GEOGRAFIA DI UN PARTITO REPUBBLICANO DISTRUTTO
QUEL CHE RESTA DEI REPUBBLICANI IN MACERIE
Una lunga camminata nel deserto, senza un orizzonte a cui mirare nè un briciolo di unità su dove andare dopo Trump.
Per il partito repubblicano, il risveglio dal giorno più buio della storia recente d’America ha i tratti emaciati e stralunati degli zombie. Perchè ora che i quattro anni di idolatria trumpiana hanno prodotto il loro risultato più tragico — eppure più prevedibile — per nessuno nel GOP sarà più possibile mimetizzarsi dietro al corpaccione e alle invettive del leader.
Ora che il Congresso ha ratificato la vittoria di Joe Biden e i repubblicani hanno perso tutto, compresa la maggioranza in Senato, il partito si ritrova ad affrontare la crisi più profonda nei suoi 167 anni di storia: da oggi in poi nessuno potrà più eludere il bivio, con Trump o contro di lui.
Tra le macerie si aggirano i protagonisti di ieri e di oggi, alcuni irrimediabilmente compromessi, altri meno.
Tutti, tranne rare eccezioni (si legga Mitt Romney) in qualche modo complici di un clima che ha reso possibile lo scempio alla democrazia trasmesso ieri in mondovisione. Uno scempio che The Donald ha intenzione di portare avanti, sotto forma di “lotta per rendere di nuovo grande l’America”.
Partiamo dai due repubblicani più alti in grado nella catena di comando dell’era Trump: il vicepresidente Mike Pence e il leader del Senato Mitch McConnell.
Dal punto di vista formale, nelle ultime ore Pence non si è sottratto ai propri doveri istituzionali: come previsto dal suo ruolo, è stato lui a certificare la vittoria del democratico con 306 grandi elettori contro i 232 di Trump. Con il Parlamento sotto l’assedio – sgangherato e terribile – dei Trump Boys, Pence ha condannato su Twitter “la violenza e la distruzione”, promettendo “il massimo della severità per le persone coinvolte nell’attacco”.
Ma sulle sue spalle pesano responsabilità oggettive e macchie indelebili, a cominciare dall’aver espresso sostegno per l’iniziativa dei lealisti di Trump di presentare obiezioni durante la sessione di conteggio dei voti, la mossa politica che ha alimentato il discorso incendiario del presidente.
Il Washington Post consegna un’analisi lucida e impietosa delle responsabilità di Pence come di McConnell, entrambi impresentabili come sfidanti di Trump “dopo anni di sottomissione”.
Nel caso di Pence — scrive il WP — l’accordo implicito con Trump era cristallino: l’allora candidato alla presidenza lo salvò da una corsa tutta in salita per la riconferma a governatore dell’Indiana, e lui ripagò la gentilezza con una “incrollabile sottomissione, legandosi inestricabilmente a un uomo noto per esigere fedeltà assoluta e raramente ricambiare in cortesia”.
Rimanendo fedele al suo ruolo di volto apparentemente più presentabile del ticket presidenziale, Pence è stato la spalla che ha consentito a Trump di debordare in qualsiasi aspetto del suo mandato
Il 78enne Mitch McConnell, considerato il repubblicano più potente a Washington, ha tirato fuori gli artigli contro Trump fuori tempo massimo, scontrandosi con la pervasività del messaggio sovversivo di Trump.
Dopo aver ufficializzato lo strappo con il presidente a metà dicembre, chiedendo ai senatori repubblicani di evitare un’inutile e autolesionista battaglia al Congresso, l’ex falco Mitch ha parlato con voce rotta al Senato mercoledì, avvertendo che “la nostra democrazia entrerebbe in una spirale di morte” se la parte perdente in un’elezione fosse in grado di ribaltare un risultato equo con accuse infondate. “Gli elettori, i tribunali e gli Stati hanno tutti parlato”, ha detto McConnell. “Se annullassimo i loro pronunciamenti, danneggeremmo per sempre la nostra Repubblica”
Rispetto a Pence, all’ormai ex leader della maggioranza McConnell va riconosciuto di essersi dissociato da Trump su alcune questioni chiave.
Ad esempio, ha condannato vigorosamente il violento raduno dei suprematisti bianchi del 2017 a Charlottesville, in un modo che Trump non ha fatto, dichiarando che “non ci sono neo-nazisti buoni”.
E dopo che Trump non è riuscito a dissociarsi dagli estremisti di destra Proud Boys, McConnell ha detto che era “inaccettabile non condannare i suprematisti bianchi”, pur non menzionando Trump per nome. Allo stesso tempo, però, McConnell ha anche usato il presidente, che è entrato in carica senza un chiaro programma legislativo, per perseguire i propri obiettivi, inclusa la spinta a nominare oltre 220 giudici federali conservatori, insieme alle tre nomine della Corte Suprema.
In un’intervista con il giornalista Bob Woodward, Trump si è vantato che lui e McConnell “hanno battuto ogni record” con i giudici, spiegando: “Sai qual è la cosa più grande di Mitch nel mondo intero? I suoi giudici”.
