DANILO TONINELLI, DIETRO GLI OCCHIALI NIENTE
GAFFEUR E FEDELISSIMO, RASSICURANTE E URLATORE, IMPERMEABILE AL RIDICOLO, E’ LO SPIRITO DEI TEMPI
Il modellino di treno che tiene in bella vista, al posto dei libri, sul terzo scaffale della sua boiserie ministeriale nell’ufficio di Porta Pia è da solo il preannuncio di tutto. Danilo Toninelli da Soresina, 44 anni, due figli, sei mesi da ministro alle Infrastrutture e ai trasporti, in fondo a quel treno somiglia. Sotto una teca, posizionato in bella vista, eccolo: la locomotiva di un convoglio fuori contesto.
Non per caso, forse, capita al ministro di riferirsi a se stesso in terza persona: il «sottoscritto», si definisce.
Giunto ormai nel pieno delle sue funzioni , ricevuta rotonda la sua «eredità » da Graziano Delrio che gliela ha lasciata a suo tempo con tanti auguri, Danilo Toninelli sembra perennemente calato da un’altra parte, o diretto altrove: la sua cifra in fondo è l’estraniamento, la sottrazione.
Come se gli mancasse sempre qualcosa, di palpabile e insieme indicibile. Lo si è visto benissimo il 15 novembre, nel giorno del sospirato sì del Senato al decreto su Genova, appena appena novanta giorni dopo la tragedia del ponte Morandi.
Nel mezzo della lettura dei risultati del voto di un decreto giunto alla sua centocinquantesima riscrittura, Toninelli il «sottoscritto» ha slanciato in alto il pugno chiuso della mano destra, per due volte, in segno di vittoria.
Nulla però di epico, di fondante, piuttosto un gesto frivolo, buttato là . Al limite, come ebbe a dire dallo scranno la presidente Elisabetta Alberti Casellati, un «gesticolare in maniera non troppo commendevole per un ministro».
Non commendevole, ma nemmeno minaccioso. Parvero eccessive persino le proteste di Anna Maria Bernini, capogruppo di Forza Italia, per quel pugno senza identità e senza storia, più adatto a racchiudere il vuoto che non a farne il segno di una rivoluzione grillin-guevarista.
Altro che epica. A chi gli rimproverava l’assenza da Roma nei giorni agostani del ponte Morandi, il ministro ebbe a rispondere non a caso sventolando l’orgoglio di una virtù privata, che è all’opposto del sentimento dell’uomo di Stato, di governo.
«Mi fa ridere chi mi accusa di essere al mare con la mia famiglia. Sono fisso al telefono e seguo ogni cosa che riguarda il ministero. E sono felice di farlo stando vicino a chi amo di più ed è quasi sempre lontano. Si chiama amore, ma forse per certa gente è solo un’utopia».
Eccolo, il manifesto toninelliano. Tre metri sopra al cielo: più vicino all’impiegato, però, che all’uomo di governo.
Gaffeur e fedelissimo, rassicurante e urlatore, impermeabile al ridicolo anche quando spiega che nella manovra il ritocco dal 2,4 al 2,04 del Pil «non cambia nulla perchè abbiamo verificato che quei denari avanzavano», Toninelli è lo spirito dei tempi.
E attraverso di lui parla, a vanvera, lo Zeitgeist.
Utilizzando probabilmente il trasporto su gomma attraverso il fantomatico «tunnel del Brennero» che ancora non esiste (e non esisterà fino al 2026) ma che lui confuse con il valico «ma è solo un lapsus e non me ne frega niente dei lapsus perchè lavoro dalle 16 all e18 ore al giorno».
Non antipatico nè particolarmente simpatico, non spaventoso nè eccitante, Toninelli riesce in questo modo nel miracolo di risultare immediatamente riconoscibile pur non avendo, a parte forse i capelli, tratti fondanti che permettano di riconoscerlo.
Insomma un perfetto grillino, roba che nemmeno nei sogni più sfrenati di Gianroberto Casaleggio il Fondatore.
