutrale”.
Per tutta risposta, Von der Leyen ha rinnovato la fiducia a Jourovà¡. Ma lo scontro non si chiude qui. Anzi aggiunge tensione alla già complicata trattativa sul recovery fund.
Pur di non vedersi bloccati i fondi per i dictat di Budapest, le cancellerie europee insieme alla guida tedesca sarebbero disposte a chiudere un occhio sullo stato di diritto in Ungheria.
Da qui la mediazione morbida proposta ieri da Merkel e respinta dal Parlamento Ue. Oggi il ministro degli Affari europei Enzo Amendola è a Berlino per cercare una mediazione. Ma il paradosso è quello di una Europa che rischia di imbrattare il suo nuovo ‘gioiello’, il recovery fund appunto, con ulteriori passi indietro o semplicemente ignavia sul tema dei diritti e la salvaguardia dei fondamenti della democrazia liberale.
Colpisce che in questa partita i governi nazionali siano più vicini a Orban che alle richieste dell’Europarlamento, vissute quasi come un ‘fastidio’ che può far traballare l’intesa raggiunta a luglio dopo 4 giorni di consiglio europeo.
Stando a fonti parlamentari protagoniste del negoziato in corso, fonti che vogliono restare anonime, la prima carta che la presidenza tedesca ha messo sul tavolo è stata: non tirate la corda, non si può far saltare l’intesa di luglio. Non proprio una mediazione, ecco.
Ma in palio ci sono i soldi per risollevare l’economia, obiettivo giusto e legittimo. Fino al punto di indietreggiare rispetto al ‘sogno’ dei padri fondatori dell’Ue, di soprassedere sui valori cui dovrebbe ispirarsi questa comunità sbocciata nel dopoguerra?
(da “Huffingtonpost”)
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