Su scala più ampia, l’accordo con cui il partito repubblicano si è consegnato a Trump ha comportato l’assecondare i capricci e le passioni antidemocratiche del presidente, in cambio della promessa di un guadagno politico e della speranza di evitare le sue ire. Alcuni, continuando a sostenerlo fino in fondo nella sua battaglia eversiva, si sono candidati come gli eredi di un sentimento reazionario e populista che ha trovato in Trump la sua massima espressione.
Qui il pensiero va subito a Ted Cruz, il senatore del Texas che più di ogni altro si è esposto nel portare avanti la faida di Capitol Hill, insieme a Josh Hawley del Missouri. Per Jonathan Allen, analista di Nbc News, su di loro pesa la colpa di aver sostenuto ogni oltre limite le falsità di Trump. Le loro azioni hanno dimostrato che l’eredità duratura di Trump non riguarderà le grandi vittorie alle urne o nell’arena legislativa, ma piuttosto il suo totale dominio sui compagni repubblicani che cercano disperatamente di essere visti come suoi eredi politici.
Hawley e Cruz, ad esempio, sono entrambi ampiamente considerati potenziali candidati per la nomina presidenziale repubblicana del 2024. Entrambi hanno sostenuto gli sforzi dei membri del Congresso di ribaltare la volontà dell’elettorato mercoledì, insieme a una folta schiera di parlamentari i cui nomi sono incisi in questa brutta pagina di storia: si tratta di 6 senatori e 121 deputati, rimasti fino all’ultimo sotto l’ala di Donald.
Nella geografia disastrata del GOP alla fine della presidenza Trump spicca la voce da sempre critica di Mitt Romney. “Una parte enorme dell’opinione pubblica americana è stata ingannata dal presidente sull’esito delle elezioni”, ha detto il senatore dello Utah in un colloquio con The Atlantic. “Puoi essere un estintore o un lanciafiamme. E il presidente Trump è stato un lanciafiamme ”.
Anche il senatore della Florida Marco Rubio ha respinto con forza l’uso del termine ‘patrioti’ per descrivere la razzia al Campidoglio: “Non c’è niente di patriottico in ciò che sta accadendo a Capitol Hill. Questa è anarchia anti-americana in stile terzo mondo”, ha twittato il 49enne ex candidato alla nomination repubblicana, declinando in altro modo il giudizio dell’ex presidente George W. Bush, che ha parlato di “scene disgustose da repubblica delle banane, uno spettacolo disgustoso che spezza il cuore”.
Ora, dopo l’epilogo più assurdo eppure più logico del mandato di Trump, si moltiplicano le voci dei repubblicani che come zombie si risvegliano da un incubo di cui finora hanno accettato di far parte. La violenza senza precedenti di mercoledì — scrive Bloomberg — ha stimolato un’ondata di critiche repubblicane al presidente, suggerendo la possibilità che il GOP si allontani sempre di più da lui.
Tom Cotton, senatore dell’Arkansas e alleato di lunga data di Trump, ha dichiarato in una nota: ”È tempo che il presidente accetti i risultati delle elezioni, smetta di fuorviare il popolo americano e ripudi la violenza della folla”.
Anche se in extremis, alcuni sostenitori del tentativo di Trump di convincere il Congresso a respingere i voti del Collegio hanno affermato di aver cambiato i loro piani dopo le violenze di ieri.
La senatrice Kelly Loeffler, sconfitta nel ballottaggio in Georgia, ha dichiarato di non poter più sostenere “in buona coscienza” le obiezioni a cui aveva aderito fino a qualche ora prima.
Il senatore Richard Burr della Carolina del Nord ha attribuito la colpa dell’irruzione a Capitol Hill direttamente a Trump: “Il presidente è responsabile degli eventi di oggi per aver promosso le teorie del complotto infondate che hanno portato a questo punto”, ha detto in una nota, osservando che i tribunali avevano già respinto gli sforzi di Trump per ribaltare la sconfitta.
Il senatore Roy Blunt del Missouri, membro del gruppo dirigente del GOP della Camera, ha detto ai giornalisti: ”È un giorno tragico e lui ne ha fatto parte”. L’ex governatore del New Jersey e sostenitore di Trump, Chris Christie, ha segnalato che il presidente e suo figlio avevano parlato alla folla e che la violenza che ne è seguita ”è il risultato delle loro parole”, intenzionale o meno.
Ora la domanda, per tutti, è dove andare dopo Trump, mentre si fa strada l’ipotesi che il presidente venga ‘cacciato’ dalla Casa Bianca prima della scadenza naturale del mandato, il prossimo 20 gennaio. La leva per rimuovere dal suo incarico il presidente uscente potrebbe essere il 25esimo emendamento della Costituzione americana, ipotesi che in queste ore sarebbe al vaglio di molti nell’amministrazione e in Congresso.
Nel dettaglio prevede che il vicepresidente prenda i poteri del Commander in chief come facente funzioni nel caso il presidente muoia, si dimetta o sia rimosso dal suo incarico per incapacità manifesta o malattia. A differenza dell’impeachment, dunque, le norme del 25esimo emendamento consentono di rimuovere il presidente senza che sia necessario elevare accuse precise. E’ sufficiente che il vicepresidente e la maggioranza del governo trasmettano una lettera al Congresso sostenendo che il presidente non è più in grado di esercitare i poteri e i doveri legati al suo incarico. Per il GOP, si tratterebbe dell’ultima faida prima di affrontare un futuro che non è mai stato così incerto.
(da agenzie)
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