Ancor prima di diventare il protagonista della saga delle Grandi Opere, l’immortale interprete della pièce dal titolo “Valutazione costi-benefici” (trovata del contratto di governo), ancor prima di arrendersi al Terzo valico mutando ancora una volta il «no» in un «sì» come è stato già col gasdotto Tap, Danilo Toninelli ha in effetti attraversato almeno un paio di altre stagioni risultando particolarmente capace di compenetrarsi col ruolo di volta in volta richiesto, e facendo tutt’uno con questo.
Non bisogna dimenticare infatti che la sua prima incarnazione, nella scorsa legislatura, fu quella dell’uomo della legge. Sempre in linea con Grillo e con Casaleggio, era vicepresidente in commissione Affari costituzionali alla Camera, quando ancora Maria Elena Boschi di quella commissione era solo segretaria.
Fu di lì che, un anno e mezzo dopo, uscì dalla bruma indistinta dei grillini, per andare a trattare con Matteo Renzi, allora premier, sulla legge elettorale.
In quello streaming, pietra fondamentale per costruire la futura leadership grillina, Toninelli era l’esperto.
Mentre Luigi Di Maio, per l’ultima volta comprimario in quello che fu l’inizio della sua scalata, era ancora soltanto la faccia nuova che faceva la mossa azzardata. Lo si vede molto bene, nelle immagini di allora.
Toninelli davanti al microfono sdottoreggia di «Democratellum», e magnifica l’esilarante trovata della «preferenza negativa» della quale poi si è inspiegabilmente persa traccia.
Giggino Di Maio annuisce al suo fianco, di fronte all’altrettanto annuente democratica Alessandra Moretti. Era il 25 giugno del 2014. Pochi mesi prima, l’agenzia di stampa Ansa testimoniava l’anonimato del futuro ministro dei Trasporti chiamandolo teneramente in un titolo «Toninelle» e nel testo «Maurizio».
Altro che Maurizio. In pochi anni, invece, Toninelli ha fatto una carriera sfolgorante. Persino superiore alla media comunque sorprendente dell’esercito grillino.
Ex ufficiale di complemento dei carabinieri, ex ispettore di una compagnia assicurativa, l’attuale ministro ha dimostrato uno straordinario talento di comprimario. Forse questo il segreto del successo.
Con Di Maio, ad esempio, ha fatto coppia fissa: dalla fase della riforma costituzionale, fino alla più recente propaganda sul cosiddetto Air Force Renzi. Non a caso, del resto, dopo il 4 marzo finì dritto dritto nel ruolo chiave di capogruppo al Senato – in predicato addirittura per diventare il successore di Grasso a Palazzo Madama – e poi al tavolone per scrivere il contratto di governo, dove si autoattribuì l’immortale definizione di «concentrato».
Dacchè doveva andare alle Riforme, agli Affari costituzionali, Toninelli finì ai Trasporti. E fu persino un bene, perchè questo gli permise l’incontro ravvicinato con il suo successivo mentore, il vicepremier Matteo Salvini.
Fino a nuovo ordine, Toninelli si è fuso infatti con le ragioni del ministro degli Interni al punto da ricevere da costui applausi a scena aperta.
«Nella vicenda Aquarius non si è posto affatto il tema della chiusura dei porti italiani, piuttosto abbiamo sempre chiesto agli altri Paesi di aprire i loro», ebbe a dire, all’apice del cinguettìo sintonico, l’unico politico che avrebbe potuto fare da argine alla linea del capo del Carroccio su porti e immigrazione. «Sono sempre d’accordo con Toninelli», rispondeva compiacente il leghista burattinaio.
Tanta capacità di followship ben si sposa, in fondo, con gli sfolgoranti successi ottenuti sul territorio.
Di Toninelli, gli ingrati usano ricordare in particolare la partecipazione alle elezioni provinciali di Cremona, nel 2010, occasione nella quale raccolse la bellezza di ottantaquattro preferenze.
