DRAGHI “L’INGRATO” A CUI IL CAV NON VUOLE CEDERE IL PASSO PER IL COLLE
SE GLI ALLEATI NON LO SOSTENGONO SIAMO AL MUOIA SANSONE CON TUTTI I FILISTEI
Certo, se Draghi gli avesse fatto in questi mesi una telefonata, anche solo di pura cordialità, magari per ringraziarlo del leale sostegno parlamentare o, per dirne un’altra, in occasione dell’ottantacinquesimo compleanno per gli auguri, avrebbe avuto l’effetto quantomeno di togliere un alibi a Silvio Berlusconi.
Agevolando una discussione politica più serena sul Quirinale. Invece, nella testarda, e al momento irreversibile, convinzione con cui il Cavaliere sta inchiodando il centrodestra alla sua candidatura, c’è un non banale elemento anche molto, molto personale.
L’uomo, si sa, è fatto così, piuttosto incline a considerarsi il creatore di successi anche dei più talentuosi, tendendo a enfatizzare la propria benedizione sugli altrui meriti.
E allora, ci risiamo, con l’elenco che dalle parti di Arcore si sono sentiti ripetere con sempre maggiore frequenza, in una specie di training autogeno che si conclude con parola “ingratitudine” associata alla parola Draghi.
Ci risiamo con quella volta in cui lo sostenne come governatore di Bankitalia contro Giulio Tremonti, mica uno qualunque, che voleva Vittorio Grilli. E quell’altra in cui costruì un’operazione europea contro Timmermans per nominarlo a capo della Bce, effettivamente successo non banale rispetto al quale poi si è sentito pressoché abbandonato nel momento del bisogno.
Poi il governo di emergenza che pure Berlusconi aveva invocato per primo coniando la formula del “governo dei migliori” mentre quei baldi giovani dei suoi alleati dicevano “al voto al voto” con o senza mascherine.
Di quel governo, udite udite, ancora non è chiaro come siano stati scelti i ministri di Forza Italia, se il premier incaricato li ha condivisi con Letta o col potente Zampetti, o li ha scelti in solitudine.
Certo non col lui, che si sarebbe aspettato un “Silvio, che ne pensi, sai quanto ci tengo ai tuoi consigli e alla tua esperienza, indicami gli uomini (e le donne) che ritieni più opportuni”. E il modo, direbbe il poeta “ancor l’offende”.
Da ultimo il Quirinale, con un’autocandidatura che il Cavaliere ha vissuto come una sfida, considerando la propria come la prima ipotesi in campo.
In fondo Draghi, dal suo punto di vista, la considera dovuta come Berlusconi la considera dovuta dal suo: ecco, le premesse perfette dell’incidente perfetto.
Altro sarebbe stato, come sussurra timoroso qualcuno, se il premier avesse fatto la mossa di chiedere il sostegno, politico e personale, magari promettendo, nei panni del grande pacificatore della Repubblica, la nomina di senatore a vita per sedare quella fame di riabilitazione simbolica che, nella psicologia dell’uomo, è larga parte della sua impuntatura quirinalizia.
E invece: il fastidio al solo sentire la parola Draghi. Un umore radicato, non mitigato dal passare dei giorni, anzi tutto racconta di un incaponimento. Non è un caso nemmeno che, a proposito di spirito competitivo, proprio Berlusconi, sia stato l’unico a non aver fatto un comunicato nemmeno di circostanza per ringraziare e salutare Mattarella l’ultimo dell’anno, preferendo diramare via facebook un proprio breve messaggio alla nazione, come se fosse già presidente della Repubblica, altro che bis.
E anche a corte si sono adeguati, perché se qualcuno prova a dirgli che qualche rischio nel segreto dell’urna c’è, si sente ripetere che “tranquilli, i voti ci sono”: tra quadri con Madonne inviati a mezzo Parlamento, lettere private, telefonate ai singoli parlamentari anche del gruppo misto ogni giorno la lista si allunga.
Praticamente è fatta, guai a dirgli il contrario. Si sa, Gianni Letta coltiva la speranza, e lavora a tal fine, che alla fine, magari all’ultimo momento utile, il Cavaliere faccia il bel gesto proponendosi come il king maker di Draghi.
Ma è rimasto davvero l’unico, al punto che si è chiuso in un granitico silenzio, se financo l’altro amico di una vita come Fedele Confalonieri e l’amata figlia Marina, proprio loro, si sono lasciati contagiare dalla fermezza della volontà del vecchio leone, cui non si oppongono neanche in privato: “Se vuole provarci, perché no?”.
Loro dicono “perché no?” e gli altri in fondo dicono “come fai dirgli di no?”, nell’ambito di una coalizione dove manca ciò che in questi casi è fondamentale a dipanare la matassa.
Il rapporto personale tra i leader, presupposto un lavorio diplomatico. Si sa come funziona: incontri riservati, colloqui con Gianni Letta amabilmente detestato e amabilmente contraccambiato da Salvini, dialoghi trasversali per creare le condizioni affinché arrivi a miti consigli.
E invece Salvini, che al momento non vuole Draghi, non dice di no a Silvio perché incapace di mettere in campo un piano b, anche se Giorgetti ce l’ha; la Meloni, che con Salvini sì e no si parla, costretta anche lei alla fedeltà.
Morale della favola, nell’anno del signore 2022: il leader, con una proposta in campo (se stesso) al limite del capriccio è sempre il Cavaliere, non perché gli altri la condividano ma perché non solo in grado di superarla e sono spaventati dalla reazione che potrebbe avere: il classico “muoia Sansone con tutti i filistei”.
Beh, insomma, mica male questo centrodestra italico. Se Silvio viene eletto, salta d’un sol colpo, governo, presidenza della Repubblica con mezza Italia che ne chiede le dimissioni in piena pandemia, e paese. Se non viene eletto, salta il centrodestra dei filistei appresso a Sansone. Ancora tutti appesi al destino di Berlusconi.
(da Huffingtonpost)
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