GUGLIELMO EPIFANI, IL SOCIALISTA CHE SAPEVA PARLARE AI COMUNISTI
E’ STATO UN RIFORMISTA AUTENTICO, RAZZA INVISA TANTO AI CONSERVATORI QUANTO AGLI INTELLETTUALI GAUCHISTE
È stato il primo socialista a guidare la Cgil, dopo il “biennio rosso” di Sergio Cofferati: i tre milioni di lavoratori al Circo Massimo, una delle più grandi manifestazioni di massa della storia recente, contro la legge Biagi, la politicizzazione del sindacato, la leadership carismatica del Cinese.
Ed è stato il primo socialista a prendere la guida, come “traghettatore” si disse, del Pd, partito nato dalla fusione tra ex comunisti ed ex democristiani, dopo le dimissioni di Pier Luigi Bersani: la “non vittoria” del 2013, i “giorni bugiardi” del Quirinale, un partito già scosso dal renzismo montante. E forse per questo, con cattiveria, i suoi ex compagni del Psi transitati nel centrodestra dicevano: “L’unico socialista ad essere diventato comunista”.
In verità Guglielmo Epifani, il socialista che sapeva parlare con i comunisti, innanzitutto sapeva parlare con i lavoratori.
Come l’ultima volta, un paio di settimane fa, quando in piazza Santi Apostoli è intervenuto al presidio degli operai della Whirlpool. Con la tempra del vecchio leone contro il blocco dei licenziamenti dal 1 luglio, anche se il corpo tradiva già una certa fatica “perché davvero non capisco la differenza tra sbloccarli a luglio o ottobre quando magari l’economia si è ripresa”.
È stato, semplicemente, un riformista autentico, anzi un socialista riformista, razza piuttosto invisa tanto ai conservatori quanto agli intellettuali gauchiste.
Uomo delle eredità complicate da gestire, poco avvezzo ai miti, molto incline al pragmatismo, alla sapiente valutazione dei rapporti di forza.
Mite, riservato così riservato da aver condiviso solo negli ultimi giorni e solo con pochi compagni di partito il riemergere di un problema polmonare che gli è stato fatale.
Gentile nei modi, così galanti e demodé che aveva anche la fama di essere stato un gran tombeur de femme da giovane. Ma anche tosto, riflessivo, calcolatore come si addice a quei dirigenti della sinistra forgiatisi in anni duri, di grandi conflitti sociali.
Entrato da giovane in Cgil, dopo una tesi su Anna Kuliscioff e una militanza socialista, ha percorso nel sindacato tutte le tappe del cursus honorum, da segretario generale aggiunto dei poligrafici fino alla segreteria negli anni di Bruno Trentin, poi segretario aggiunto con Sergio Cofferati, interpretando quel ruolo in modo “unitario”, con coerenza e rigore morale.
Unità è una parola non retorica nel movimento operaio di una volta, è ricerca, costruzione, in anni non facili a sinistra, dopo il “duello” sulla scala mobile, così lacerante nella sinistra politica e in quella sindacale, dove Ottaviano Del Turco si era distinto per posizioni più autonome e conflittuali.
Con gradualità ma anche con una certa maestria tattica Epifani ha gestito per otto anni a partire dal 2002 un sindacato ritornato a fare il sindacato, consapevole che il suo curriculum di socialista mai pentito avrebbe suscitato a corso Italia anche parecchi pregiudizi.
E così stupì tutti quando nel 2003, sterzò a sinistra, schierando la Cgil a favore del sì al referendum sull’articolo 18, mentre il suo predecessore, che solo l’anno prima aveva guidato l’opposizione sociale al governo Berlusconi, dichiarò che si sarebbe astenuto. L’unità del sindacato è sempre la stata la sua bussola: il moderato, mediatore a oltranza ha sempre evitato lo strappo con Fiom radicale movimentista di Gianni Rinaldini e Maurizio Landini.
E, termine di una estenuante trattativa col governo Prodi sul Protocollo del welfare, di quelle a un certo un punto “portate i panini che si va avanti a oltranza”, come segno di distinguo non firmò l’accordo raggiunto ma lo siglò “per presa d’atto”.
Ricordano i cronisti quando in quei giorni a un certo punto si chiuse per qualche ora da solo nella sua stanza, per ritrovare un equilibrio tra nervi e stanchezza montante.
Sono gli anni complicati dell’opposizione a Berlusconi, che segnano il momento più basso nelle relazioni tra i sindacati. La Cgil contro Cisl a Uil, “unici sindacati in Europa a non essersi mobilitati contro la crisi”. La Cisl contro la Cgil “buona solo a fare le parate”.
C’è chi lo chiama isolamento, ma in verità è coerenza, perché la Cgil resta severa anche con Monti quando mette mano allo Statuto dei lavori e poi col jobs act di Renzi affettuosamente ricambiato come “quelli che mettono i gettoni nell’I-Phone”.
In quel periodo Epifani, che aveva traghettato il Pd al congresso, è già in Parlamento, fortemente voluto da Bersani. Quando il gioco si faceva duro, toccava a lui, ricordano i suoi compagni.
Era toccato a lui presentare la candidatura di Franco Marini al Colle, da sindacalista a sindacalista, riconoscendo le differenze di sensibilità ma anche l’afflato di una prospettiva comune. Ed era toccato a lui, nell’assemblea al Parco dei Principi, pronunciare il discorso della scissione della sinistra del partito, che avrebbe dato vita ad Articolo 1: “Per stare in un partito ci vuole rispetto”. Fu un discorso intransigente, col tono di voce pacato. I riformisti veri sono così: duri, ma senza perdere la tenerezza.
(da Huffingtonpost)
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