Ma, per la verità , la sua ultima performance risulta ancora più interessante. Dopo i primi cinque anni alla Camera dei deputati, infatti, Toninelli è riuscito ad entrare al Senato solo grazie al paracadute proporzionale: all’uninominale, per palazzo Madama non ce l’ha fatta, essendo stato totalmente surclassato dalla pitonessa berlusconiana Daniela Santanchè che nella circoscrizione cremonese ha preso il 48 per cento.
Il futuro ministro dei Trasporti è arrivato terzo, col 22 per cento, persino dopo il candidato di centrosinistra, in una tornata elettorale nella quale M5S aveva sfondato il muro del 32 per cento, ottenendo il risultato probabilmente migliore di sempre.
A dispetto di questa valanga di consensi, Toninelli ha conquistato una posizione poi unica, quanto a riconoscibilità .
Anche per i suoi innumeri post, sempre in bilico in un linguaggio da bagni delle elementari che va tra il «Merdellum» col quale definì la legge elettorale Rosatellum, e le «schiforme» d’epoca renziana.
Laureato in Giurisprudenza a Brescia con 100/110, Toninelli non ha il congiuntivo malfermo di altri suoi colleghi, ma nemmeno così saldo da risultare respingente. Perfetto per lo spirito del tempo, anche in questo.
Uno dei suoi orgogli, giusto per festeggiare il suo compleanno, è stato l’aver siglato un «protocollo di intesa» con l’Accademia della Crusca per superare il burocratese: «Ci darà una mano a migliorare tutte le comunicazioni che ogni giorno vengono diramate dal mio ministero. È un tema chiave per me, quasi una fissazione», si vantava.
Peccato poi gli impegni successivi gli abbiano, evidentemente, impedito di stargli dietro. «Antonio Tajani e tutti gli altri che blaterano su Tav si mettano l’anima in pace, la mangiatoia è finita», è l’esempio cardine di uno dei suoi tweet – si ignora se vidimati dalla Crusca.
Sempre un po’ dislocato altrove – troppo sorridente davanti al modellino di Bruno Vespa a Porta a porta, troppo disinvolto nell’annunciare che M5S «vuole creare lo stato etico» – Toninelli è la gioia dei suoi avversari che lo infilzano con voluttà .
Ma risulta impermeabile a tutto. Certamente, dagli inizi, gli hanno evidentemente regolamentato l’uso dei social network.
Un primo step deve essere avvenuto dopo l’incidente di Pioltello, quando Toninelli fece rivoltare l’intera rete prendendosela con il sindaco Giuseppe Sala, trattato alla stregua del responsabile morale della tragedia.
Un secondo step è arrivato in estate, dopo i selfie al mare abbracciato alla moglie quando si era in piena emergenza Genova: da allora, a ben guardare, i figli piccoli finalmente non compaiono più negli scatti.
Pare comunque che non abbia perso il suo tratto naà¯f, lo stesso che ai tempi dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti gli permise di invitare tutti a rispettare «il voto della più antica democrazia del mondo». La più antica.
C’è infatti che Toninelli, alla faccia del pensiero complesso, non perde mai il filo, non arrossisce mai. Non quando dice, a margine di una riunione del consiglio Ue a Bruxelles, che «in pochi mesi al massimo anni, Genova tornerà ad essere più forte di prima».
Non quando spiega davanti alla Camera dei deputati di aver ricevuto «pressioni» per non rendere pubblici gli atti relativi alla concessione ad Autostrade, e neanche quando poi, in mezzo al pandemonio che ha creato da solo, è costretto a spiegare che «pressione non voleva essere sinonimo di minaccia, ma significava il tentativo di convincere una persona a fare o non fare una determinata cosa» (si dubita, anche qui, di un intervento da parte dell’Accademia della Crusca), per finire a incartarsi portando elementi persino precedenti alla sua nomina a ministro.
Con il che diventando, dopo il ministro a sua insaputa, il ministro antecedente, cioè il primo ad aver subito pressioni antecedentemente alla propria nomina.
Ostacolo logico alle sue stesse tesi, nel rapporto tra costi e benefici Toninelli riesce però alla fine ad avere il conto in pari, ed è questo lo sconcertante segreto del suo successo.
(da “L’Espresso”)
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