COSI’ MELONI HA SPRECATO LA SECONDA FINANZIARIA
LA CRESCITA ZERO DEL PIL
I dati recenti diffusi dall’Istat sulla crescita dell’occupazione nell’ultimo trimestre sarebbero da accogliere positivamente se non avessimo avuto al contempo una crescita zero del Pil. Infatti, l’economia italiana nel terzo trimestre rimane stabile dopo il calo fatto registrare nel secondo trimestre dell’anno. Anche la dinamica tendenziale risulta stabile, interrompendo una crescita che durava da dieci trimestri consecutivi. Siamo quasi in recessione tecnica se non fosse per la componente estera che rimane, come sempre, trainante.
– ilfattoquotidiano.it) Questo paradosso è sintomo che l’occupazione è di scarsa qualità, caratterizzata da un numero di ore basse, part-time, e non apporta aumenti di produttività. D’altra parte basta poco per essere considerati occupati secondo i nuovi parametri Eurostat e Istat: è sufficiente avere lavorato un’ora in una settimana.
È una crescita che spesso caratterizza i Paesi poveri, mentre al contrario i Paesi ricchi sono caratterizzati da ciò che viene definita jobless growth, ovvero da una crescita del Pil con scarsa crescita dell’occupazione. Questo perché in genere nei Paesi ricchi cresce maggiormente l’innovazione, che “risparmia lavoro” e sfrutta maggiormente la tecnologia. Se al contrario si fa addirittura competizione attraverso la leva dei bassi salari e della precarietà, allora la produttività non crescerà e nemmeno il Pil. Dunque lavorare non basta, bisogna farlo in maniera produttiva.
Nel nostro Paese, storicamente, la produttività è bassa, ma oggi la trappola che tiene i salari bassi si sta allargando, soprattutto a causa dell’inflazione, dell’assenza di rinnovi contrattuali e di un salario minimo legale. La crescente inflazione, con contratti di lavoro non rinnovati e salari monetari stagnanti, ha causato una riduzione dei salari reali e un ampio margine di espansione da parte delle imprese, che fronteggiano un costo del lavoro più basso, ma vendono i loro beni a prezzi più alti e ottengono profitti crescenti. Questa dinamica è confermata dalle maggiori organizzazioni internazionale, quali la Banca centrale europea e il Fondo monetario internazionale, che hanno dimostrato nell’area euro come la crescita dei profitti sia oggi la principale determinante dell’inflazione. Anche i recenti dati diffusi dall’Istat a fine ottobre 2023 sulla povertà in forte aumento, pari a oltre 5,6 milioni di persone, con oltre 2,18 milioni di famiglie attribuivano la crescita all’inflazione, che ha impoverito il lavoro.
Tutto questo potrebbe interrompersi se introducessimo un salario minimo e se si applicasse una politica dei redditi strutturale, contro l’inflazione, a vantaggio di investimenti in sanità, in scuola, in trasporti, in casa. Se si rafforzasse veramente la contrattazione, a partire da quella pubblica, per rinnovare contratti che nel 70% dei casi, sono scaduti. Se si scegliesse di destinare le poche risorse in investimenti nella sanità, piuttosto che sperperare 4 miliardi in una riduzione ridicola dell’Irpef, per giunta in deficit, con l’accorpamento delle due aliquote basse dal 25% al 23%, con un vantaggio di soli 20 euro mensili ai lavoratori.
Ma non sembra essere questa la strada intrapresa dal governo, che ha sprecato la sua seconda legge di Bilancio per far felici unicamente i mercati internazionali e la stabilità, attraverso una finanziaria definita dagli stessi autori modesta. Ha scontentato invece: 1) le famiglie che a causa dell’inflazione e del caro spesa hanno perso il loro potere di acquisto del 15% in 2 anni e non sono stati rimborsati in nessun modo, ne attraverso la crescita dei salari, ne attraverso una politica dei redditi; 2) i pensionati che in alcuni casi hanno visto perfino peggiorare i requisiti di uscita rispetto alla legge Fornero, mentre in altri (parte dei lavoratori pubblici) si sono visti cambiare le regole di valorizzazione della pensione; 3) il ceto medio che continua a pagare le tasse in modo consistente, vedendo peggiorare i servizi offerti soprattutto nella sanità; 4) i poveri che come ha certificato Istat sono aumentati, e a cui è stato tolto il Reddito di cittadinanza; 5) i giovani che continuano a rimanere precari o a espatriare, ai quali è stato tolto uno dei pochi strumenti che consentiva loro il rientro in Patria agevolato, attraverso una riduzione degli incentivi per il rientro dei cervelli in fuga.
Il governo non riesce nemmeno ad azionare la principale leva disponibile per far crescere gli investimenti, quella del Pnrr, che potrebbe davvero stimolare la crescita del Pil, stagnante. Il Pnrr che tutti abbiamo definito il nuovo Piano Marshall, considerandolo per una volta unanimemente il più ampio programma di investimenti e la guida della nostra politica economica, contro l’austerità, continua ad accumulare ritardi. Ma sembra che questo non faccia più nemmeno tanto notizia.
(da ilfattoquotidiano.it)
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