ESPLODE LA RABBIA DEGLI AGENTI: “NON SIAMO NOI AD ESSERE AMICI DEL DITTATORE KAZAKO”
“SACRIFICANO I NOSTRI PER SALVARE I POLITICI: IL BLITZ LO HANNO DECISO LORO, NON NOI”… IL DIPARTIMENTO NEL CAOS PER IL REPUPLISTI
«Ci hanno scaricato. Hanno sacrificato uno dei nostri per salvare la politica », dicevano ieri alcuni funzionari nei corridoi del Dipartimento di pubblica sicurezza, dopo aver sentito il ministro Alfano chiedere l’avvicendamento del loro capo della segreteria, il prefetto Alessandro Valeri, e la riorganizzazione complessiva dell’apparato.
Due richieste che vanno nella stessa direzione, ormai chiara a tutti al Viminale e da tutti temuta: far piazza pulita della vecchia guardia, sostituire gli uomini messi nei ruoli chiave negli ultimi dieci anni dai precedenti capi De Gennaro e Manganelli. Valeri è il primo a saltare.
«Con la scusa dell’esito disastroso del caso Ablyazov, faranno fuori altri dirigenti. Come se fossimo noi poliziotti a essere amici del dittatore kazako, come se avessimo deciso noi il blitz a Casal Palocco».
Per la prima volta da quando Angelino Alfano guida il Viminale, il Dipartimento di pubblica sicurezza, cioè il cuore e il braccio operativo del ministero, si sente lontano dal vertice, dalla testa.
Vittima sacrificale di un errore di valutazione che è stato prima di tutto politico.
«Se un ordine arriva dal capo di gabinetto del ministro – ragionano i funzionari – è come se ti arrivasse da Alfano in persona. È ovvio che chi ha ricevuto la telefonata di Procaccini, e cioè Valeri, abbia preso la cosa con la massima serietà e si sia attivato immediatamente. Cosa avrebbe dovuto fare?».
Lo sconcerto e la tensione che si respira nella Questura di Roma e nella direzione centrale della Polizia criminale, coinvolte nella catena di comando che si è attivata per l’operazione Ablyazov, nascono da qui.
Dalla consapevolezza di aver soltanto eseguito un ordine. Che arrivava dall’alto, dal braccio destro di quel ministro che oggi rivendica la regolarità del blitz e delle procedure seguite per l’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia.
E che però, al contempo, chiede “la testa” di Valeri (sarebbe andato comunque in pensione dal primo ottobre per il compimento dei 65 anni).
E dà mandato al capo della Polizia Alessandro Pansa di riorganizzare tutto il Dipartimento partendo proprio dalla direzione centrale per l’Immigrazione, in attesa da maggio di un nuovo capo dopo il pensionamento del prefetto Rodolfo Ronconi. Eloquente anche la dichiarazione rilasciata in tarda serata dall’ex titolare dell’ufficio immigrazione della Questura di Roma, Maurizio Improta, che ha gestito l’espulsione della moglie del dissidente kazako: «Ho fatto il mio lavoro, come ogni giorno, da sette anni. Per onestà intellettuale ed educazione familiare sono abituato a dire sempre la verità e a non nascondermi dalle mie responsabilità ».
Da ottobre parteciperà al corso di alta formazione per diventare dirigente, come era già stato deciso un mese e mezzo fa.
«Un’incongruenza evidente – sostiene Giuseppe Tiani, segretario generale del Siap – non possiamo accettare che il conflitto politico sotto traccia porti alla ricerca di capri espiatori». Non solo.
«Da tre mesi i sindacati di polizia chiedono un incontro con Alfano – dice Tiani – e a differenza dei suoi predecessori, non ci ha ancora ricevuto».
Anche questo alimenta il malumore interno al Viminale.
Perchè i tre incarichi, ministro dell’Interno, vicepresidente del consiglio e segretario politico del Pdl, ad alcuni sembrano troppi. «Procaccini è stato considerato responsabile della mancata comunicazione dell’esito dell’incontro con l’ambasciatore kazako – ragiona un alto funzionario del Dipartimento – però nemmeno Alfano si è preoccupato di chiedergli spiegazioni. Può capitare quando un ministro ha troppi impegni da seguire».
Fabio Tonacci
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