DALLE TORTURE IN LIBIA ALLA LAUREA IN ITALIA: IL SOGNO DI ABRAHAM UNDICI ANNI DOPO
TRENT’ANNI, NATO IN ERITREA: DAL SEQUESTRO IN SUDAN AL VIAGGIO DI 14 GIORNI NEL DESERTO, DALLA PRIGIONIA IN LIBIA AL VIAGGIO IN MARE
Il 19 settembre di quest’anno, Abraham Tesfai lo ricorderà per sempre. È il giorno in cui si è laureato, il giorno in cui ha coronato un sogno che inseguiva da bambino. Trent’anni, nato e cresciuto in Eritrea, oggi lavora come operatore in una cooperativa. Attivista impegnato per la tutela dei diritti umani dei suoi connazionali, vive a Bologna. Lì ha realizzato quel sogno per cui è scappato dal suo Paese d’origine e nel 2008 ha raggiunto Lampedusa su un’imbarcazione appena più grande di un canotto, scampando alla morte – “eravamo ammassati e il gommone imbarcava acqua”, ricorda – grazie all’intervento di un elicottero e poi di una nave della Marina militare italiana.
In mezzo ci sono il sequestro in Sudan, la fuga e il viaggio di quattordici giorni in mezzo al deserto, l’arrivo e la prigionia in Libia, “lì ho visto tutta la miseria e il male che può esserci su questa terra, lì sono morti i tre amici con i quali ero andato via dall’Eritrea”, racconta e la voce si abbassa di tono.
La sua è la storia di chi crede nella bellezza di un sogno e si impegna per realizzarlo, ma anche di chi si batte per la libertà e i diritti fondamentali, per sollevare il velo sulle sofferenze di milioni di persone contro l’indifferenza montante, in tempi di porti chiusi, invasioni vagheggiate, emergenze umanitarie ignorate, muri reali e simbolici.
Dal suo arrivo in Italia sono passati undici anni, durante i quali Abraham, che allora di anni ne aveva diciannove, ha dovuto ricominciare daccapo. Una volta, due, tre. Quando da Lampedusa è stato destinato in un centro di accoglienza a Caltanissetta e, dopo tre mesi, si è ritrovato per strada, in tasca un visto umanitario.
Conosceva quasi niente di italiano – “purtroppo nelle strutture di accoglienza la lingua si insegna poco” – insieme a un paio di migranti conosciuti da poco, ha deciso di saltare su un treno e raggiungere Bologna.
Racconta Abraham: “Amici eritrei mi ospitarono, ma mi consigliarono di andare in Svizzera”. E lui ci va, prova a ripartire da lì, ma, essendo sbarcato e avendo dunque impresso le sue impronte digitali in Italia, in base a quanto stabilito in linea con l’Agenda europea, viene rimandato indietro.
Torna a Bologna, incontra don Giovanni Nicolini, ex direttore della Caritas locale. “Mi ha dato una piccola stanza – spiega Abraham, mi ha aiutato in un momento tanto difficile. Erano anni di crisi, non avevo punti di riferimento. Davvero non sapevo cosa fare”.
Una cosa, in realtà , la sapeva. Voleva laurearsi. Non solo per ambizione personale. Lo studio, per Abraham, significa prima di tutto “radici” e la possibilità di restare connessi alla storia, sua, personale e familiare, e collettiva, dell’Eritrea.
“Sono nato e cresciuto in una famiglia che ha combattuto per l’indipendenza del mio Paese, i miei genitori hanno trasmesso a noi figli il valore dello studio perchè avessimo possibilità che loro non hanno avuto. Mamma e papà sostenevano il Fronte di liberazione e nel ’91, quando si arrivò all’indipendenza, erano felici”, sospira.
Ma nel volgere di pochi anni i liberatori si trasformano in oppressori e il presidente, Isaias Afewerki, concentra tutto il potere nelle sue mani. Abraham ricorda la disillusione dei suoi, lo sconforto “quando, andavo alle scuole medie, mi arrivò la notizia che l’Università ad Asmara era chiusa”. La situazione peggiora, arriva un editto che impone il servizio militare obbligatorio e permanente a uomini e donne.
Tocca anche a lui e in quelle caserme si ritrova faccia a faccia con l’orrore – “cose inenarrabili. Ci legavano mani e piedi, ci torturavano. Avevo diciotto anni, sono arrivato a odiare la vita – dice – L’unica possibilità di salvezza era andare via”.
E così una notte, insieme a tre amici e sotto una pioggia scrosciante Abraham scappa. Nelle orecchie il suono dell’acqua che veniva giù, in corpo la paura di essere scoperto – “ci avrebbero uccisi di sicuro” – in mente il desiderio di riprendere a studiare e laurearsi.
Quando, respinto dalla Svizzera, torna a Bologna, pensa subito di iscriversi all’Università . “In Eritrea avevo preso il diploma di liceo, ma ce lo aveva il regime, era impossibile ottenere il documento. Così sono andato alla scuola serale”.
L’inizio è in salita: la mattina in giro per lavoro – “magazziniere, autista in una ditta di pulizie, ho fatto tanti lavori” – il pomeriggio tra i banchi. E, sempre, la paura di non farcela, “il disagio di trovarmi accanto all’uomo bianco, che io consideravo superiore. Poi a una verifica di matematica presi il voto più alto della classe e ho iniziato ad avere fiducia nelle mie possibilità . E anche grazie a tanti insegnanti che hanno creduto in me, ho preso il diploma da perito meccanico”.
Passo successivo, l’iscrizione all’Università . Abraham ha scelto la facoltà di Agraria, “per aiutare la gente in Eritrea” e infatti ha centrato la sua tesi sullo studio della coltivazione del teff, un cereale tipico e largamente utilizzato nel suo Paese d’origine. Dal 2012 ha iniziato a supportare i suoi connazionali, intanto arrivati sempre più numerosi in Italia, lavorando anche come interprete, pure per la Questura di Bologna. Fa parte della rete di attivisti “Eritrea democratica”, partecipa a iniziative e organizza incontri e diverse volte è stato ospite in Parlamento, in Italia e a Bruxelles, per denunciare le condizioni in cui vivono gli eritrei nel loro Paese e i migranti rinchiusi nelle carceri libiche.
Corre dei rischi Abraham e lo sa – nel suo “La frontiera” Alessandro Leogrande ha scritto che gli eritrei difficilmente parlano di quanto accade sotto la dittatura di Afewerki rinunciando all”anonimato “per la presenza in tutta Europa di agenti dei servizi eritrei” perchè temono possibili ripercussioni sulle loro famiglie.
“I miei genitori non hanno avuto il visto per raggiungermi nel giorno della laurea, – va avanti Abraham – più volte hanno tentato di tapparmi la bocca, ma io vado avanti. Sapere come stanno le cose è fondamentale. Gli eritrei sono forzati alla migrazione da una situazione insostenibile. Io, e come me, la gran parte dei miei connazionali, non ho mai voluto lasciare il mio Paese d’origine”.
E qui si tocca un’altra questione, che riguarda direttamente una certa narrazione sui migranti. Deformata e deformante, secondo studiosi, esperti e attivisti, eppure negli ultimi anni molto diffusa, sempre più accreditata.
“Se un Paese chiude i suoi porti – spiega Abraham – significa che vuole chiudersi, e questo non va bene. L’Italia non è questa, è un Paese aperto, che vuole guardare al futuro con serenità e noi abbiamo il dovere di impegnarci perchè prevalgano le ragioni della solidarietà e dell’integrazione”.
Dice “noi”, Abraham “perchè, “mi sento cittadino italiano nonostante abbia l’obiettivo di tornare in Eritrea, per avviare una collaborazione tra i due Paesi e so che non potrò farlo fino a quando non cade la dittatura – aggiunge – l’Italia, che all’Eritrea è profondamente legata, può fare qualcosa per cominciare ad affrontare quella che è una vera e propria emergenza umanitaria, al pari di quanto accade nelle carceri libiche. Mi sento cittadino italiano, sì, anche se avendo una carta di soggiorno ufficialmente non lo sono. Ma sono riconoscente a questo Paese, nel quale resterò a vivere fino a quando non potrò tornare in Eritrea, per avermi restituito alla vita, quando quasi avevo perso la speranza, e per avermi consentito di laurearmi, realizzando il sogno di una vita”.
(da agenzie)
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